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pensieri

Balcani, ricominciamo da zero. A casa nostra
Il fallimento dei tanti piani che non hanno coinvolto le persone cui erano diretti
La necessità di ammettere che stiamo sbagliando tutti e di ripartire. Dai diritti umani
 

di ANDREA CHIEREGHIN

    E’ ormai passato più di un anno da quando la Nato decise di iniziare un azione militare a favore della popolazione albanese del Kosova, che tante conseguenze avrebbe avuto. Un anno, durante il quale molto è accaduto e nonostante questo molto rimane ancora da fare e da capire. Si deve ancora chiarire, ad esempio, perché la Nato decise quell’azione, e quale sia il futuro politico, istituzionale e civile della nazione "Kosova".

   Rispetto alle prima questione l’opinione pubblica si è presto divisa in due schieramenti: contrari e favorevoli. I primi sostenendo la tesi dell’aggressione da parte della Nato alla Sovranità di uno Stato: la Serbia; i secondi sostenendo quella soprannominata "dell’ingerenza umanitaria", ovvero la leggittimità ad adoperare la forza giustificata dallo stato di sofferenza della popolazione. Entrambi gli schieramenti concordano sulle considerazioni che riguardano l’istituto delle Nazioni Unite che ha dimostrato per l’ennesima volta, nel corso dell’ultimo decennio di avvenimenti, di essere assolutamente incapace di fronteggiare, prima ancora che prevenire, le crisi del pianeta; e quelle che riguardano la Nato, sempre più convinta nel proprio ruolo di polizia internazionale a disposizione delle esigenze della Casa Bianca.

   In quello che fino ad ora sembra un quadro desolante bisogna saper cogliere gli aspetti positivi e cioè la legittimità ad adoperare la "forza" in nome di motivazioni umanitarie. Ricordo il 1995 quando "il verde", "il pacifista", "il cattolico", "l’ecologista" Alexander Langer invocò l’intervento militare per liberare Sarajevo dall’assedio. A quella dolorosa invocazione arrivò dopo aver conosciuto gli orrori della guerra in Bosnia, dopo aver visto ed essersi reso conto di persona, dopo aver affrontato un doloroso e conflittuale scontro con se stesso.
    Non si può tollerare, però, che alla possibilità di salvezza di un popolo corrisponda la distruzione e l’annientamento di un altro: quello serbo.
E qui stanno i limiti dell’intervento armato internazionale. Perché, se da una parte, la guerra del Kosova ha dimostrato la capacità dell’Unione Europea di possedere una comune politica estera nel giustificare ed appoggiare l’intervento armato della Nato, dall’altra evidenzia la sua totale incapacità nell’affrontare, organizzare e gestire il processo di (ri)costruzione di  istituzioni democratiche o quantomeno di reali percorsi democratici capaci di stemperare i conflitti in quella zona.
L’anniversario del 2000 ci ha consegnato un’area ancora fortemente destabilizzata con serie possibilità di una nuova fase di esplosione di macro conflitti. Una zona dove i diritti delle minoranze, serba e rom, in primis, sono quotidianamente calpestati, dove la popolazione serba è sempre più in balia del suo dittatore Milosevic’, che nel frattempo ammassa truppe e carri ai confini del Montenegro e dello stesso Kosova.
   La Comunità internazionale, insomma, dimostra la propria, cronica, incapacità nel gestire la crisi, perché ha commesso gli stessi identici errori perpetrati durante tutto l’arco del tempo di questo interminabile ed esasperante conflitto balcanico. 
Non si arrestano i criminali di guerra, indipendentemente dall’appartenenza ad uno o l’altro degli schieramenti in campo, non si stabiliscono le responsabilità delle stragi, dei massacri, delle violenze, delle ruberie e dei soprusi. In tutta l’area balcanica è possibile incontrare casualmente o addirittura intervistare e conoscere da vicino i rappresentanti di una delle peggiori specie umane esistenti, quella che sgozza, uccide, incendia violenta e abusa donne, bambini, uomini e vecchi. 

