copertina notizie percorsi interviste libri musica inchieste calendario novità scrivici
interviste

Bosnia, sopravvivere alla violenza della guerra
Slavenka Drakulic e la storia di S. che ha vissuto sul suo corpo l'inferno del campo
 


   "Eppure si sopravvive a tutto". Si resiste ai colpi della sorte, alle delusioni, alle sconfitte. Anche alle aberrazioni più gravi, alle umiliazioni più profonde. Persino al disonore, allo stupro. Come accade alle deportate che vivono nella "stanza delle donne", luogo di "privilegio" in uno dei campi di concentramento che hanno segnato i conflitti nei Balcani degli anni ’90. 
   Sopravvive anche S., una giovane maestra bosniaca che ha perso tutti i suoi cari e che, dopo la prigionia, finalmente libera a Stoccolma, scopre di portare in grembo il frutto di quelle violenze.  La condizione di S. è comune a tante donne vittime della guerra. Come andare avanti? Tacere, serbare in cuore quel disonore, eludere, dimenticare quei giorni di terrore e degradazione? E che fare quando, dall’odio e da un atto di pulizia etnica nasce una vita? Darla via, come pensa S. ai primi vagiti di quella creatura che cerca disperatamente il suo seno? Continua a guardarlo, come ha fatto per i mesi della gravidanza, "come un tumore", "combatte contro quel corpo estraneo, contro le cellule malate che si moltiplicano in lei contro la sua volontà".       
   Poi non regge al pianto disperato, lo prende in braccio, lo stringe forte e comincia ad allattarlo.
   Quella appena abbozzata è la storia che la giornalista e scrittrice Slavenka Draculic racconta nel suo ultimo romanzo "Come se non ci fossi" (Rizzoli), storia di una maternità che si afferma, di un amore per la vita che trionfa sulla vendetta e l’odio. Storia, anche, di una condizione di abiezione nei campi di concentramento e del dilemma di scegliere, aggiunge la scrittrice, "cui è meglio non sottoporre gli uomini. Perché, alla fine, nessuno si comporta nel modo migliore. Nonostante i buoni propositi. Il mio libro vuole porre il dilemma: cosa faresti tu in una situazione difficile. Tutti noi pensiamo: ah, siamo buoni, non farei mai una cosa così. E invece…".

D. "Come se non ci fossi", il titolo del suo romanzo è una citazione da Primo Levi. Perché questa emblematica frase?
R. Indica la condizione di assenza in cui vivono i profughi, coloro che sono state vittime della guerra e degli stupri nella penisola balcanica.
D. Che significa?
R. Che da una parte vogliono dimenticare, dall’altra non possono, non riescono a farlo perché è difficile. Allora vivono una vita doppia. 
D. E’ per questo che lei prova a descrivere "l’indescrivibile"?
R. Sì, per loro è ormai indescrivibile. Da parte mia ho provato, con la mia immaginazione, a entrare nella loro pelle.
D. Qual è la condizione di S. e delle compagne della "stanza delle donne"?
R. Essere delle privilegiate, se così possiamo dire, in una parte speciale dei campi di concentramento, il bordello. Queste donne erano stuprate per una scelta deliberata di pulizia etnica. Non vorrei che la gente pensasse che tutto questo avesse a che fare con il sesso.  
D. Cioè?
R. E’ un problema di potere. Un gruppo di uomini mandava un messaggio a un altro gruppo di uomini attraverso il corpo della donna. Un messaggio di disonore, per cacciare via la gente da un territorio. Questi stupri, come sappiamo, erano pubblici, e toccavano donne di ogni età.
D. Quanti sono i profughi delle diverse guerre nella penisola balcanica?
R. Non possiamo calcolarlo, perché alcuni sono in gran parte tornati, come quelli del Kossovo. 
D. Quante le donne che, come S., decidono di tenersi il bambino?
R. Non molte, direi. Che sappia e ricordi, solo due casi. 
D. La maggior parte ha abbandonato questi bambini?
R. Sì, o ha pensato di darli in adozione. Non vogliono tenerli. Ammiro le donne che hanno tenuto il bambino. La cultura patriarcale prevede che, se vuoi tornare nel tuo paese, con la gente che vive lì, non devi più parlare degli stupri, devi dimenticare, far finta di niente.
D. Quali sentimenti albergano nel cuore dei profughi?
R. Amarezza in primo luogo. Loro sanno che la gente che s’è macchiata di quei delitti non finirà mai in una corte, e giustizia non sarà mai fatta. Poi c’è anche un desiderio di dimenticare.
D. Tra i sentimenti c’è anche l’odio. Nel suo romanzo, a proposito di un ragazzo colto nell’atteggiamento di puntare pollice e indice come una pistola, lei scrive: "Non importa in che paese andrà, quel bambino realizzerà la sua vendetta". La guerra ha generato odio nei giovani?
R. Sì, pensi ai bambini che hanno visto massacrati genitori, fratelli, amici, bruciate e saccheggiate le loro case. Tutto ciò non poteva non generare un certo tipo di emozioni. 
D. Una domanda personale. Lei è croata, ha vissuto di persona la tragedia della guerra? Quanto l’ha toccata?
R. Penso che nessuno non poteva non essere toccato da questa guerra. Ciascuno ha amici, vicini, conoscenti coinvolti in un conflitto tanto atroce. Anche se non sono scalfiti gli affetti personali, la gente si divide per ragioni politiche. Nel caso mio la guerra mi ha cambiato la vita perché è arrivato il governo di Tudjman, e ho subito perso il lavoro
D. E per questo è esule in Svezia?
R. No, non sono esule, ho sposato uno svedese. Per sei mesi l’anno torno in Croazia. E comunque la mia vita è cambiata, nel senso che la mia famiglia è sparsa. Per esempio, mia figlia vive a Vienna per ragioni di guerra, tanti miei amici sono dispersi in tutto il mondo.
D. Una domanda generale Che idea s’è fatta dell’uomo. E’ vero, come pensano alcuni, che in ciascuno di noi c’è un fondo di violenza?
R. Meglio non mettere l’uomo di fronte ai grandi dilemmi. Uno di questi è quello che vive la protagonista del mio romanzo, S.: come sopravvivere nel campo di concentramento? La relazione con un capitano ci mette di fronte al problema: come scegliere, soccombere o adeguarsi. Ci sono molte situazioni di fronte alle quali non è opportuno che l’uomo si trovi. Sì, penso che la storia è una lotta contro la violenza che è dentro di noi.
D. Lei crede in questo male oscuro?
R. Noi non amiamo specchiarci in questa parte oscura della nostra natura. Per questo diciamo che i Balcani non ci toccano, sono diversi da noi. Invece i Balcani siamo tutti noi.
D. Mi pare comunque che lei indichi una terapia all’odio.
R. L’amore è la terapia. La decisione di S. di tenere il bambino. Capisce che non le è rimasto vivo nessun altro, tranne questo bambino. E dice: questa creatura è mia, non m’importa chi sia suo padre.  


o La giornalista Slavenka Drakulic in questa intervista spiega il suo romanzo "Come
se non ci fossi" (Rizzoli) che racconta la storia di una donna bosniaca che decide di tenere il bambino frutto di uno dei tanti stupri subiti nella "stanza delle donne" 
di un campo di concentramento.

Il dossier Kosovo
di Nonluoghi

Le elezioni
in Bosnia
 
 
 
 

 

copertina
notizie
 percorsi
interviste
i libri
musica
inchieste
calendario
novità
scrivici