Il fenomeno della metropolizzazione delle città come fonte del malessere della nostra epoca, della fuga dalla dimensione umana, della mortificazione di una speranza di conversione ecologica profonda.
Se ne occupa Guillaume Faburel, docente di geografia, urbanistica e scienze politiche a Lione, in un libro di cui (prima ancora di poterlo leggere) ho ascoltato la presentazione a Lille. Il volume si intitola “Les metropoles barbares. “ (Le metropoli barbare. Deglobalizzare la città, deurbanizzare la Terra), edizioni Le Passager Clandestin (2018).
Il focus è posto sulla corsa ormai ultradecennale verso una progressiva metamorfosi degradante della città: da prolifico luogo di emancipazione sociale e culturale a spazio affidato in larga parte a interessi privati (diretti o indiretti) secondo un disegno di intensificazione e di massificazione.
Un disegno, già abbondantemente realizzato in molte città (quale la stessa Lille).
Un disegno che implica fra l’altro un’impressionante cementificazione: la città e il suo paesaggio, asserviti all’ortodossia neoliberista, ne risultano totalmente sfigurati, segnati da un proliferare di costruzioni – spesso assurde – e accerchiati da una fortificazione asfissiante fatta di strade, tangenziali e autostrade. Un parossismo motorizzato.
L’idea stessa di natura ne esce più che sbiadita, direi semplicemente negata.
L’autore propone una profonda e articolata analisi della costruzione deliberata nell’immaginario di un desiderio metropolitano come orizzonte di liberazione e emancipazione umana: in realtà si tratta di un preciso modello di omologazione sociale ai meccanismi di dominio e di sfruttamento propri del sistema neoliberista e del mercato deregolamentato.
La metropoli come simbolo e teatro del compiersi di processi di espropriazione democratica, accentramento decisionale, banalizzazione dei consumi.
Epicentro del mondo economico e lavorativo, grande attrattore di traffico, vetrina da esporre in una evanescente “competizione internazionale” nella quale avrebbe socialmente senso far brillare con orgoglio stazioni del Tgv, grattacieli, autostrade e altre concentrazioni di potere che sottraggono spazio tanto alla libertà dell’immaginario collettivo quanto alla qualità concreta della vita quotidiana di ognuno (a eccezione dei pochi eletti che si possono permettere contesti “protetti”).
Uno scenario illusorio e ipnotico, utile a confondere e a occultare – per perpetuarle – le enormi criticità della nostra epoca, come la crescente diseguaglianza nella distribuzione di redditi e di patrimoni, quindi di diritti fondamentali quali la salute o l’accesso all’alloggio e allo studio.
Una rappresentazione ingannevole cui concorrono, in simbiosi, decisori pubblici e grandi imprese private, che distraggono l’opinione pubblica da un’altra emergenza primaria: i processi esiziali – ma furbescamente minimizzati dal potere – dell’inquinamento atmosferico (legato in gran parte ai trasporti e all’industria) e di un’agricoltura intensiva che devasta le campagne al servizio della voracità metropolitana (anche sotto forma di crudele catena alimentare carnivora).
L’autore, nella sua lucida analisi della metropolizzazione subita da opinioni pubbliche sfibrate, si interroga anche sulla debolezza degli attori politici consapevoli e realmente orientati a un’azione diretta per fermare l’attuale deriva decadente e per promuovere percorsi di conversione. Conversione, per esempio verso orizzonti alternativi fecondi, come il municipalismo libertario, richiamato più volte da Faburel, l’altra sera, nel suo intervento a Lille, nei locali del Polder di Hellemmes, dove il dibattito è stato assai vivace.
Più che lotta politica o disobbedienza civile organizzate, registriamo il moltiplicarsi di fughe solitarie dalle metropoli verso le aree rurali. Cioè a forme – peraltro illuminanti – di consapevolezza, resistenza e rifiuto su base individuale.
La metropoli, oggi un sarcofago bulimico di densità abitativa smisurata, propensione energivora e frattura dal mondo naturale, va riportata alla dimensione cittadina, al vivere in comunità, al recupero dell’intreccio relazionale oggi ostacolato da un sovrappopolamento opprimente e da un’infrastrutturazione e una crescita edilizia insensate.
Va liberato dalla cementificazione anche il pensiero.
Il quadro ben descritto da Faburel mi conferma l’esigenza di insistere in una riflessione e in un tentativo di elaborazione di strategie politiche.
Ma la politica istituzionale (salvo rare e lodevoli eccezioni) parla di tutt’altro. Probabilmente questa apparente trascuratezza o impotenza è un metodo scientifico per distrarre e tenere il potere occupandosi piuttosto di faccende inutili o dannose. Non a caso, una serie di indicatori primari della qualità della vita continua a peggiorare o a stagnare da anni in vari Paesi europei.
