di
DINO FRISULLO E ALFONSO PERROTTA
"Caro
Gigi, scusaci se usiamo il tuo intervento sul Manifesto di domenica 25
giugno, che in parte non condividiamo, come occasione per alcune considerazioni,
dall'interno e in corso d'opera, sull'attuale movimento degli immigrati
per il "diritto di esistere". E ovviamente su di noi, autoctoni di più
o meno buona volontà.
Tu descrivi
un corteo che a Roma ha raccolto molte migliaia di immigrati e pochissimi
italiani, e ne trai la conclusione che finalmente gli immigrati si autorganizzano,
e dunque si crea un nuovo soggetto capace di autorappresentarsi, di sedere
al tavolo delle trattative, di mettere in crisi la tradizionale mediazione
degli italiani "amici"...
E' una
lettura che ovviamente contiene elementi di verità. Ma così
assolutizzata, rischia di farsi alibi rispetto alle nostre responsabilità.
Noi,
così come gli immigrati che organizzavano quel corteo, ne traiamo
invece la domanda opposta, e angosciosa. Dove sono finiti gli italiani
amici e solidali? A pochi mesi da un movimento consistente contro i lager
creati dallo stato per "colpire uno ed educare cento" alla clandestinità,
possibile che la rivolta lunga più d'un mese di una parte consistente
dei dannati alla clandestinità non muova non dico tutta l'area vasta
della solidarietà, ma, con poche eccezioni come Brescia, neppure
la sua parte più radicale e "antagonista"?
Cosa
"ci" è accaduto, perché un altro corteo diretto in Vaticano,
il 2 giugno, attraversi e sfidi una città blindata, sconfigga (come
già a Brescia, il giorno dello sgombero) il tentativo di una parte
dell'apparato statale di stroncarlo con la repressione, lasci feriti sul
campo - ed i compagni italiani si contino, dentro e attorno a quel corteo,
sulle dita di due mani?
Com'è
possibile che in una città come Milano, a pochi mesi dalla vicenda
di via Corelli, un altro corteo sia così sparuto da essere "salvato"
solo dall'arrivo della delegazione bresciana, e si concluda senza neppure
l'indicazione di un luogo unitario in cui avviare una riaggregazione degli
immigrati e dei loro bisogni inespressi? E che anche il corteo di Torino
parta segnato dalle tensioni fra i vari settori di movimento (italiani),
anzichè dalla tensione unitaria per allargare la
prima breccia nel muro della
gestione poliziesca della legalità e dell'illegalità?
La conclusione
amara è che un movimento generoso e importante come quello contro
i centri di detenzione, conclusosi non a caso senza un bilancio chiaro
e condiviso dei suoi esiti pratici, ha lasciato dietro di sè una
situazione disastrata nei rapporti a sinistra, e non ha aperto (nella maggior
parte delle situazioni) un percorso comune fra i soggetti italiani e la
generalità degli immigrati. Non ha creato quel "sentire comune"
e quei canali e luoghi di comunicazione che consentano di cogliere, moltiplicare,
sostenere l'estremo tentativo di un settore dell'immigrazione, alle soglie
dell'estate, di recuperare la legalità negata.
Vogliamo
dircele, queste cose, o continuare a glissare?
E' ovvio
che non vogliamo qui demolire quel movimento, che ha sottratto alla rimozione
un problema bruciante. Critichiamo il fatto che quel movimento non ha saputo,
nella maggior parte dei casi (non così a Venezia e Firenze, ad esempio),
riconvertirsi e penetrare nelle questure. Cioè nei luoghi in cui
le vittime della clandestinità imposta, futuri ospiti dei centri
di detenzione, lottavano disperatamente e individualmente.
Infine,
le vittime sono insorte. Brescia e Roma (ma anche, prima e con modalità
diverse, Napoli e Torino) hanno visto in queste settimane un prorompente
protagonismo degli immigrati. Un'autentica rivolta civile, in nome del
permesso di soggiorno che vuol dire dignità, contro il massacro
di dignità umana compiuto in questi due anni nella gran parte delle
questure italiane.
