di
STEFANIA MIOTTO
- Introduzione
Le esperienze prima in Camerun e poi in Romania hanno trasformato radicalmente
il mio approccio alle persone. Prima i miei versi erano sensibili all’umanità
sofferente ma lontani anni luce dalla concretezza della vita se non per
qualche sprazzo di dolore vissuto in prima persona. Dopo la Romania, che
mi ha sbattuto in faccia il lato oscuro del comunismo, la dittatura, le
nefandezze del potere e delle false ideologie ma anche tante persone traboccanti
di vitalità, ho scoperto un lato dell’umanità che credevo
ormai eliminato con la civiltà, con il rispetto della vita, con
il moralismo laico.
Tanta
parte d’umanità soffre vicino a noi e solo condividendo un po’ di
tempo con questi fratelli, che vorremmo evitare, dimenticare per non sentirci
in qualche modo chiamati in causa o additati, possiamo accarezzare il senso
profondo della vita. Non so se sia giusto o sbagliato passare quindici
giorni con le suore di madre Teresa, non so nemmeno quanto, in termini
economici, la presenza di giovani come noi salverà il mondo. Quello
che so è che non dobbiamo sempre partire con l’idea d’essere dei
salva-gente ma bensì dei compagni di viaggio che scelgono per amici
persone che in genere non vengono considerate perché non rientrano
nell’etichetta del bello, bravo, intelligente e pieno di soldi.
Personalmente
sia il Camerun che la Romania mi hanno davvero insegnato la sacralità
della vita e la profondità del rapporto umano; un insegnamento questo
che mi permette di vivere bene e con gioia ogni giorno. Solo partendo dall’amore-dono
e dalla coscienza che siamo strumenti di un progetto divino che mira alla
vera Vita, possiamo trasformare il nostro peregrinare terreno in un’esperienza
meravigliosa, in un’avventura senza eguali.
Per quanto riguarda i versi
qui sotto riportati rispecchiano proprio l’esperienza concreta che abbiamo
vissuto nell’agosto del 1998. La Romania che ho potuto toccare è
stata ben poca cosa per azzardare una sua conoscenza. Più esatto
parlare di una carrellata di emozioni, di sguardi talvolta affrettati soprattutto
nella zona più difficile di Bucarest. Quasi un sonno lungo quindici
giorni scarsi di cui mi sono rimasti dei frammenti, delle sensazioni paragonabili
a schegge conficcate nella memoria in modo confuso e disordinato.
Ho voluto che
rimanessero tali: pezzi di un contatto epidermico, superficiale anche se
ho tentato, come gli altri ragazzi del gruppo, di andare oltre l’esperienza
sensibile, al di là di ciò che toccavo con mano per vivere
fino in fondo ogni momento della giornata. Soprattutto ho voluto lasciare
i contrasti, i dubbi, i puzzle che non coincidevano come note disgiunte
in spartiti ricomposti in ordine errato. Questa scelta è stata dettata
dalla consapevolezza che ogni paese ha sì le sue croci, ed è
indubbio che alcuni le abbiano più visibili di altri, ma è
anche vero che presenta le sue glorie, le sue bellezze, il suo fascino
e mi sembrava disonesto trascurare il bene per il male, il brutto per il
bello solo perché fa più notizia e tocca maggiormente il
cuore della gente sempre più avvezza alla bruttura e alla violenza.
Dedico questi scarni
versi ai bambini che vivono nei centri di Chitila e Milcov dove operano
le suore di madre Teresa. Un ringraziamento al gruppo con cui ho condiviso
l’esperienza, agli amici rumeni, alle suore e in particolar modo a padre
Martin che ci ha accolti senza riserve nella sua canonica e ci ha insegnato
anche a vivere la fede in modo diverso dal nostro tutto fare occidentale.
Sicuramente, se non fosse stato per tutte queste persone, avrei perso davvero
un pezzo importante della mia crescita e quindi mi ritrovo ancora una volta
in debito verso questi “angeli” senz’ali.
E
venne il sole
Prologo
1 Sono il vento e divulgo
notizia di stagioni
che si susseguono.
Dalle foglie morte
nacque il fiore
dai lamenti il canto
a infinite direzioni
Autunno
Si ridesta l’eco, broscia
arcana
di sensi ancora obliterati
10 bisbigli opachi e rinchiusi
in quell’alone dello sgabuzzino
di cui ho cestinato le chiavi
e fors’anche un lembo madido
del mio sentire umanizzato.
Si risveglia sorda la gattina
ingravidata e agonizzante
al bivio della strada muschiata.
