Nonluoghi SocialMente L’equivoco dell’articolo 18

L’equivoco dell’articolo 18

alberirossibolago-resizedLa nostra galassia non sarà mai più quella che conoscevamo. I nostri figli se ne dovranno fare una ragione. Così non si può più andare avanti. Questo è il tono del documento di 4.895 pagine che la Banca centrale intergalattica ha fatto pervenire a tutti i governi indicando una serie di misure “necessarie e indifferibili” per un riequilibrio del sistema economico.  Per quanto riguarda la Via Lattea, poche le novità rispetto al documento specifico di 9865 pagine che anni prima gli analisti dell’istituto centrale di Andromeda avevano inviato al Fondo monetario interstellare (Fmi) la cui sede di Plutone era poi stata data alle fiamme durante una manifestazione che inneggiava alla divinità romana accusando i tecnocrati plutoniani di averne stravolto l’originaria magnanimità.

 

D’altra parte, come fanno notare anche oggi diversi editorialisti galattici, Banca centrale e Fondo interstellare non sono che fedeli interfacce dei settori che detengono la gran parte della ricchezza materiale e finanziaria – e dunque del potere istituzionale – dello spazio infinito.
Come noto, costoro avevano affidato a professori – da loro retribuiti e coccolati – la costruzione di un’architettura dogmatica del tutto immaginaria che va sotto il nome di Uranian Consensus.

Una visione che fu inutilmente contrastata nella dialettica accademica dagli studiosi riuniti nel Saturnian New Fabian Society, intenti a dimostrare – dati alla mano – che quelle che venivano spacciate per leggi economiche altro non erano che costruzioni culturali declinate come decisioni politiche e legislative per perpetuare e consolidare il dominio parassitario delle classi agiate su quelle propriamente lavoratrici. A segnare la condanna dei Saturnian fu anche questo riferimento alle idee dell’economista eretico americano Thorstein Veblen (1857-1929), insieme all’insistente affermazione che il libero mercato era semplicemente un altro modo di definire un sistema in cui i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
I Saturnian furono quasi tutti allontanati con vari stratagemmi dalle loro cattedre, qualcuno fu pure accusato di avere spaccato (in concorso con altri incappucciati) qualche vetrina durante le manifestazioni intergalattiche contro la Banca centrale e l’Fmi.

Si ricorderanno i casi di Emeralda e di Genua, giusto per menzionare due città del Sistema solare teatro di sconvenienti rivolte.
Le loro teorie venivano così del tutto delegittimate e date in pasto ai mass media che avviavano un potente bombardamento culturale sull’opinione pubblica per spiegare che per stare bene domani bisogna soffrire (quasi) tutti oggi (il che peraltro suscitò in alcuni ambienti religiosi qualche tiepida replica poco amichevole con denunce di concorrenza sleale).
Si trattava, in sostanza, di mettere in atto una controffensiva perché ormai le idee dei Saturnian, sostenute dai loro innumerevoli studenti, stavano facendo breccia e le popolazioni mal sopportavano l’idea di sgobbare tutta la vita in condizioni sempre peggiori perché soltanto in quell’unico modo un giorno tutto sarebbe diventato perfetto per tutti, cosa che era da sempre realtà ma solo per quell’uno per cento intento a convincere il restante 99% che il paradiso può attendere.
Ancor prima dell’avvento del celebre Re Ghan e della principessa Thesan, che evocando lo spirito della dea etrusca indicava i dogmi di una nuova alba liberista, lo schieramento di forze era notevole e in alcuni Paesi – come il Cile – ne conservano un tragico ricordo.

Successivamente, mentre il nuovo vento suggeriva anche ai Saturnian e ai loro seguaci politici un graduale ma netto riposizionamento a destra (per distinguere le scuole di pensiero rimaneva calzante l’utilizzo delle vecchie categorie ideologiche), i processi di quello che stava trasformandosi in un pensiero unico subirono una pesante accelerazione.
Nel nome dell’Uranian Consensus l’uno per cento impose progressivamente la sua visione del mondo smantellando non solo molte idee precedenti ma anche buona parte delle leggi scomode.