Una rivolta
disperata ai suoi esordi, fatta di gente che si siede davanti all'estrema
porta sbarrata e decide di non continuare a bussare individualmente, di
non aggrapparsi al venditore di speranze di turno (di pelle chiara o scura
non importa), ma di "manifestarsi" collettivamente. La rivolta di chi non
ha più nulla da perdere e vede sfumare il mondo che sperava di guadagnare.
La rivolta del "popolo della ricevuta", quel prezioso pezzo di carta che
fa la differenza di aspettative fra il
"clandestino" normale e
generalmente rassegnato e il "clandestino" che ha scelto e sperato per
due lunghi anni di rompere la catena.
Quella
rivolta, a Brescia e poi subito a Roma, quasi "fuori tempo massimo" ha
operato il miracolo. Ha saputo impattare e scompaginare con intelligenza
il mondo politico, ribaltare l'astiosa incomprensione dei grandi media,
smuovere una parte dei sindacati, giocare sulle contraddizioni fra gli
apparati statali, emarginare chi voleva condurla nel vicolo cieco del settarismo...
Incredibilmente (almeno per noi, che l'abbiamo accompagnato per dovere
morale ma con il pessimismo dell'intelligenza), questo movimento nel giro
di un mese è riuscito a vincere. Ha ribaltato una decisione già
presa e archiviata al Viminale, già
materializzata nelle questure
con l'affissione delle liste di proscrizione e la grandine dei "rigetti"
e delle "intimazioni".
La porta
chiusa s'è riaperta. Per quella porta non passeranno certo solo
i primi ventimila "ri-sanati" promessi dal governo. La breccia si allargherà,
perché troppo forte è la pressione e troppo deboli gli argomenti
di chi le si oppone. E soprattutto, perchè su una prima vittoria
(anche se parziale, settoriale e precaria, ma di rilievo nazionale) si
cresce, mentre contro i muri compatti ci si rompe la testa.
Questa rivolta, figlia della disperazione, doveva avere dunque alle spalle
qualcosa di assai solido, per non esaurirsi in una fiammata autolesionista
(come era ed è pur sempre possibile, se la breccia si dovesse richiudere).
Ma che cosa?
Se, come
ipotizza Gigi Sullo, si trattasse del naturale emergere dell'"altra società",
ne sarebbero stati protagoniste, come in Francia, le comunità di
seconda o terza generazione: in Italia i capoverdiani, gli eritrei, i somali...
Invece no: sono assenti. Oppure dovrebbe trattarsi delle comunità
più forti numericamente, e dunque capaci di percepirsi come controsocietà,
come fanno i maghrebini in Francia o gli asiatici e i giamaicani in Gran
Bretagna... No: maghrebini e slavo-albanesi, largamente maggioritari nell'immigrazione
in Italia ed ancor più nell'immigrazione
clandestina, sono quasi
assenti da questo movimento, con l'eccezione di Torino.
Il cuore
della rivolta sono stati invece settori numericamente più ristretti,
e d'immigrazione relativamente recente: gli asiatici (del subcontinente
indiano) e con loro, a Brescia, i senegalesi.
Perché?
La ragione secondo noi va cercata nella storia e nella memoria collettiva
di questo decennio. Infatti gli indo-bangla-pakistani sono quelli che dalla
sanatoria del '90, attraverso le esperienze della Pantanella a Roma e di
Porta Ticinese a Milano, e poi nella pressione sul decreto Dini nel '96
, hanno maturato più di altre comunità una solidarietà
intercomunitaria, una consapevolezza collettiva dei diritti, una capacità
di conflitto sociale. La si potrebbe definire una cultura sindacale, nel
senso migliore del termine:
un'idea vertenziale del rapporto con le istituzioni.
A Roma
come a Brescia, le figure di riferimento della nuova immigrazione asiatica
in movimento sono infatti tutte della "generazione della Pantanella". Ed
anche i senegalesi hanno formato i loro dirigenti in una dinamica assai
simile, cioè lo sciopero della fame di Firenze nel '92, e poi, fra
la Toscana e Roma, l'organizzazione delle grandi manifestazioni contro
la clandestinità a metà degli anni '90.
