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"Migliora il rapporto
con le istituzioni, peggiora con la popolazione"
L'esperienza di Nelly Tang, filippina,
che dirige un asilo multietnico a Roma
L’ingresso
è regolato da un cancello automatico, alberi di ogni tipo e un prato
attraversato da sentierini pavimentati. Immediatamente si viene circondati
da un nugolo di bambini incuriositi, i volti e gli sguardi rimandano alle
pubblicità “united colours” di un noto stilista italiano. Ma questo
non è uno spot pubblicitario, siamo in una scuola materna della
periferia Nord di Roma, fuori dal caos metropolitano.
«Siamo la filiale italiana di un servizio realizzato dalla Cfmw (Commission Fhilippinians Maiden Workers). Per tanti anni i bambini filippini che nascevano in Italia venivano mandati da parenti nelle Filippine perché i datori di lavoro non permettevano ai propri dipendenti di tenerli con sé. Tenete conto che la maggior parte dei nostri emigranti svolgeva e svolge lavori domestici. Abbiamo realizzato questo posto per permettere ai nostri bambini di crescere vicini ai propri genitori. All’inizio pensavamo a una struttura riservata ai soli filippini. Poi abbiamo creduto fosse più utile aprirci alle altre comunità di immigrati con problemi simili ai nostri e di accettare anche bambini italiani. Oggi in questo posto trascorrono regolarmente la giornata 55 bambini: molti filippini ma anche indiani, latinoamericani, africani, est-europei. Una decina sono gli italiani. I genitori pagano una retta che purtroppo abbiamo dovuto aumentare per far fronte ai tagli di budget imposti dal Comune, ma teniamo gratuitamente bambini provenienti da famiglie disagiate che ci vengono segnalati dagli assistenti sociali. Diffidenza e fastidio Certo che questo Paese è cambiato rispetto al 1978 quando sono arrivata in Italia. Prima, verso noi immigrati, c’era più che altro curiosità: “Cosa mangiate? Da voi c’è la televisione?” Ora c’è diffidenza e fastidio: “Siete troppi! Perché non ve ne tornate al Paese vostro?” Poi magari capita che una vicina italiana che conosce il mio lavoro mi chieda se posso trovare un posto per il figlio». Ne parla ridendo Nelly Tang mentre con gli occhi continua a seguire i bambini che schiamazzano e giocano. «Ma il Paese è anche cambiato in meglio, fino a qualche anno fa per noi filippini il lavoro domestico era l’unica prospettiva. Io stessa, anche se nelle Filippine avevo un buon posto di ricercatrice sociale, ho dovuto lavorare per un anno in una famiglia. Adesso si vanno aprendo anche altre opportunità. Gli enti e le istituzioni rispondono più facilmente alle proposte e ai progetti che le comunità di immigrati riescono a realizzare. È migliorato il rapporto con le istituzioni ma è peggiorato quello con la popolazione». Visitando i locali dell’asilo ci si domanda se questi bambini avranno la possibilità di veder rispettate le proprie culture d’appartenenza. «Certo è difficile prevedere cosa saranno una volta cresciuti!», dice la signora Tang. «La nostra comunità organizza da anni i centri estivi per soli ragazzi e ragazze filippine dai 6 ai 14 anni. Due mesi di attività in cui parliamo la nostra lingua e insegniamo la nostra cultura. Durante l’anno poi, in alcune parrocchie, abbiamo ottenuto la possibilità di celebrare messa nella nostra lingua. La comune appartenenza religiosa rende certamente più agevole l’integrazione».
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o | Questo
articolo
è stato pubblicato sulla Rivista del volontariato Vai
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