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"Quando non sapevo che
avevo diritto alle ferie..."
Intervista con la giornalista capoverdiano-italiana
Maria De Lourdes Jesus
«Io non mi sento un’immigrata, dopo ventotto
anni che vivo in questo Paese. In qualche modo mi sono anche formata qui,
i miei amici sono qui. Parte di questa cultura ormai mi appartiene. È
una delle cose che nessuno mi può togliere. Quello che sta dentro
di me è anche frutto dell’incontro con questa e con altre culture.
Io ho la cittadinanza italiana, e partecipo attivamente alla vita politica».
Come si è trovata a venire in Italia? «Sono partita all’epoca della prima emigrazione della comunità capoverdiana. Già alla fine degli anni Sessanta c’era un nucleo di donne che venivano a svolgere il lavoro domestico. Le prime arrivarono con l’intermediazione di padre Gesualdo, un prete cappuccino che viveva nella mia isola e che, di tanto in tanto, trovava ragazze di fiducia da mandare nelle famiglie italiane. E le ragazze di fiducia ovviamente erano quelle più vicine a lui, quelle che facevano parte del coro della chiesa. Anch’io facevo parte del coro della chiesa. Non sono venuta direttamente attraverso padre Gesualdo, perché ero ancora troppo piccola, però è venuta mia sorella. Poi mia sorella ha fatto venire me e io ho fatto venire le mie amiche e le mie le cugine. Insomma, diciamo che la catena emigratoria in qualche modo l’abbiamo stabilita noi». Quando è arrivata lei? «Sono arrivata nel 1971. Avevo un contratto di lavoro: sapevo dove andare e cosa venivo a fare. Ho lavorato e poi ho iniziato a studiare. Quando ho capito che c’era la possibilità di studiare e lavorare insieme mi sono iscritta all’istituto portoghese che era un’emanazione del ministero dell’Educazione in Portogallo, perché Capoverde era ancora sotto il dominio coloniale. Questo mi ha molto incoraggiato, perché i primi tempi vedevo che c’erano molte capoverdiane che dopo cinque, sei, sette anni non erano ancora riuscite a mettere i soldi da parte per tornare a casa e costruire finalmente la propria vita. Era questo il progetto di tutti gli emigranti. Questo mi aveva demoralizzato. E lì ho deciso di studiare. In realtà io volevo studiare da sempre, ma nella mia isola c’era solo la scuola elementare. Allora ho trovato una famiglia dove guadagnavo meno delle altre, ma che mi permetteva di andare a scuola nel pomeriggio. Così ho finito le scuole medie, il liceo e poi ho fatto domanda a tutte le istituzioni, a tutte le strutture legate all’emigrazione e alla cooperazione, finché non ho trovato una borsa di studio dell’Istituto italo-africano. E così mi sono laureata in Scienze dell’educazione all’università Salesiana». Cosa è successo dopo? «Nel ’75 ho cominciato a fare parte dell’associazione dei capoverdiani. Ho conosciuto alcune persone diversi da quelli che conoscevo prima, attive anche politicamente. Aveva prodotto anche un volantino contro il colonialismo. Questo mondo mi affascinava molto, per cui ho cominciato a frequentarli e siamo diventati amici. E lì ho cominciato a prendere coscienza di cosa fosse il colonialismo, di cosa stava succedendo a Capoverde, e a rendermi conto anche dei nostri diritti qui in Italia. Per esempio il primo anno io non sapevo che avevo diritto alle ferie e alla liquidazione. Non lo sapevo perché alle prime che sono arrivate nessuno lo aveva detto. Non sapevamo che non dovevamo scontare il biglietto viaggio, che era il datore di lavoro a doverlo pagare. Allora ho cominciato a fare parte attiva dell’associazione, e poi con gli anni ho fondato insieme alle altre l’associazione delle donne capoverdiane in Italia. E poi è nato “Non solo nero”, e da lì tutto il resto».
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articolo
è stato pubblicato sulla Rivista del volontariato Vai
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