L’uno per cento impose la sua visione del mondo

Quelle norme egualitarie erano quasi tutte risalenti all’era di Snotra, un’epoca animata da movimenti politici che si ispiravano all’omonima dea norrena e finirono al centro di un’operazione pluriennale di sputtanamento intergalattico da cui il loro modello, noto come socialdemocrazia scandinava, uscì devastato agli occhi delle opinioni pubbliche dello spazio infinito. Per non parlare delle visioni ancora più radicali, che nel main stream televisivo divennero sinonimo di diavoleria antistorica.
Tanto che ormai nelle università terrestri si insegnava soltanto il dogmatismo uraniano e sui giornali era tutto un rincorrersi di parole d’ordine uraniane: competitività, costo del lavoro, flessibilità, concorrenza, liberalizzazioni, deregolamentazione, limitare il diritto di sciopero, riparare i danni fatti dal ’68 (anno fecondo nell’era ideologica di Snotra) eccetera.
Una delle idee di fondo del nuovo pensiero unico era prendere come punto di riferimento la legislazione del lavoro in vigore nel distretto planetario di Bi Dong Vil e in particolare della città di Núlì Zhìdù (etimologicamente “terra degli schiavi”), al fine di assicurare alle imprese di mercato una massima libertà di azione che in un futuro non meglio precisato si sarebbe tradotta in un miglioramento della vita di tutte le persone; ma che per ora stava solo producendo un arretramento dei processi di emancipazione dei lavoratori, cioè di quasi tutti i cittadini: le condizioni nelle fabbriche e negli uffici diventavano sempre peggiori, bisognava produrre di più in sempre minor tempo, spesso il risultato finale non era qualitativamente un gran che e incoraggiava l’usa e getta, ma solo così si potevano rispettare le leggi della libera concorrenza; l’alternativa era spostare tutta la produzione in posti come Bi Dong Vil, dove tutto era facile e se la gente si ammalava – dentro o fuori le fabbriche – nessuno aveva nulla da ridire (ci avevano provato quattro-cinque sindacalisti di Núlì Zhìdù ma due furono trovati esanimi dentro dei bidoni della spazzatura – i giornali più autorevoli scrissero che si trattò di due casi di overdose contagiosa – e altri tre diventarono dirigenti di importanti corporation intergalattiche).

La gran parte dei terreni fertili trasformata in succursali dell’industria agrochimica

Il quadro si faceva però un po’ complicato perché parallelamente veniva ridotto il flusso di denaro disponibile nelle casse pubbliche (secondo gli uraniani era solo il primo step verso la loro totale eliminazione) e risultava sempre più difficile porre rimedio ai danni provocati dalle imprese lasciate scorrazzare semza guinzaglio: aumentavano i malati da curare (si è pensato così di abolire l’assistenza sanitaria pubblica); troppi operai morivano giovani smettendo così di pagare le tasse necessarie per le sovvenzioni alle industrie (alcune rivolte locali indussero i teknoministri a rinunciare all’ipotesi di trasferire gli oneri sugli eredi); l’aria, l’acqua e il terreno (iquel poco non ancora ricoperto di cemento, dato che costruire selvaggiamente era diventato uno dei principali sport della libera concorrrenza speculativa) versavano spesso in condizioni comatose senza che nessuno avesse le risorse per rimediarvi.
Ma anche questa evidente criticità fu archiviata come un retaggio del sistema precedente, colpa di quei maledetti saturniani (dei quali peraltro in giro apparentemente non c’era più traccia) e di tutti quegli anni passati a imbrigliare il mercato; perciò, non trattandosi di un fallimento intrinseco, bensì del suo opposto, a questo punto l’imperativo era una nuova accelerazione dogmatica.
Serviva più libertà d’impresa, anche perché non sempre era possibile trasferire tutto nella terra degli schiavi, come peraltro si faceva in parte da anni; conveniva -appunto – l’operazione inversa: portare da noi un po’ di Núlì Zhìdù.
Cattedratici di primo piano e di incontestabile profilo scientifico – attestato anche dai loro lauti e sicuri stipendi – presero così a teorizzare in aula e sui mass media la necessità di rendere il lavoratore ancora più flessibile e adattabile alle esigenze del mercato, l’unico modo per far davvero spiccare il volo a quella favolosa macchina chiamata impresa capitalistica. Furono introdotte nella legislazione nuove forme di lavoro che stranamente trovarono un po’ disorientati gli esseri umani: il lavoro in affitto, su chiamata, spezzettato, a progetto, dipendente ma con partita Iva, socio di cooperativa ma con un padrone incarognito che comanda eccetera. Sorsero addirittura delle agenzie – ovvero imprese di mercato – allo scopo di selezionare e affittare i lavoratori, nonché di veicolare nelle menti il modello della massima competizione come strutturalmente costitutivo della personalità umana.