   Rimane da comprendere, ancora una volta, il perché. Anche qui due tesi: quella che   vede in Milosevic’ un novello Hitler furbo e spietato più del suo illustre epigono e quella che, invece, trova, nelle losche convenienze politiche della Casa Bianca, un’accorta regia nel mantenere instabile quest’area dalla quale sferrare, poi, l’attacco finale a Belgrado da posizione favorevole. I più radicali ed estremi si spingono addirittura oltre indicando in Mosca il reale obiettivo di tanta sofferenza. Ad ogni modo si concorda prevedendo un nuovo ed imminente futuro di guerra e di disgrazia.
   Quale allora il nostro ruolo in questo panorama? Innanzitutto dovremmo imparare la rara capacità di eliminare le convenienze politiche quando anche dalle nostre decisioni dipendono le possibilità di vita di una persona chiunque essa sia, buona o cattiva, bella o brutta, innocente  o colpevole. Non si può continuare a costruire sulle disgrazie altrui propria convenienza politica. Ci siamo abituati a discutere di certe questioni con quella competenza e serietà e professionalità di quando discutiamo le scelte dell’allenatore della Nazionale di calcio. Ci siamo abituati a fare delle nostre convenienze politiche roccaforti inaccessibili, senza renderci conto il reale significato di queste una volta trasferite sui campi di battaglia dell’ex-Jugoslavia. 

   Come mai dopo nove anni di guerra nei Balcani non è stato ancora possibile trovare una soluzione ai tanti problemi che affliggono quella realtà e che tanto costano alla Comunità Internazionale? Credo che la risposta risieda nella semplicità del fatto che durante tutto questo arco di tempo abbiamo elaborato innumerevoli varianti ai possibili piani di pace e modelli di sviluppo e di ricostruzione, senza mai chiedere, nemmeno una volta a chi quei piani e modelli avrebbe dovuto far vivere se li riteneva possibili e praticabili. 

   Sempre Alexander Langer molto tempo fa scriveva: "la convivenza plurietnica può essere percepita e vissuta come arricchimento ed opportunità in più piuttosto che come condanna: non servono prediche contro razzismo, intolleranza e xenofobia, ma esperienze e progetti positivi ed una cultura della convivenza." Ed allora la  domanda successiva è: può l’Europa o più in generale, la Comunità Internazionale pensare di possedere nel proprio cromosoma il gene della tolleranza, del rispetto "dell’altro", della multiculturalità? Conosciamo, per caso, un luogo qualsiasi tra le tante città europee dove esista un reale esempio di convivenza democratica tra gruppi semplicemente differenti? O non è vero, piuttosto l’inverso, che le nostre città sono stracariche di tensioni sociali legate proprio alla difficoltà di convivenza tra gruppi etnici, culturali, religiosi differenti? Ed allora perché questa Europa si ritiene in grado di essere capace di integrare nella convivenza le "tribù" degli slavi del sud e del nord?
   Dobbiamo impegnarci a fondo per cogliere gli aspetti positivi di questo inizio secolo. Il Papa che chiede perdono per i tanti peccati commessi dalla Chiesa romana, cattolica  e apostolica è un elemento straordinario che non può sfuggire. Significa, in sostanza, ammettere che abbiamo sbagliato e stiamo sbagliando e che dobbiamo modificare la rotta. Da dove cominciare? Da casa nostra. Nel mio caso, dalla provincia di Bolzano. Bisogna rileggere, innanzitutto lo Statuto di autonomia speciale che risulta assolutamente inadeguato rispetto ai nuovi assetti e problematiche europee. Risulta inadeguato, ad esempio, rispetto ai diritti delle nuove minoranze etniche del Sudtirolo: quella albanese, kosovara, serba, croata, curda, ecc. Se quindi lo Stato italiano si trova a dover fronteggiare i problemi legati alla nuova migrazione, quello sudtirolese non può nascondersi dietro la foglia di fico delle sacre norme dello Statuto. Quelle norme, ancorché sacre, vanno riviste e ridiscusse proprio alla luce dei nuovi assetti dell’Europa. 

   Ma fare questo significa possedere la capacità, ahimè rara, di sapersi mettere in discussione di essere capaci anche di rinnegare se stessi in nome del rispetto e della coerenza verso quei principi, questi si sacri!, che ’50 anni fa ispirarano la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, fondamento costituzionale anche del nostro sistema democratico.


o Andrea Chiereghin, giornalista indipendente bolzanino,
da più di 5 anni viaggia nei 
territori della ex Jugoslavia.
L'ultima esperienza è iniziata il 20 aprile 1999 ed é terminata il 12
ottobre, fra Kuses (i campi profughi in Albania) e il Kosovo, a Gjakovë, come responsabile
della missione umanitaria organizzata dalla Caritas Albania.
 
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