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_____________________________________di
Vincenzo Andraous_________
Leggo
spesso editoriali, articoli, saggi, sulla funzione del carcere e sulla
pena.
Mi
sembra che tutti, nei loro ruoli e competenze, parlino in fretta per non
dire nulla.
Ritorno
ora da un convegno: tra i relatori c’era un Magistrato. Uno di quelli che
non demanda ad altri, né al potere politico né a quello giudiziario,
l’azione forte della parola che non consente giustificazioni.
Egli
ha esordito dicendo: “ Il discorso sulla sicurezza è diventato un’ossessione,
ma non bisogna aspettarsi la soluzione dei problemi da un maggior numero
di caserme ( io aggiungerei di carceri ), e sebbene sia giusta e congrua
l’azione delle Forze dell’ordine, non dovremmo mai perdere di vista l’essere
umano, la fragilità della vita umana “.
Per
trent’anni ho ascoltato il suono degli scarponi chiodati sbattuti al suolo,
lo stridio delle mura protese al cielo, i silenzi assordanti mai stanchi
di urlare.
Per
anni ho attraversato il filo spinato delle parole “ delle mie e delle tue
“, così delle leggi e delle aspettative auspicate.
Per
troppi anni per ogni ideale ho sentito mutare pensieri, azioni e reazioni,
persino le utopie sono divenute bestemmie da affossare.
Quando
penso al carcere, mi viene in mente quel nobile russo dell’era zarista
a nome Oblomov, di cui mi ha raccontato don Franco Tassone della comunità
“Casa del Giovane “: costui era una brava persona, non fece mai male ad
alcuno, tanto meno lo si sentì mai lamentarsi. Semplicemente, non
faceva nulla, sopravviveva a se stesso, nel più totale disconoscimento
del fare, così tutto ciò che gli apparteneva decadeva per
usura del tempo e nell’introvabilità di una scelta. Sebbene non
contemplato in alcun testo scientifico, questo immobilismo è oggi
denominato come la patologia dell’ oblomovismo.
Oblomov
aveva un sacco di progetti, di architetture mentali, ma morì senza
avere costruito nulla, lasciando ai posteri ruderi e miserie.
“Sicurezza”
è l’imperativo, e a mio avviso essa non è solo un’ossessione,
ha la parvenza della teoria di Thomas, cioè la profezia che si autoavvera.
Sicurezza
non è un ramo staccato dal vivere civile.
Sicurezza
sta a significare il coraggio con cui affrontare l’insicurezza, che è
anche e soprattutto solitudine e mancanza di relazioni umane.
Sicurezza
non può essere lo strumento con cui chiedere alla giustizia penale
di risanare ogni contraddizione, ogni conflitto, ogni disattesa promessa
di paradiso.
Infatti
per ognuno di coloro che varcano la soglia di un carcere, la pena avrà
un termine. Quella persona uscirà, e ancora una volta ci si aspetterà
la soluzione dalla giustizia penale. Ma tutto quello che viene prima e
deve venire dopo, deve riguardare un intervento sistemico generalizzato,
che coinvolga l’intera società, senza che chicchessia possa ritenersi
escluso dal farci i conti.
Le
scelte di politica criminale non possono essere dissociate da precise politiche
sociali. Se ciò non è, allora equivale ad ammettere, per
tecnici del diritto ed editorialisti di fama, che reprimere e rinchiudere
conviene assai di più che recuperare, rieducare, risocializzare.
Conviene,
perché costa meno in termini finanziari, costa meno in risorse umane
specializzate, costa meno in termini di ideali cristiani e democratici.
Infine,
comporta meno rischi da correre, è inevitabile che sia così.
Tolleranza
zero è il verbo per tutelare i “normali”, ma ciò vuol dire
che chi ha problemi e sofferenze da contenere è accantonato.
Si
rimane impantanati in una storia che non insegna a pensare, ma a condannare,
nel tentativo di allontanare lo spettro, sibilando a chi ha problemi di
tenerli per sé.
Eppure
la storia è vita, e la vita non è uno slogan elettorale,
ma una fotografia che non si impolvera, che ci rammenta cosa eravamo, chi
siamo, e cosa vorremmo essere.