La civetta sul camino gonfia
le piume per esseri in potenza.
20 Scopro atterrita il degrado
ma dov’è l’aggancio?
S’è smarrita la storia
di Vico
sotterrato un pezzo, denigrato
come il fariseo l’adultera
o un serial killer e la
sua vittima
Il giorno non ha più
notte
per posare la testa arida
Il compagno misconosce il
grembo
dove ricomporre un pezzo
di sé
30 e di ricreata umanità
specchio spezzato del suo
antico esistere, sopravvive.
Troppi grembi gelosi
espellono indifferenti la
vita
tante radici avide di soli
attimi
affondano nella terra consunta.
È quasi una gara
di stupri
fra l’aeroporto e la dogana;
è un rincorrersi
d’ipocriti
40 tra l’ufficio e la casa.
Di sera Paola aspetta il
marito
e compra video games ai
figli
evita il marocchino e libera
il cane in giardino.
Ma non sa: l’inverno è
alle porte
e suo marito ha cambiato
le stagioni e i classici
amori.
L’uomo distinto, con la
cravatta
s’aggira fra i vicoli della
città
50 allunga il biglietto
da visita,
l’identità smarrita.
L’inverno si nasconde smanioso
in un albergo squallido,
povero
dentro quattro mura incalcinate
i bambini degli altri son
più belli.
“Ciao caro, buon viaggio”
disse Paola
si toglie gli occhiali,
lo bacia.
Inverno
C’erano state lunghe notti
e freddi temporali
accigliati
60 l’erba secca calpestata
da qualche vacca magra
e poi l’inverno tetro
aveva celato ogni come
con profumo di legna e
resina stilata dai camini
di campi spinati coi fili.
Qualche eco vago d’animale
(o forse era un uomo?)
affamato rimbalzava
70 di scena in scena
seguendo lepri spaurite
cercare un sicuro riparo
abbastanza stretto, così,
da non far passare la morte
che s’aggirava insidiosa
e sbavante
fra le canne dei fucili
puntati
e le dentiere di ferro
che scattavano a ghigliottina
ad ogni fremito di zampa.
80 E correvano veloci senza
zenit
gli animali del bosco,
incassati fra morse di trincea
e filo spinato, così
stretti
che i soli cuccioli
potevano stiparsi e sfiorare
il teschio spolpato e freddo.
Gli orsi tranquilli dormivano
nei palazzi … temporeggiando
una nuova primavera
90 ma Praga era ancora lontana.
In uno specchio parallelo
di altro tempo diverso
s’ammassavano in ecatombe.
Brulicavano mezze parole,
sogni confusi di un eden
diverso dall’odore acre
di fogna
(forse un grembo di madre,
una culla o un letto d’ospedale)
Sopra smorfie di disgusto,
100 qualche pedata gratuita.
Giornate senza sole visibile
degustavano i pochi anni;
notti di lussuria a spezzare
distorti e lacerati pensieri.
Giovannino, additato come
“nato per crepare” sniffò
prima di risalire in superficie.
Credeva di contemplare la
luce
ma era un abbaglio
110 di due fanali puntati
alla vita
era solo il tintinnare di
4 lire
messe in tasca e l’alito
putrido
ancora sputato sul collo.
Sospeso fra terrore e dolore
si cinse di un conopeo.
Mai credette che l’obbrobrio
si potesse chiamare amore.
Un nuovo Erode ne aveva
ammassati
tanti in blocchi di cemento
120 i cani erano fuggiti
per le vie
lontani dal centro, dall’odio
della comune senza bussola.
Il palazzo dalle maniglie
d’oro
conosceva i nomi dei costruttori
che non avrebbero più
parlato.
Nuovo e ignavo pinocchio
che si muoveva sopraffatto
da comandi stranieri
prima d’essere ammazzato.
130 I Mangiafuoco occidentali
si cibavano nel Mc Donalds
altri bevevano vodka.
Città spettrale invasa
da don Chiscotte
che s’aggiravano a sterilizzare
cani
attorniati da bambini senza
nome.
Non pretendevano una cecia
ma solo un cartone morbido
dove distendere le membra.
Un soldo onesto, un pezzo
di pane
140 e meno pietismo di sguardi
lontani
e colonne di giornali ipocriti.
Fuggire le telecamere false
a immagini irreali che
distorcevano anche il buono.
In sordina occhi vivaci
ma il male echeggia lo scoop
Primavera
Peter fuggì agli sguardi
curiosi
nel supermercato il formaggio
galleggiava nell’acido bianco.
