ile notizie

Peja-Pec, sulla città violentata l'ombra della vendetta
Appunti di viaggio un anno dopo: non manca l'odio, mancano semplicemente i serbi
 

di ANTONIO CAIAZZA

   PEC  - L'elicottero atterra in una nuvola di polvere che, appena si dirada,
scopre un gruppo di bambini sorridenti, dall'altra parte della recinzione
del campo. Hanno caschetti di capelli biondi e salutano con la mano. Sono
lontani, ma immagino le loro lentiggini e gli occhietti vispi. 

   C'erano anche loro un anno fa nel fango, alla frontiera con la Macedonia, ed erano centinaia, migliaia, tutti gracili e tutti silenziosi, pazienti, tutti già
piccoli uomini. La melma arrivava fino ai loro polpacci, a stento
riuscivano a tirare su le gambe e a non lasciarci dentro le scarpe. Quante
notti hanno passato sotto la pioggia, un anno fa, quei quattro marmocchi
vivaci con lo zaino a tracolla che ora mi fanno ciao? E quanti giornalisti
con i loro block notes impotenti hanno visto aggirarsi tra le tende del
loro campo profughi, mentre notte e giorno il cielo rimandava a terra il
rombo cupo dei jet della Nato?

   Eccoli di nuovo i giornalisti, ancora con i loro block notes, venuti
stavolta a vederli vivere nella loro terra. L'elicottero dell'Esercito
italiano vola da Skopje a Pec (Peja, in albanese) col portellone posteriore
aperto. Gli occhi sono abbagliati dalla neve. Dopo la frontiera si
intravedono villaggi raccolti intorno ai minareti. Sulla vetta di una
collina si erge un piccolo monastero, a forma di croce, e con le croci su
ognuno dei quattro bracci. Sembra intatto, come i villaggi, come i
minareti, come il Kosovo visto da qui su e nascosto sotto il velo bianco
della neve. Poi ecco i segni della guerra: le case di cui restano solo le
mura perimetrali, annerite dalle fiamme che hanno divorato le travi di
legno dei tetti. Appena atterrati, l'impatto con la desolazione. Solo loro,
i bambini, danno vita a questa terra distrutta. Ovunque carcasse, macerie,
strade sterrate e colme di fango, case sbrecciate, pali dell'elettricità e
dei telefoni sbilenchi con i fili molli che descrivono larghe curve. Quando
i fili ci sono. Un rigagnolo d'acqua calda scorre da una sorgiva, spandendo
un alone di vapore. Altri bimbi ci tengono dentro gli stivaletti di
plastica per riscaldare i piedi e intanto giocano e riempiono l'aria con le
loro risate.

   Pec un anno dopo è una città polverosa, abitata da gente che sembra
aggirarsi senza meta lungo le due strade principali. Sui marciapiedi c'è
tutta l'economia del Kosovo di oggi: bancarelle con bibite arrivate
dall'Albania e verdura macedone. E sigarette a volontà. In prossimità del
centro, l'insegna del bar Aviano: intitolato alla base aerea da cui partì
la maggior parte dei raid contro i serbi. Il centro è null'altro che un
triste giardinetto e, dall'altra parte, l'Hotel "Metohija". 
   Oggi c'è il comando della Brigata internazionale Ovest che ha il controllo delle zone di Pec, Decani, Djakovica e Istok. Chissà chi erano, un tempo, i
frequentatori delle sale di quest'albergo con l'agenzia della Banca "Kosovo
i Metohija" e addirittura col casinò. Un casinò a Pec, lontano un'eternità
da Pristina e anni luce da Belgrado, una città attaccata solo al Montenegro
e all'Albania! Nella sala conferenze ci aspetta il brigadier generale
Giuseppe Emilio Gay, comandante della Brigata Ovest, che comprende 4.500 italiani della brigata corazzata "Ariete" (ma è prossimo l'avvicendamento con i bersaglieri della "Garibaldi", il reparto che nel giugno '99 entrò in Kosovo dalla Macedonia), 1.500 tra spagnoli e portoghesi e una ottantina di argentini.

  L'ufficiale descrive compiti e risultati del contingente facendo
scorrere su una parete le schermate preparate con la videografica.
Esattamente come farebbe un manager nella sua azienda. "Tuteliamo le
minoranze", afferma, e cioè i serbi e i rom. Come li tutelate? "Li
scortiamo in ogni loro movimento". In pratica se devono uscire di casa per
andare a far spesa o far visita a un parente, i serbi si accordano col
comando italiano che manda una pattuglia. E così fanno i contadini serbi:
se devono andare nei campi a zappare, a seminare o raccogliere ortaggi,
all'ora stabilita arrivano due mezzi blindati che si piazzano uno avanti e
uno dietro il trattore, e restano in campagna finché il lavoro non è
finito. E' l'unico modo per sottrarre alla vendetta degli albanesi i pochi
serbi rimasti. Nell'area di Pec in agosto erano restati in mille. Ora sono
anche di meno, su una popolazione di quasi 80mila persone.

