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Quel caffè con Sciascia...
Crescere a Racalmuto, lavorare nelle saline, partire per il Nord: la storia di Giovanni Mattina
 

     Lavoravamo “a cottimo”, più trasportavi, più ti pagavano - ti pagavano per modo di dire. Alla fine del giorno si e no potevi comprarti un pane. A quei tempi si cambiava datore di lavoro da oggi a domani, senza documenti, senza contratti. Anche i licenziamenti si facevano da oggi a domani. Le cose però erano cambiate. Non si lavorava “da buio a buio”, bensì nove ore al giorno, cosicché arrivavo presto a casa. Una sera succedette che noi lavoratori passammo attraverso le mulattiere vicino a delle piante di ceci. Così iniziammo a raccoglierli. Allora non era come oggi; si aveva sì e no un piatto di minestra alla sera e un chilo di pane al giorno.      Qualcuno che ci aveva visti lo disse al padrone dei ceci, il quale protestò con il nostro datore di lavoro. I miei colleghi diedero tutta la colpa a me.
   Senza esitare mi cacciarono dalla salina e tornai a lavorare nei campi. 

L'incontro con Sciascia

   In quel periodo conobbi di vista Leonardo Sciascia, che faceva l’insegnante, ma allora non gli si faceva caso. Venni anche a contatto con un circo equestre che stazionava nel nostro paese; più che altro si trattava di zingari. Era un circo da paese, con poca “roba”. Il proprietario mi propose di andare con loro a fare lavori di manutenzione, di pulizia e così via. Con le quattrocento lire al giorno che guadagnavo nell’agricoltura per dodici ore di lavoro, l’alimentazione non assicurata, decisi di aggregarmi. In più non andavo d’accordo con mio padre. Lui era sì un gran lavoratore, ma lavorava sottocosto. Con il guadagno basso di mio padre e con il mio da apprendista, da cosiddetto “mezz’uomo”, ancora più basso, non potevamo di certo sfamare anche mia madre e mia sorella. Un giorno mi ribellai e dissi a mio padre che non potevamo continuare così. Un affronto a quel tempo. Lui, come al solito, rispose con la violenza. Fu anche questo un motivo per cui decisi di andare con il circo. Con il circo si girava la Sicilia di paese in paese. Si restava per dieci, venti giorni in un posto per poi cambiarlo. Per me fu davvero un’esperienza enorme. Nel frattempo mi arrivò la cartolina per il servizio militare. Lo attendevo da tempo con ansia, non che volessi fare l’eroe; speravo che mi potesse dare almeno da mangiare.

Lo zio americano

   Di tanto in tanto mio padre mi scriveva. Allora non essendoci il telefono si comunicava con le lettere. Mi scrisse che con i soldi ereditati da uno zio americano si era comprato una nuova casetta. Era molto piccola e malandata. Con il congedo in mano - era il 1952 - mi recai alla nostra nuova abitazione e lì dopo poco tempo conobbi la vicina di casa, la mia futura moglie. Dalla simpatia iniziale nacque un’amicizia più profonda e poi anche di più. Finalmente mi decisi a confessarle i miei sentimenti. Ma ce ne volle di tempo e di coraggio. Mi dovetti ubriacare di vino. Ma all’epoca i matrimoni li facevano i genitori. All’incontro decisivo il padre della futura moglie disse: “Mi dispiace, io non ho figli da sposare”. Io in paese, per il fatto che avevo girato la regione con un circo, venivo considerato uno zingaro,  un “puparo”. Quel giorno le nostre famiglie sono entrate in guerra, e io naturalmente non potevo incontrare la mia fidanzata. Noi di nascosto ci vedevamo, ma lei aveva un “guar-da-spalle” che abitava vicino.

Io e Anna pronti allo "scandalo"...

