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Le promesse non mantenute di "American Beauty"
Dopo il trionfo nella notte degli Oscar una riflessione sull'ipocrisia...
 


   Scusate, ma non riesco a trattenermi. Come da copione "American Beauty" ha trionfato nella notte degli Oscar. Sono d'accordo Kevin Spacey è bravo. Anche Sam Mendes è bravo. Il film è costruito bene e riesce a destare l'attenzione e forse anche la sensibilità profonda dello spettatore; forse anche dell'americano della media borghesia che viene dipinta apparentemente senza pietà nella pellicola.

    Perché apparentemente? Perché alla fine uno esce dal cinema e ha la sensazione che in fondo fosse stato tutto uno scherzo, una favola triste e drammatica ma pur sempre una favola. Le rose e il sogno e quei vicini un po' improbabili e poi quel finale - che non svelerò per amore di chi vorrà vedere per credere - tolgono al film la sua carica "eversiva", sollevano lo spettatore dal peso emotivo e intellettuale. 

   Quel tragico atto liberatorio finale - concepito forse, al contrario, come estrema espiazione di una società che produce mostri -  rischia di diventare per lo spettatore la liberazione dall'incubo di trovarsi spalle al muro, sudando freddo, incastrato nelle sue contraddizioni e nel suo vuoto opulento. Mi hai incastrato sulla sedia di un cinema e mi chiedi di rivedere la mia vita da capo a fondo? Mi chiedi di dire a me stesso la verità? Di cercare una via dell'onestà intellettuale in questo gran casino? Non è vero: stavi scherzando.
   E allora vado tranquillo a casa e sorrido di me e dei miei vicini ipocriti come te e me: quello era solo un film...

(Erika M. Pedersen)

o American Beauty ha vinto cinque Oscar. Ma il film riesce davvero a penetrare nell'anima
o alla fine
si risolve
in una favola triste?

(27 marzo 2000)

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