ile interviste

Matvejevic: il Kosovo e una pace senza convivenza
 


di FRANCA ELLER

   Il rito si ripete: la hall dell'albergo, il registratore, e il solito sguardo di sbigottita impotenza negli occhi chiari di Predrag Matvejevic. Ma quante volte ormai gli ho chiesto di questa guerra? All'inizio - era la primavera del '91, Matvejevic aveva presentato a Milano il suo "Mediterraneo: un nuovo breviario"; c'erano stati il massacro di Boravo Selo, gli assedi di Vukovar e di Osjek, le bombe su Dubrovnik e Zara - le domande erano ancora astratte: riguardavano storia, religione, cultura di popoli di una "Altra Europa" che improvvisamente scoprivamo così vicini. 

   E le risposte parlavano dell'unità del Mediterraneo fratturata dallo scisma cristiano, dei baluardi della cristianità e delle enclavi musulmane, delle aspirazioni all'identità di etnie troppo a lungo costrette in un coacervo di popoli (era arrivata l'indipendenza della Croazia e della Slovenia), della chiusura delle genti di montagna e di campagna nei confronti delle più aperte, ricche e cosmopolite città della costa, di sogni nostalgici scivolati in particolarismi. Erano i tentativi di capire e di interpretare di un intellettuale che ancora sperava, nonostante tutto, nonostante i rigurgiti e le rimozioni apparenti e le colpevoli ipocrisie; ancora si voleva illudere che esistesse una società civile, "in questa e nell'altra Europa, d'accordo con me che la particolarità di per sé non è un valore; che le identità non devono essere concepite al singolare ma al plurale: idem sed non unum". Perché intellettuale ed europeo Predrag Matvejevic lo è davvero, uno dei pochi grandi intellettuali che l'Europa contemporanea possa vantare: uno scrittore che ha messo la sua penna al servizio di un impegno civile mai venuto meno, e che oggi vive la triste condizione di un "asilo/esilio" - come lo chiama lui - e non ha nemmeno più una patria. "Sono nato a Mostar - ci aveva detto esattamente un anno dopo; avevamo assistito all'escalation di orrori indicibili, la Krajna, la Vojvodina, le elezioni-burla del piccolo Führer dei Balcani, l'assenza dell'Europa, l'assedio di Sarajevo, la distruzione di Mostar - mio padre era un marinaio del Baltico, mia madre una croata della costa. C'erano cattolici, ortodossi, musulmani tra la popolazione di Mostar, e scuole e luoghi di culto per tutti. Oggi la Neretva, che con i suoi ponti univa la città, è solo il confine fra due cimiteri".

   Allora Matvejevic aveva aggiornato il suo famoso "Epistolario": scriveva per la seconda volta a Milosevic che ormai gli restava una sola strada da percorrere, quella del suicidio. Poi, nemmeno a Zagabria, dove viveva e insegnava, ci fu più posto per lui. Nel giugno del '93 - erano appena morti tre giovani italiani che portavano aiuti umanitari - lo avevamo raggiunto telefonicamente a Parigi, a casa della figlia; le domande erano più concrete, incalzanti, le risposte più personali: "Due settimane fa ho perso uno zio che mi aveva fatto da padre a Mostar, e un cugino ventenne obiettore di coscienza; gli estremisti croati lo hanno portato via e gli hanno tagliato le gambe; si è ammazzato. Per il Circolo di Belgrado (la voce della dissidenza serba) ho scritto la prefazione a "L'altra Serbia: gli intellettuali e la guerra", così non posso più essere pubblicato a Zagabria, dove ho subito pesanti ammonimenti. Oggi vivo tra Parigi e Roma...Non si possono più fare dissertazioni sulle origini di questo conflitto: sono gli effetti del dopo-titoismo oppure si aggirano fra questi morti i fantasmi della guerra dei trent'anni? Che differenza fa? C'è pericolo che, come una reazione a catena, il conflitto possa allargarsi al Kosovo e alla Macedonia: il Kosovo era nel Medioevo il cuore della Serbia, antemurale cristiano contro l'espansione musulmana".