Non
ho usato queste parole per richiamare una visione cristiana del perdono,
o la ricerca di esso a testimonianza di cosa significhi essere perdonati.
Non
è pietismo a buon mercato che occorre per rendere effettiva la propria
rinascita, bensì una precisa volontà politica, affinché
la rieducazione e la Costituzione possano finalmente estrinsecarsi attraverso
passaggi e dinamiche esistenziali vere, condotte e sostenute da metodologie
e atteggiamenti vivificanti, in forza di spazi di socializzazione e di
figure di riferimento autorevoli, di educatori e operatori penitenziari
effettivamente a stretto contatto con i detenuti, e non solo per controllare
e reprimere, non solo per inculcare norme e regole nel tentativo di educare.
Ma per supportare e sostenere “insieme“ la capacità di esprimere
l’uomo nuovo che può nascere, e rinascere, anche in una prigione.
Ciò
per favorire “ insieme “ un ripensamento culturale che tolga le bende dagli
occhi e allontani la convinzione che basta mettere dentro il delinquente
per risolvere il problema.
Un
carcere a misura di uomo significa concedere la possibilità di rivedere
con occhi e sguardi nuovi ciò che è stato, e soprattutto
di intendere il proprio riscatto e riparazione, non come l’assunzione di
un servizio statuale, che come tale rimane uno scarabocchio sulla carta,
ma dovrà essere inteso come una vera e propria conquista di coscienza.
Aumentare
gli organici, ma quali? Solo gli Agenti di Polizia Penitenziaria?
Eppure
l’aspetto trattamentale serve a formare personalità mature, aiuta
a trasformare irriflessivi gregari in protagonisti attivi e positivi di
se stessi.
Rieducare
non sottende un’astrazione, neppure deve essere un traguardo per pochi
privilegiati, ma una realtà costante, alimentata dalla capacità
di mediare i principi del vivere civile alla quotidianità.
Questo
non può significare un fallimento a priori, perché mancano
le forze in campo e la credibilità di una legislazione forse non
condivisa, certamente mal sopportata.
Se
reinserimento e rieducazione camminano sulle tracce di una osservazione
concreta del detenuto, allora si può e si deve parlare di una crescita
effettiva.
Una
crescita che non ha nulla da spartire con le false aspettative, con le
pretese assurde di un auspicato cambiamento del detenuto, quando vi è
assenza di strumenti e di interventi chiari e decisi.
Il
carcere e la pena non saranno mai di alcuna utilità, se non vi sarà
una accettazione di obiettivi intermedi, personalizzati e soprattutto possibili,
adeguati al tempo previsto di permanenza in una struttura carceraria.
Inoltre,
ma questa è davvero un’utopia irrealizzabile, ogni progetto
rieducativo individuale andrebbe collegato a un progetto di struttura,
ciò per evidenziare quegli aspetti qualificanti e quello stile pretesi
dalle leggi, mai del tutto compresi dalla società.
Quanto
fin qui espresso, potrebbe aiutare a chiarire ciò che in un carcere
accade e soprattutto non accade. Sottolinearne una metodologia di lavoro
e di impegno, per edificare ponti significativi di relazioni e rapporti
reciprocamente rispettosi, tra detenuti, operatori, società libera.
In
conclusione, per quanto possa essere opinabile la mia riflessione di detenuto,
ritengo non più dilazionabile l’urgenza di coniugare in modo autentico
teoria e prassi, sicurezza e risocializzazione, in quanto entrambe le istanze
sono elementi costitutivi della nostra collettività.
Forse,
oltre la condivisione dei principi morali, i quali sono logicamente immutabili,
sarebbe più consono e umano condividere le modalità e le
sfumature, che invece e purtroppo cambiano sovente.
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15
ottobre 2001
Riceviamo
e pubblichiamo
una
riflessione
sul
carcere di Vincenzo Andraous, detenuto da 28 anni e da alcuni anni tutor
nella comunità Casa del giovane
di
don Franco Tassone, a Pavia.
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