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Un viaggio continuo nell'assurdo
della vita e dell'umanità
Il racconto di un giovane che nei campi
e fuori è stato insegnante e "padre di figli d'altri"
di ROBERTO CARVELLI
Sono stato padre anch'io per mesi e figli d'altri.
Gennaio è stato inizio di viaggio e maggio è arrivato presto
e ha finito le scuole. Sono andato avanti e indietro per corridoi e vetrate
a caccia d'aule e maestre. Sono stato padre di bambini di cognome slavo
e nomi da piccolo-schermo. Rambo, Geiar, Isaura. Tutti in prima serata
e a colori. Mi ha pagato il Comune per garantire istruzione a questo creato
che accusa tempo e spazi come ferite. Chi dice in debito, chi in credito
della nostra umanità normale-stanziale.
I luoghi comuni Ho amministrato
anch'io i luoghi comuni delle persone di cui ho tentato difese perdenti
e ho capito la sofferenza di questa guerra di posizioni. Corpo a corpo
con le generalizzazioni. Faccia a faccia con una perduranza delle intenzioni.
'Zingari' pronunciato con mano al portafoglio o nasi arricciati per dirne
della nausea. Sono partito anch'io da qui ma ho imparato a lasciare le
narici aperte per scoprire la pulizia e l'ordine della persona come si
diceva un tempo, quando ci si accontentava della pelle e dei capelli, prima
che fosse decisiva la firma dei pantaloni e le parole nuove: griffato,
marcato, per non dire delle lingue degli altri con cui ci parliamo i vestiti,
imbarazzo che sembrerebbe autarchia e non è. Non bastiamo più
a noi stessi non ci basta più la nostra storia o non ci appartiene
più se mai lo fu, nostra, la nostra storia. La circolazione del
denaro ha abbrutito i nostri pensieri che chiamiamo moralismi quando costano
pocoperché la vita oggi è così. E così vuol
dire che non importa più il cuore delle persone e che prima viene
il dio denaro, ma non per attaccamento, per religiosità, si dicesse
che non crediamo più a niente. Crediamo, crediamo. E' solo che abbiamo
scelto un dio ancora più esigente che chiede donazioni e voti che
ci mandano in giro a fare confusione e traffico.
I polsi spezzati Era il 1996, l'anno di Zaira, la bambina del campo della Vasca navale a cui spezzarono tutti e due i polsi. Lo fece un signore che voleva punirla per quelle questue a cartone e mani veloci che cercano le borsette delle persone anziane, o di chi è lento a capire, turisti che vengono da mondi senza scippi e che si fanno appoggiare il cartone sulla pancia mentre una mano di un bambino di quattro o cinque anni, non visto, cerca dentro il portafogli. Questo è il lavoro che tocca a certi bambini almeno fino ad una certa età poi le bambine sono donne e fanno figli, i bambini fanno i mariti e cercano di forzare le porte delle case. Da vecchi non si ruba più. A Zaira andò male: fratture multiple e quaranta giorni. Si discusse molto sulle prime pagine dei giornali e fu esercizio dei fondisti il dire è giusto, è sbagliato, la colpa è dei genitori, la colpa è della società. Zaira faccia nera, labbra grandi e disegnate a parentesi graffa, naso grande e rotondo già dal setto, occhi scuri dal taglio affusolato ma grossi quanto una cento lire, fu guardata e commentata sulle sue due vistose fasciature. Le parole che raccontavano quelle due protesi bianche furono se l'è meritato, le sta bene, poverina, che colpa ne ha. Lo scavo psicologico e le investigazioni del questore aiutarono a trovare discolpe per quel gesto di Zaira. Si scoprì che l'età della bambina era stata mutata all'anagrafe dai genitori che avevano cercato di prolungare quell'attività redditizia dello scippo, mantenerle l'impunità dell'infanzia. Ci furono processi e condanne. Qualcuno ripescò dalla cineteca "Il tempo dei gitani" un film dello slavo Emir Kusturica a suo tempo criticato per un racconto senza censura del difficile crescere di un bambino in una realtà come quella dei villaggi nomadi. Era un film odiato da molti ziganologi perché mostrava il lato insano del vivere ribelle, fuori dagli schemi, senza patria né legge. Calderai in crisi Era il
1996 quelle erano famiglie che non conoscevo. Io mi occupavo del Campo
di Testaccio. Un'area di sosta all'interno del'ex-Mattatoio, un ampio slargo
di sampietrini e terra in cui campeggiavano cinquanta roulotte lunghe una
decina di metri e ben accessoriate. Erano cinquanta famiglie Kalderasha
tra parentele incrociate. A dispetto del nome i Rom Kalderasha sono tutti
italiani parlanti, fiumani d'origine e in Italia dalla seconda guerra mondiale.