   A metà maggio incontriamo Matvejevic a Torino, relatore al convegno organizzato dalla Fiera del Libro su "La polveriera dei Balcani": è stanco, deluso, provato, ma continua ad essere quella voce "che non può essere messa a tacere"o, come l'ha definito Moni Ovadia "il cuore dell'Altra Europa"; instancabile nell'abbracciare ogni giusta causari e nel denunciare l'ipocrisia. "Soprattutto - ci dice - quella di una guerra giusta e umanitaria. Ma dov'è l'umanesimo della guerra? Qui c'è solo il colonialismo e la logica della guerra che si autoproduce. La Nato rimane uno strumento militare della guerra fredda. E finirà con i due nemici che, a modo loro, vincono entrambi: la Nato piazzata nei Balcani e Milosevic in Serbia a gestirsi anche gli aiuti della ricostruzione".

  Le sue parole del '93 sono state profetiche, la polveriera balcanica oggi è esplosa: quanta parte di colpa spetta all'Europa?

  «La massima parte. C'era una strategia diplomatica da percorrere, e non lo si è fatto. Non lo si sapeva forse già 7, 6 o 5 anni fa che la pulizia etnica era ampiamente in atto? Oggi, dopo l'ambigua pace di Dayton e il trattato-farsa di Rambouillet, alla guerra ci si è arrivati per forza. E scuote la coscienza il modo in cui ci si è arrivati». 

  Vuole forse dire che un'Europa meno cieca, meno ingenua, o meno in malafede avrebbe potuto appoggiare l'opposizione al regime dell'ultimo tirannosauro dell'Est?

   «Certamente. E si poteva evitare così anche la tragedia della Bosnia-Erzegovina. Belgrado è stata la prima capitale del disgelo; nel '48, con la rottura fra Tito e Stalin, si è cercato qui uno spazio nuovo per la cultura, molto più che a Zagabria o a Lubjana; qui i serbi hanno mostrato il loro coraggio e il forte anelito della società civile verso la cultura occidentale. Al contrario, l'Europa, con la sua politica di tutti questi anni, non ha fatto che legittimare le leadership nazionaliste di ogni paese dell'Est. Nulla è stato fatto per capire, prevenire, mitigare i nazionalismi nati dalla frammentazione dell'Europa post-comunista. Dov'era l'Europa al momento della massima caduta di consenso interno di Milosevic?».

  Per questi regimi lei ha creato il termine demokratura!

   «Tutto si inserisce nel contesto della fragilità dell'Europa post-comunista. Non è crollato solo un sistema, è esplosa una società. Si credeva allora di poter conquistare il presente, ma non si dominava il passato; nascevano libertà di cui non si sapeva cosa fare: in questo spazio la cultura si restringe e diventa ideologia, nazionalismo; e poiché non c'è posto per le Grandomanie dei piccoli satrapi, laddove i confini sono già tracciati, ecco le pulizie etniche».

   Si parla di crudeltà balcanica...

   «La crudeltà è un sottoprodotto della cultura. Lo spiega bene Andric nel suo romanzo più celebre dove parla dell'impalatura: con questa terribile sofferenza noi abbiamo fermato le invasioni arabe, siamo stati lo scudo grazie al quale si è salvata ed è cresciuta la civiltà europea, Vienna, Venezia, Parigi. Nel Kosovo è stata annientata una civiltà che era superiore al Rinascimento europeo. È rimasta solo la sofferenza».

   Oggi, dopo tanta sofferenza, tanta distruzione e tanto sangue, si affaccia finalmente la pace. Raggiungiamo telefonicamente Matvejevic nella sua casa romana; è reduce da una serie di incontri con le minoranze slave in Italia. 

   Quali sono i primi aggettivi con cui definirebbe questa pace?

