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percorsi
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Una libertà fatta
di uranio impoverito
La guerra come normalità. Ora lo
spettro sul Montenegro. Dentro il vuoto della politica
Quando lo sguardo, non ancora abituato alle immagini di morte e di desolazione che da tempo ormai abitano le mie emozioni lungo le tristi quand'anche affascinanti strade dei Balcani, incrocia una delle tante piccole case devastate dalla guerra, penso alla mia anziana mamma, ai suoi ottantanove anni e alla sua dolce "assenza". Penso alla vita normale che vi si svolgeva, agli affetti e al già difficile mestiere di vivere, bruscamente interrotto da una violenza che ti strappa le radici, ti umilia, ti costringe a lasciare le cose di una vita, senza nemmeno capirne il motivo. Penso agli occhi ormai spenti delle persone anziane nel campo profughi di Kozarac nei pressi di Prijedor, costrette da cinque anni a condividere le aule scalcinate di una vecchia scuola; penso alla calpestata eppure viva dignità del pensionato belgradese, costretto a vendere gli oggetti più cari per comprarsi qualcosa da tirare avanti; o alla malinconia di quel vecchio partigiano incontrato per caso in un grattacielo di Sarajevo, in silenzio nella sua poltrona a fissare il vuoto, le sue medicine e, impazientemente, l'orologio, come se attendesse qualcosa capace di liberarlo dal proprio sconforto. Quello stesso sconforto che leggi nelle persone anziane di Peja, nel Kosovo occidentale, che tanto contrasta con l'arroganza del giovane miliziano, bandiera a stelle e strisce, simbolo di una libertà fatta di uranio impoverito. La guerra è
anche questo. Quella che entra nell'esistenza e nell'animo delle persone,
quella che riguarda la vita irripetibile di ognuno, che non fa cronaca
come non la faceva quella dei giovani soldati mandati a morire per un pezzo
di terra già segretamente trattato. Perché la cronaca, la
fretta e la superficialità, ci parlano di cose che la nostra modernità
riduce ad immagini virtuali, spersonalizzate.
Nel Kosovo
"liberato", dove le contraddizioni sono oggi più esasperate di ieri,
dove la presenza di una piccola comunità di serbi, oggi vittime
di una logica che fino ad un anno fa avevano assecondato, diviene motivo
di tensione. Laddove c'era una seppur difficile convivenza oggi sorgono
nuovi muri della vergogna. E dietro le mura ti appare una terra desolata,
minata e avvelenata, per una guerra che continuerà ben oltre ogni
cessate il fuoco.
Se poi vi capita
di andare in vacanza sulla costa dalmata, in uno sforzo di curiosità,
fate qualche chilometro verso l'interno, lungo il versante del massiccio
del Velebit che si affaccia sulla Kraijna, e vi accorgerete dell'altra
faccia della Croazia.
Queste mille tragedie
anche individuali sono il nostro presente, la guerra come normalità
che invade il nostro tempo e il nostro spazio, fino quasi a non accorgersi
di che cosa è fatta la nostra pace quotidiana. Oppure ce ne accorgiamo
quando è tardi, i conflitti degenerati, gli apparati militari in
movimento. Allora si dirà che gli sforzi diplomatici non sono bastati,
il ricorso alla forza inevitabile. Così la storia si ripete.
Come per il Kosovo,
una guerra annunciata per chi voleva e sapeva vedere. Ma, si sa, il principio
di prevenzione è estraneo alla politica, è meglio spendere
in armamenti e nell'emergenza piuttosto che investire sul futuro. Così
pulizia etnica e raid ritorneranno nelle prime pagine, saremo bombardati
di notizie gridate e spesso costruite ad arte ("siamo di fronte a 50 Srebrenica"
- cioè a 350 mila morti - dichiarava l'amministrazione americana
al New York Time per giustificare il proprio intervento militare in Kosovo),
e bombardati lo saranno anche i progetti di diplomazia popolare e preventiva
che con pazienza e senza far rumore stiamo cercando di tessere di là
del mare.
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o | La
guerra continua in ex Jugoslavia e il ripetersi del medesimo, tragico clichè
della politica che relega fra le varie e eventuali delgi ordini del giorno
i rischi di nuovi conflitti. Come quello che potrebbe scoppiare in Montenegro,
dove
è già mobilitazione. * Michele
Nardelli
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(24 marzo 2000) |
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