   La camionetta dell'Esercito percorre una strada che risale lungo il corso
del fiume Pecanska Bistrica, poco più di un ruscello che rotola lento tra i
massi. Il vento gelido porta giù dalla montagna i fiocchi di neve.
Dall'altra parte del monte, verso Occidente, oltre quelle gole strette ed
aspre, c'è il Montenegro. Guarda proprio in quella direzione il Patriarcato
serbo-ortodosso, con le sue tre cupole azzurre. E con i due blindati
italiani e la garitta fatta di sacchetti di terra piazzati dinanzi all'alto
muro di cinta. E' qui, nella terra degli albanesi, che si trova il simbolo
della cultura serba: il centro della cristianità serba fu stabilito qui dal
re Dusan il Terribile, nel '200, e fu Pec il cuore della resistenza
culturale serba all'invasione dei turchi. Dopo la guerra, l'anno scorso,
venne a rifugiarsi il vecchio Pavle, il patriarca serbo, ormai in rotta col
regime di Milosevic. E oggi vi hanno trovato riparo una ventina di serbi:
padre Peter, un pope giovane dai capelli e dalla barba rossicci che senza
tonaca sembrerebbe un hippy, altri due preti, 23 monache e alcune donne di
Pec. All'interno è tutto come sempre: il silenzio fa risaltare la
suggestione degli affreschi bizantineggianti sotto le volte e le navate. In
un angolo c'è la sedia su cui il Patriarca appena eletto riceve
l'investitura. La signora Dobrina racconta di quando è uscita l'ultima
volta da quelle mura: "Fu qualche mese dopo la guerra. Volevo andare a
casa di mia sorella per prendere una valigia e degli abiti per me. Non avevo
nulla. Ero appena entrata nel quartiere e mi stavo avvicinando al palazzo
quando una folla mi circondò e mi minacciò. Dovetti andar via", racconta in
serbo. E' tenera e dolce nella sua dignitosa impotenza. Ma quando le si
chiede se parla l'albanese, la lingua più diffusa da almeno un secolo in
quella terra, risponde con un "certo che no".

   Oggi al Patriarcato non è un giorno come gli altri. Troviamo il giovane
padre Peter intorno ad un tavolo a brindare con rakija insieme a diversi
ospiti. Tra loro c'è anche un colonnello italiano dall'aria più soddisfatta
di tutti. E' successo che finalmente è stato riallacciato il telefono. E a
farlo sono stati niente meno che tre operai albanesi: i primi albanesi a
rimettere piede dentro quelle mura dallo scoppio della guerra e chissà da
quanto tempo prima ancora. E così padre Peter alza il calice e scandisce
"zivelij" in serbo,  "gzuar" in albanese, e visto che ci sono anche un po'
di italiani, "cin cin". Alla fine del secondo giro di rakija, una foto
immortalerà l'avvenimento.
   Un segnale, un piccolo segnale di riconciliazione? Chissà. Il colonnello
italiano, il regista di questa complessa operazione politica, ammette poi
che i tre operai vengono protetti al loro rientro a Pec. In città c'è chi
li considera traditori per aver rimesso in funzione il telefono del pope.

  Qui siamo lontanissimi da Kosovska Mitrovica, nel nord, la città
incandescente dove un ponte e un fiume, ancora una volta nei Balcani,
separano due culture, due religioni, due odii. Ma la differenza sta solo
nel fatto che lì il fiume ha protetto una decina di migliaia di serbi,
consentendo loro di tentare la difficile scelta di restare in Kosovo. A Pec
non manca l'odio, mancano semplicemente i serbi.

  Passeranno anni, forse decenni, forse una generazione dovrà succedere a
questa e chissà. L'amministrazione civile dell'Onu arranca e in buona
sostanza ancora non c'è. I giudici militari non avendo per ora codici da
applicare, fanno uso del proprio buon senso. Nessun governo occidentale,
neppure Bill Clinton possono più togliere dalla mente degli albanesi che
ormai il Kosovo non è più serbo e prima o poi avrà l'indipendenza. In
autunno si svolgeranno le prime consultazioni (in questi giorni è in corso
il censimento): per l'Onu si tratterà di elezioni comunali, per i kosovari
saranno elezioni politiche. Neppure gli Stati Uniti riescono a ridurre le
pretese e l'arroganza delle fazioni kosovare. Del moderato Ibrahim Rugova
non si sente più parlare.

   Un anno fa, in Macedonia, nelle tendopoli i bambini kosovari recitavano
questa poesia: "Oh popolo schiavo del Kosovo / cosa aspetti a liberarti? /
Aspetti le aquile dell'Ovest? / Il Kosovo sta aspettando da otto anni / e
le aquile non ci hanno ancora trovati. / Oh Kosovo schiavo / non credere
che le aquile ti abbiano dimenticato". Le aquile dell'ovest, nella
grossolana metafora di quella poesia di guerra, erano i caccia della Nato,
ovviamente. Eppure forse col tempo dall'anima di quegli uomini che oggi
giocano con i piedi nell'acqua calda della sorgente scoppierà
semplicemente la voglia di vivere.


o Viaggio, a un anno dai primi bombardamenti, 
in una città del Kosovo in cui si avverte ancora una sensazione di smarrimento. Una città polverosa che non sa dove andare. Così come non lo sanno il migliaio di serbi rimasti (oggi Peja-Pec 80 mila abitanti, prima 130 mila), che ora per muoversi - fare la spesa, andare a seminare nel campo - devo farsi scortare dai soldati italiani.
Pec - sia pure senza le ondate violente di Mitrovica - è uno dei simboli tragici e disarmanti  del circolo vizioso della guerra e delle categorie etniche. 
 

Antonio Caiazza (Salerno, 1964) è giornalista, vive
e lavora a Trieste.


Torna al sommario
della sezione
Kosovo
24 marzo 2000
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Torna all'inizio

 

copertina
le notizie
i percorsi
le interviste
i libri
la musica
le inchieste
il calendario