   «È una pace amara, inquieta e incompiuta. Amara perché è da una parte, quella serba, una sconfitta senza umiliazioni, e dall'altra una vittoria senza gloria. Inquieta perché in realtà nessuno sa quanto sia tregua piuttosto che pace. Incompiuta perché rimane nella memoria: le nuove memorie dei figli delle vittime si aggiungono alle vecchie che hanno generato la guerra».

  Non è stata anche guerra di religione?

   «Assolutamente no. Piuttosto possiamo parlare di fratture in cui non si è verificato un sano processo di laicismo. Da questa mancanza di laicità, di non sufficiente allontanamento dalla memoria, con una buona dose di manipolazione, sono nati gli integralismi».

  I profughi torneranno alle loro terre?

   «È difficile tornare su terre bruciate; e la convivenza fra kosovari serbi e kosovari albanesi pare irrimediabilmente compromessa: la memoria punisce, e non ci si può difendere dalla sua eredità».

  Non pensa che la sconfitta di Milosevic possa finalmente innescare quel processo di democratizzazione del paese che sembrava già in atto un paio d'anni fa?

   «Non ne sono molto convinto: Milosevic è campione di ambiguità e di trasformismo e l'Europa ha già perso la sua opportunità. Mentre alla Russia è riuscito di abbattere il regime di Ceausescu. Bisognerebbe avere più fiducia nella Russia. Chissà...».

  Lei non pare troppo entusiasta di questa pace.

   «Alcuni mesi fa avevo espresso a Botteghe Oscure il mio pensiero circa la possibilità di un'intermediazione fra Italia e Russia, che poi si è rivelato valido. Ma quanto sangue inutile, per arrivare ad una tregua, non ad una pace».

   Qual è oggi il compito di un intellettuale?

   «Non demordere. Come intellettuale, mi sento colpevole per chi ha prodotto a fini bellici tutti quegli strumenti di altissima scientificità: anche la cultura ne è coinvolta, poiché non si fa scienza senza cultura. E poi, forse proprio perché sono vissuto a cavallo di questo muro che divide le due Europe, io credo fermamente nell'Europa, ma non in un'Europa egocentrica. Bisogna avvicinarla all'Altra Europa, alla Russia di Blok, che ha sempre guardato con passione alla cultura occidentale: è questo il compito di noi intellettuali fra le due culture. Non solo: dobbiamo anche far dialogare entrambe con il Sud del mondo. Come meticcio (russo/bosniaco/croato) mi sono sempre schierato dalla parte delle vittime, con quelle di Vukovar, di Srebrenjza, ma anche con quelle della Nato; e il mio impegno è oggi più che mai quello di dare voce e di difendere ogni minoranza, ogni particolarità che non sia particolarismo. È tempo di definire e di garantire ogni diritto e difesa per ogni minoranza: nazionale, linguistica e sociale. Come scrittore, sto lavorando ad un testo a tre mani - bosniaco/serbo/croato - che fa il ritratto dei "suicidi". Ce n'è una lunga teoria fra i nostri capi; è il destino dei satrapi».


o Pubblichiamo un'intervista raccolta nella primavera-estate 1999 (in due tempi, prima e dopo la fine dei bombardamenti sulla ex Jugoslavia) con lo scrittore e professore universitario Predrag Matvejevic, nato da genitori di etnie diverse a Mostar, in Bosnia, e vissuto a lungo in Croazia prima di trasferirsi in Italia e Francia (tuttora vive fra Roma e Parigi). Si parla di guerra, di Balcani come polveriera e di Europa incapace di disinnescare i detonatori o additittua indirettamente complice delle sanguinose strategie dei santoni armati dell'etnocentrismo e delle crociate religiose. MA si parla anche del ruolo degli intellettuali, di chi può e deve informare, aprire orizzonti, invitare alla riflessione, frenare la deriva apatica auspicata, invece, dalle oligarchie del potere politico e economico.

In nonluoghi anche un articolo di Matvejevic sul Mediterraneo

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