Sorsero agenzie allo scopo di selezionare e affittare i lavoratori

Purtroppo, però, pur confondendo pesantemente il quadro empirico, le classi dirigenti si trovarono a fare i conti con risultati economici poco soddisfacenti e con la crescente frustrazione di lavoratori stressati, indebitati (bastarono pochi anni a capire che era stata una truffa uraniamente legalizzata dare soldi in prestito a moltitudini con paghe da fame) e ossessionati da modalità di lavoro ottocentesche con stipendi di cui non v’era nemmeno certezza temporale (questo mese ce l’ho, il prossimo chissà) cosicché anche le banche diventarono avare mentre anche mandare i figli a scuola era diventato un lusso cui molti dovevano rinunciare.
In giro c’era un’aria da depressione impressionante, specie dopo il disastro nei mercati finanziari che aveva messo a nudo la rapacità del solito uno per cento che non solo predicava un dogma ormai sempre meno credibile ma in realtà trascorreva il suo tempo a speculare con i denari altrui per arricchirsi senza produrre nulla, se non disastri per gli altri.
Sembrava finalmente giunto il momento di mettere davvero in discussione quelle 9865 pagine e magari di tirare fuori dai cassetti impolverati i vecchi testi saturniani (ormai dismessi da tutte le università) che non solo avevano predetto il fallimento sociale dei dogmi uraniani ma indicavano anche un percorso per ricostruire con il riformismo progressista una parvenza di convivenza umana e di economia meno distruttive, magari sperimentando qualche idea nuova anche nella struttura stessa dell’impresa e delle sue regole.
E invece, ecco che ora da Andromeda arrivano queste 4.895 pagine in cui sostanzialmente si difendono i dogmi e si invitano i governi (in gran parte composti di teknoministri uraniani già dirigenti della Banca centrale o di sue associate) a essere più rigorosi nell’applicazione della grande legge del Mercato e in particolare si sottolinea che i lavoratori devono smetterla di piagnucolare, che Bi Dong Vil resta un modello e che bisogna accelerare su tutto, specialmente sulla vera causa della precarietà lavorativa ed esistenziale di cui tanto si lamentano quegli sfigati nelle piazze: va fatto loro intendere – con le buone o con le cattive – che se non hanno uno stipendio certo e dignitoso (condizione peraltro da ritenersi monotona e antiquata per il 99%, non per il restante uno per cento) è colpa di quegli schifosi retaggi normativi saturniani tutti a favore di quei parassiti dei dipendenti delle libere imprese di mercato.

Ormai non ci resta che discutere dell’articolo 118

Teknoministri, politici e baroni universitari hanno accolto con un plauso responsabile le 4.895 pagine che indicano la ricetta sacrificale obbligata (tanto a sacrificarsi saranno gli altri); a questo punto si è levata con forza la voce dell’anziana studiosa Syn Jenssen, di origine nordica e battezzata dai genitori (entrambi storici esponenti della protoscuola saturniana) col nome della dea della giustizia e della verità: “Ormai non ci resta che discutere dell’articolo 118”.
Molti giovani rampanti degli atenei terrestri le replicarono sùbito ironizzando sul lapsus senile evidente in cui era caduta la novantenne economista: voleva dire articolo 18, brava, benvenuta nel club di chi ha capito che il problema sono quei maledetti lavoratori pieni di diritti in cambio dei quali danno solo la loro vita passata in fabbrica o in ufficio mentre l’uno per cento passa da uno yacht all’altro a ragionare di economia e del loro futuro. Pretendono pure che uno un bel giorno non posso svegliarsi e decidere che qualcuno di questi arroganti vada licenziato a piacere, su base individuale ma anche di massa, per poi assumere qualcun altro che costerà meno e romperà meno le scatole all’azienda lasciandola crescere e competere in pace.

Brava, Syn, finalmente l’hai capito anche tu che l’articolo 18 è il vero problema di questa ingessatura dell’economia”.
L’anziana professoressa ha affidato la sua riposta a un tweet: “#Manicomio: intendevo proprio articolo 118, per voi; quello delle ambulanze”.

Zenone Sovilla

Zenone Sovilla

Giornalista e videomaker, creatore di Nonluoghi nel 1999, ha lavorato in Italia e all'estero per giornali e stazioni radiofoniche. È redattore Web del quotidiano l'Adige.

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