Da queste esperienze emerge "naturalmente" una forma di lotta, che sarebbe
lo sciopero se ci fosse un lavoro da cui scioperare. Nella precarietà
del lavoro e dell'insediamento sociale, un altro è lo strumento
di visibilità e coesione: lo sciopero della fame, che ricorre ciclicamente
non come disperato autolesionismo, ma come affermazione di soggettività,
di irriducibile esistenza della persona umana.
Al contrario, le manifestazioni contro due assassinii razzisti che hanno
visto in piazza a Roma migliaia di nigeriani nell'agosto del '99 e duemila
marocchini nello scorso aprile, non avendo alle spalle la stessa memoria
e capacità organizzativa (e, va detto, avendo trovato solidarietà
assai scarsa nelle aree italiane di movimento o della solidarietà),
sono rifluite subito. Fiammate di rabbia.
D'altra
parte le vertenze locali per i diritti sociali (sul diritto alla casa a
Venezia, Firenze, Ostia, per non citarne che alcune) sono esperienze importanti
e feconde, ma non hanno e non potevano avere lo stesso impatto nazionale
di una vertenza sulla coppia legalità - clandestinità. E'
questo infatti il nodo, un nodo così cruciale da poter essere affrontato
solo da comparti dell'immigrazione anche minoritari
numericamente, ma forti
di una memoria di lotta.
Appunto:
quelli che si sono mossi a Roma e Brescia.
E non
si sono mossi su linee di alterità e contrapposizione culturale,
come fa supporre l'intervento di Gigi Sullo. Al contrario: è un
movimento "per l'integrazione". Usiamo provocatoriamente questo termine.
Non nel senso dell'assimilazione subalterna, ma della rivendicazione di
uno status di esistenza giuridica e quindi dell'ingresso nella sfera dei
diritti formalmente condivisi dagli italiani e, in subordine, dagli stranieri
"regolari".
E' un
movimento di "diversi" per l'uguaglianza, fatto di persone che sognano
ciò che sogna un qualsiasi disoccupato in miseria: un lavoro regolare,
un alloggio decente, un reddito dignitoso, la possibilità di (ri)costruirsi
una famiglia...
Staremmo
per dire che è un movimento proletario, nel senso della coscienza
di sè come lavoratori nella fabbrica-mondo. Nei cantieri di Monfalcone
oltre metà degli operai rinchiusi dieci ore al giorno in stive mefitiche
sono bangladeshi, e sono i pakistani a far marciare le fabbriche bresciane
di domenica e di notte. Per non parlare dei senegalesi nelle concerie toscane...
Per tutti, a differenza di altri settori
dell'immigrazione, l'ambulantato
di strada è una transizione in vista del lavoro operaio.
Non a
caso, le solidarietà più convinte questo movimento le ha
trovate, oltre ad alcune maglie dell'antica Rete antirazzista e ad un settore
circoscritto dei centri sociali, nella sinistra sindacale, sia confederale
sia extraconfederale.
Non è
poco, ma non è abbastanza. E gli immigrati in lotta in queste settimane,
come tutti i lavoratori in lotta di questo mondo, non si compiacciono affatto
del proprio isolamento e dell'assenza degli autoctoni (come avviene invece
nelle rivolte del "black people" in Gb e negli Usa). Al contrario: se ne
dolgono e se ne indignano.
Coscienti
che da soli non possono vincere, hanno cercato e cercano solidarietà
e alleanze. Sono contenti, ovviamente, della grande carica umana dei loro
presìdi, sono fieri dell'autorganizzazione del loro sciopero della
fame. Ma dopo aver visto i grandi cortei dello scorso decennio ed anche
di quest'inverno, si aspettavano di essere lasciati molto meno soli.
E qui
il discorso torna a noi.
Alla
nostra capacità di comprendere e condividere i loro percorsi, invece
di limitarci ad osservarli e adattarli alle nostre idee preconcette; di
identificare senza giri di parole le vittorie e le sconfitte, saper ascoltare
lo scavo della vecchia talpa e dissodarle la terra intorno, mettere in
rete e far interagire le lotte e le esperienze.
Alla
nostra responsabilità di italiani antirazzisti: questa battaglia
non avrebbe potuto vincersi già in questa primav |