Ma per la loro ascendenza balcanica i Rom e Sinti italiani li chiamano
bulgari. La loro storia coincide con la storia di Fiume, città che
nel 1919 fu terreno del contendere e occasione di rotture internazionali
dell'allora Regno d'Italia che non accettava, stante la maggioranza italiana
della città, la volontà americana di separarla, forte della
più netta marca slava del contado. Da lì le imprese di D'Annunzio,
marce, un governo autonomista e poi l'annessione all'Italia, non senza
spargimenti di sangue, che durò fino al 1945 quando diventò
la serbo-croata Rijeka non senza però nostalgie italiane e una questione
sempre aperta.
Come in una prateria del West Una domenica li andammo anche a trovare, a Monterotondo, un piccolo polo industriale a pochi chilometri da Roma. Erano di quella stessa gente, consanguinei e amici che si spostavano a suon di ingiunzioni. Quella domenica erano alle pendici di una collina sotto la pioggia a ridosso di un piccolo bosco di abeti. C'eravamo arrivati passando strade regolari attorno a capannoni industriali. Non sapevamo l'indirizzo e l'appuntamento che ci eravamo dati era un incontro fittizio come spesso accadde in quell'anno sregolato per armonia con l'imprevedibilità zingara. Girammo a vuoto cercando un campo improvvisato. Pioveva a dirotto e i grandi magazzini colorati erano disabitati. Nessuno a cui chiedere, l'unica informazione quella di un barista che ci aveva consigliato quel giro tra le fabbriche. All'improvviso gira e gira arrivammo a uno zero di strada: un circolo concentrico ad un altro, tutti e due asfaltati, all'interno del più piccolo dei quali riconoscemmo quattro roulotte. Scesi dalla vecchia fiesta verde con cui specchiavo povertà dinanzi alle splendide mercedes dei Kalderasha e che era stata soprannominata da loro "il lucertolone" e chiesi se erano loro quelli che... "Solo
alcuni gli altri si sono sistemati da quella parte" e seguimmo nuove indicazioni
che ci portarono allo splendido accampamento nel verde e tra gli alberi
che facevano apparire le roulotte, una modernizzazione delle tende indiane.
Un corteo nel centro di Roma?
Stavano lì da qualche giorno ma in settimana dovevano andare via.
Elencarono una serie di spostamenti e faticammo ad immaginare roulotte
così grandi e così tante in fila a girare tagliando Roma
come una torta che non si può mangiare.
La purezza e la libertà Ma la
tradizione per quanto frequente trova anche delle dissonanze come una vox
difficilior. Per esempio Francois de Vaux de Foletier dopo aver elencato
ipotesi genealogiche che vogliono i nomadi discendenti diretti di Cam o
di Canaan o ancora di Abramo e Sara riporta una tradizione secondo cui
all'unione di Adamo con una prima moglie antecedente Eva sia da imputarsi
la nascita del primo rom, nascita senza peccato originale per cui gli zingari
"sfuggiti al peccato originale, sarebbero esonerati dalla legge del lavoro,
dall'obbligo di guadagnarsi il pane con il sudore della fronte". Questa
purezza primigenia renderebbe così plausibile il sentimento di libertà
che muove le peregrinazioni nomadi, come un universo-casa allargato che
non si possa rinchiudere nella stanzialità. Lo studioso francese
ricorda anche come altre tradizioni siano per radici ebraiche o celtiche.
Altri ancora parlano dei Mori. Una leggenda raccolta dalla studiosa americana
Diane Tong e proveniente dalla tradizione
Dalla leggenda alla storia Il passsaggio
dalle leggende alla storia non è poi così traumatico. Tanto
lo scavo eziologico è ambiguo come buia e la notte dell'origine
del mondo tanto è comune asserire che i rom vengano dal Nord-ovest
dell'India o comunque dall'India. La loro storia sarebbe così una
freccia che passa per l'Iran, l'Armenia, il sud del Caucaso. Da questi
passaggi deriverebbero un numero notevole d'imprestiti. Voci medievali
li vorrebbero in Grecia, disprezzati, schiavizzati e scacciati. Athinganoi,
intoccabili, (da cui l'italiano "zingaro", il francese "tsigane", il tedesco
"zigeuner") li avrebbero chiamati i greci trattandoli alla stregua di paria,
della classe dei chandala. Il 1400 è presumibilmente il secolo dell'arrivo
in Italia. ne sono testimonianza alcune cronache ed editti di scacciata.
Qualcuno li fa originari dell'Egitto da cui avrebbero assunto l'inglese
gypsy e sempre all'Inghilterra del 1542 - luogo di edizione Londra - risalirebbe
il primo frasario di scambio in dialetto romanès o rom
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Roberto
Carvelli, giornalista romano, tra i fondatori di Nonluoghi, descrive in
questo racconto la sua percezione del mondo zingaro, frutto della frequentazione
(13 aprile
2000)
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sommario
del dossier Zingari aprile 2000
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