150 Comprò un pezzo
di pane
con i soldi del vecchiaccio;
la macellaia, una grassa
bionda
un po’ sporca affettò
la carne
fra le unghie lunghe e pesanti
laccate di smalto e sangue.
Erano in due ma comprarono
quasi tutto ciò che
c’era.
Peter fuggì agli
sguardi curiosi
nel mercato dei Rom profumi
160 di pomodori rossi e
cocomeri.
Piramidi di fresca lattuga
arcobaleni di carote e rape.
L’arte esplodeva nei banchi
fra le distese di ortaggi
e gli uomini indaffarati.
Una donna col fazzoletto
pesò
venti chili di patate bianche.
Erano due ma comprarono
quasi tutto ciò che
c’era.
170 E Peter ora seguiva
curioso
lo sguardo della gente su
loro.
Prima di tornare a casa
avrebbe giocato ancora in
via.
I carri passavano ondeggiando
al ciglio della strada consunta.
Carri di legno che scricchiolavano
millenari di un’antica cultura.
E i cavalli orgogliosi fiancheggiavano
auto scassate e filobus
gialli.
180 Cavalli, cani e bambini.
Venditori di cocomeri:
era una vita che scorreva
accanto
Peter salterellava schiamazzando
fra i compagni della banda.
Le donne appollaiate con
il fagotto;
ogni donna un mucchio di
cocomeri
e un po’ di bambini.
Ogni uomo un carro e una
moglie
da riportare a casa e un
calesse
190 da riagganciare prima
di sera.
E Peter ora seguiva curioso
lo sguardo di loro su loro.
Erano puliti e chiassosi
forse un po’ fessi; avrebbero
regalato da mangiare,
o qualcosa da barattare.
Peter rideva sotto i baffi:
mai visti tanti matti occidentali
fra cani randagi e filobus
gialli.
200 Avevano percorso il
tempo
mangiato al salto
ammirato le distese di girasole.
Il ritmo era rallentato
con il caldo;
le oche in mezzo alla strada
i carretti al passo, gli
ambulanti
fra marciapiedi e sterrato.
Sonnecchiando nelle ore
calde
cercando un bagno che non
c’era.
I tetti degli zingari ghirigori
orientali
210 fantasie artistiche
spettacolari
piccoli castelli argentei.
Nella terra dei vampiri,
al di là dell’acqua
si ricordava l’altra terra
patria di una follia fratricida.
Sfiorandola, antichi ricordi
d’immagini televisive violente.
Calava il silenzio nell’ondeggiare
di poche barche e carne
umana.
Buche fra le ruote consunte,
220 polvere e polvere, poi
il sole
e ancora polvere e fatica
forse sarebbe arrivato Caronte.
Estate
I cani non hanno le pance
piene
di notte ululano come lupi;
scorribande dentate e aggressive
si contendono il territorio
e qualche osso spolpato
tra i rifiuti.
Peter rincasa e guarda le
stelle;
la finestra è sprovvista
di tapparelle
230 al quinto piano del
blocco n° 6.
Al buio il pensiero sobilla
ricordi di altre visioni.
Frema, vibra, si schiude
l’universo e il mondo.
Non occorrono passaporti,
né visti o prestazioni.
A spasso per New York
Roma, Parigi o Londra.
In giro con lo sguardo
240 fisso su loro: gli sconosciuti
venuti da lontano
senza un motivo normale.
Culla l’afa strane congetture,
l’Ellade sembra lontana
e
le sirene rauche e disidratate
cambieranno mestiere.
Altre ninfe sono approdate
nella minutezza di mani,
volte silenziose a pregare
250 il Dio di ogni uomo.
Ninfe dal sari bianco
e qualche riga blu.
Domani Giovannino
avrà una nuova vita.
Peter sorride al cielo di
stelle,
corre il pensiero alle esili
figure
di donne lontane e vicine
che fendono l’aria col sorriso.
S’addormentano i ragazzi,
260 domani sorgerà
il Sole;
sotto l’azzurro di questa
città
rinasce contrita l’erba
dopo il lungo inverno.
Commiato
E così venne il Sole
su Peter e Giovannino
e verrà il Sole su
te e su me.
Guardando le nostre mani:
saranno sempre nude
per afferrare infinite sensazioni
abbracciando nuovi cuori
|
o |
Stefania
Miotto vive a Castelfranco Veneto (Treviso).
Il
sommario
dei
racconti
(26
aprile 2001)
Le
news
e
i commenti
nel
notiziario
di
Nonluoghi
|