   Dopo un anno di incontri semisegreti mi decisi di dare l’ultimatum. Feci sapere al padre di Anna che ero intenzionato a scappare con lei, a fare “lo scandalo”. Per evitare ciò il padre di Anna cedette, ma si rifiutò di venire al matrimonio. Ci sposammo il 24 luglio del 1954. Andammo a vivere in casa di mio padre, ma presto nacquero dei conflitti e io decisi di affittare una casa, anche perché mia moglie rimase incinta. L’affitto ammontava a 8.000 Lire all’anno, ma si trattava di una casa vecchia e umida.  Allora però a queste cose non si poteva fare caso. In quella casa venne al mondo il mio primogenito. In quel periodo le cose andavano meglio; il lavoro nelle saline andava bene, io ero riuscito ad ottenere la licenza per potere fare brillare le mine nelle saline e guadagnavo per questo motivo un poco di più. Ormai solo coloro che erano in possesso di quella licenza potevano far saltare le mine. Insomma le cose pian piano cambiavano. Anche per questo motivo riuscii a superare mio suocero economicamente. Addirittura mi potei comprare una moto; una moto a quell’epoca voleva dire tanto! In occasione di una festa del paese, incontrando la famiglia di mia moglie per caso, facemmo pace, una pace che da tempo ambedue le parti cercavano. 

La crisi in  miniera

   Fino all’inizio degli anni sessanta il lavoro nelle miniere rendeva bene. Ma poi venne la crisi. Il lavoro assicurato scomparì, si cambiava ditta da un giorno all’altro. Nel ’62 decisi di andare a Lippstadt in Germania, dove viveva e lavorava già un mio cognato. Il lavoro in Germania era bello, venivo rispettato, per necessità, perché allora dopo l’evento bellico la Germania necessitava di ogni forza lavoro. Mia moglie e i miei figli però mi mancavano e non era facile trovare chi ti affittava un appartamento per una famiglia intera. In più chi voleva oltrepassare la frontiera tedesca doveva possedere almeno 60.000 Lire, cioè i soldi per almeno quindici giorni di permanenza da turista, o una richiesta di una ditta; un po’ come succede oggi con gli extracomu-nitari. Me ne tornai in Sicilia, dove però il lavoro era sempre più precario. 

L'amico partito per Bolzano

   Avevo un amico che era andato a lavorare a Bolzano e con il quale ci scrivevamo regolarmente. Lui, che lavorava alla Montecatini, mi descriveva nelle sue lettere il suo lavoro ai forni. In qualche modo mi convinsi di partire anche io con il treno Brenner Express.
Sono arrivato qui e ho visto queste belle montagne. Io non avevo mai visto prima delle montagne. E devo dire che all’inizio mi hanno fatto proprio una brutta impressione. Per giunta andai ad abitare vicino a Ponte Loreto: avevo sempre paura che si staccasse qualche sasso dal Virgolo ... . Poi pian piano mi incominciarono a piacere queste montagne, mi feci spedire la moto e girando incominciai ad innamorarmene. Mi dissi: se non mi mandano via, di qua non me ne vado più.  Dovevo trovare un lavoro, e l’amico con cui ero in contatto mi disse di andare alla Montecatini, ché lì cercavano sempre. Cosi fu. Mi mandarono “al carbone”, quello che arrivava col treno e serviva per far andare i forni. Era un mestiere molto duro, perché si lavorava con la pala e l’aria era molto inquinata, ma io ero già abituato dalle miniere di sale. Dopo due mesi il contratto mi scadde e mi mandarono ai forni. Ma in quel reparto all’inizio non mi volevano perché c’era un mio paesano che si comportava molto male. Quello ai forni era un lavoro d’attesa, poteva capitare di lavorare quat-tro ore invece di otto, e dava anche delle soddisfazioni. Era il ’64 e prendevo 85.000 Lire al mese. In Sicilia per fare un paragone ne gua--dagnavo 40-45.000.

A Bolzano in una casa con l'acqua di fuori

   Qualche mese dopo la famiglia mi ha raggiunto e siamo andati a vivere al Virgolo per un anno; la casa non era un granché, avevamo l’acqua di fuori e un sacco di altri problemi. L’anno dopo un collega che aveva visto in che condizioni vivevamo ci ha detto che ci avrebbe ceduto la soffitta nella quale viveva. Quando l’abbiamo vista abbiamo subito accettato. Da com’era la casa al Virgolo quello in confronto era un paradiso. Solo che la cosa non era legale e lui non voleva avere rogne. Rimanemmo d’accordo che io dopo che se n’erano andati avrei scassinato la porta per prenderne possesso. Mentre ci dicevamo queste cose passava una bambina. Lui disse di non preoccuparmi, ma questa bambina ne ha parlato a casa, e il giorno dopo si era sparsa la voce che arrivavano dei terroni. La voce arrivò all’Istituto Case Popolari che mise una guardia in portineria, chiamarono persino il Questore. Terroni di qua, terroni di là. Mia moglie era riuscita ad entrare, e per un po’ ha dormito per terra. Ma per non essere sbattuti fuori, dovevamo almeno riuscire a portare lì una branda. Allora una sera le ho lasciato una corda lunga quattro piani. 

Quando un vicino ci denunciò come "abusivi"

   Ho preso una branda e l’ho caricata sulle spalle. Barcollando mi feci la strada dal Virgolo fino al sottotetto in via Torino. Ce l'avremmo fatta, se un vicino non si fosse svegliato e avesse dato l’allarme. Fu così che finii davanti al Questore ed al Commissario del Governo. Ma quest’ultimo si prese a cuore la mia situazione e mi aiutò addirittura finanziariamente. La somma però sarebbe bastata per un mese di affitto. Anche una famiglia tedesca offrì il proprio aiuto, informandosi presso il Comune, su eventuali possibilità di alloggio per noi. Tramite un conoscente abbiamo saputo di un appartamento a Rencio. Ci andammo ad abitare; solo che la vicina di casa era una prostituta ed i clienti spesso sbagliavano porta e venivano da noi. Era una situazione poco gradevole. Un giorno l’Istituto per le Case Popolari ci mandò una lettera,  comunindoci che ci aveva assegnato un appartamento in via Palermo, dove tuttora abitiamo. Che contentezza! Non potete immaginarla.  Il custode ci mostrò le stanze, “questa è vostra e que-sta è vostra, e pure questa". Tutte quelle stanze! Non le avevo mai viste prima!

Nel giardino di Sciascia

   Risolto il problema della casa, il resto è andato tutto bene. Ho lavorato alla Montecatini fino all’85, quando sono andato in pensione. Ora amo Bolzano come Racalmuto. C’è ancora un episodio legato al mio paese che vorrei raccontare. Nei primi tempi qui a Bolzano sono stato per un periodo al dormitorio. Lì mi ero preso l’abitudine di ascoltare le stazioni radiofoniche straniere. Solo in quel modo si potevano ricevere informazioni che i giornalisti italiani non davano. Nelle stazioni straniere, come Radio Tunisi, Radio Mosca o Radio Praga, si sentiva par--lare per esempio degli abusi che faceva la polizia. Una sera, quasi addormentato, sentii parlare a Radio Mosca di un certo Leonardo Sciascia. Nella trasmissione si parlava del mio paese, delle saline, dei suoi libri. E così scoprii che era diventato uno scrittore famoso. Nel ’75, dopo che mi ero stabilito definitivamente a Bolzano, siamo tornati al mio paese in ferie. Allora andammo a trovarlo, il suo terreno confinava con quello di mia cognata. Ci fece entrare in casa sua e ci offrì un caffè; così ci siamo messi a discutere un poco, lui mi dava del tu, e mi regalò due dei suoi libri: Il giorno della civetta e La moglie del farmacista. Da allora non ebbi più occasione di trovarlo, anche perché si ammalò gravemente. 

(a cura di DAVID AUGSCHELLER)

o "Sono nato a Racalmuto in Provincia di Agrigento. Ho vissuto una gioventù amara. Per un periodo ho lavorato nel campo dell’agricoltura, ma era un lavoro pesante, senza un orario di lavoro regolato. Si lavorava “da buio a buio”, dalla mattina alle cinque fino al tramonto del sole. Allora me ne sono andato a lavorare nelle saline di salgemma. Era il periodo dopo la guerra, avevo più o meno quattordici o quindici anni. Il sale si estraeva a mano, scavando un pozzo, che poteva avere una profondità di cento metri. Io ero trasportatore, mi caricavano il sale sulle spalle, che portavo dal fondo del pozzo fino alla luce del sole". 
 

Questo articolo 
è uscito anche
in "Bz1999"
 

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