La metropoli ridisegna un’immagine opaca della stessa natura umana negandole, fra l’altro, l’istinto di muoversi nello spazio “metropolitano” con i mezzi del proprio corpo: cuore, polmoni, gambe. E il desiderio istintivo di vivere a contatto con il mondo naturale viene fagocitato, metabolizzato e restituito nella forma edulcorata del marketing turistico.
Ecco, allora, interroghiamoci sulla nostra idea di benessere e vediamo se e come i decisori istituzionali (e economici) vi corrispondano.
È benessere essere costretti a vivere in metropoli ormai trasformate in camere a gas e correre seriamente il rischio di ammalarsi o morire a causa dell’inquinamento?
È benessere subire il furto dell’immaginario naturale, della nostra relazione psicologica con la Madre Terra?
È benessere uscire di casa e vedersi accerchiati da veicoli a motore di ogni stazza e dalle infinite colate di asfalto loro dedicate?
È benessere non avere a disposizione nemmeno dei corridoi di fuga dalla metropoli verso una parvenza di natura, col risultato che per arrivare a un boschetto bisogna per l’appunto percorrere in auto le detestate autostrade e tangenziali?
È benessere rischiare la vita se si intente muoversi a piedi, in bicicletta o con altri mezzi a combustione umana?
È benessere non riuscire a trovare un’abitazione dignitosa a prezzi abbordabili?
È benessere doversi cibare di prodotti di scarsa qualità, pieni di sostanze dannose per la salute (e per la terra, l’acqua e l’aria) quali i pesticidi, simpateticamente denominati “fitofarmaci o agrofarmaci” dai rètori della metropolizzazione?
Se siamo d’accordo che questo non è benessere, chiediamoci allora che cosa possiamo fare, da dove si può cominciare, come e con chi.
Personalmente sono convinto che va ripresa con forza e sviluppata la strada dei movimenti ecologisti anni ’70 e ’80, per elaborare collettivamente e attuare a mano a mano un progetto radicale. Senza aver paura di camminare sul filo dell’utopia concreta, di sperimentare soluzioni nel nome della riduzione del malessere urbano.
Nelle metropoli e nella altre ex città oggi brutalizzate dai processi di urbanizzazione selvaggia, urge ricostruire un tessuto a misura umana e naturale.
Vanno affrontate innanzitutto le principali criticità.
Dunque per la questione inquinamento e traffico vanno intensificati resi gratuiti i trasporti pubblici.
Parallelamente servono deterrenti contro l’invasione rumorosa e inquinante di mezzi a motore, utilizzati sia per le persone sia per le merci.
Va elaborato un disegno di destrutturazione profonda, di desaturazione e di rinascimento.
Tangenziali e autostrade vanno in parte restituite all’umanità sotto forma di piste ciclabili, percorsi pedonali, aree verdi.
Idem per quanto riguarda l’occupazione impazzita di suolo urbano a scopi edilizi, sarà necessario uno sforzo per demolire (e riciclare), liberare spazi, ricreare orizzonti naturali per decementificare il territorio e l’immaginario.
Il decisore pubblico sarà chiamato anche a scelte radicali in termini di riallocazione degli ambiti occupazionali, oggi troppo spesso concentrati nelle metropoli o ex città, e di incentivi al trasferimento dei cittadini vicino al luogo di lavoro oppure all’utilizzo di mezzi di trasporto non motorizzati (o almeno collettivi).
Va da sé che nelle aree metropolitane si imporrà uno stop al consumo di suolo, mentre in una logica policentrica potranno essere elaborate, in condivisione con le cittadinanze locali, forme di rinnovamento ed eventualmente leggera espansione degli altri centri abitati.
In questi di mutazione urbanistica vanno aiutate senza indugio famiglie e persone bisognose con urgenza di un alloggio a condizioni agevolate.
Anche il capitolo energetico va affrontato con radicalità, nel segno di un’atomizzazione degli approvvigionamenti, dunque con il massimo investimento nelle prassi di risparmio e nell’incremento dei piccoli impianti diffusi nelle case e negli edifici pubblici, un modello democratico incompatibile con sistemi centralisti e men che meno – ovviamente – con la follia delle centrali nucleari.
Abbiamo in Europa innumerevoli esempi di cittadine che conservano una dimensione umana e che, in un contesto policentrico e reticolare, possono offrire ai cittadini straordinarie opportunità di benessere e di emancipazione sociale, culturale e professionale.
Ma il fronte delle riforme essenziali dovrà comprendere anche la redistribuzione dei redditi e della ricchezza: servono il coraggio di interventi fiscali e sul mercato del lavoro per togliere ai ricchi e dare ai poveri. La questione è abbastanza semplice: porre limiti ragionevoli e precisi allo sfruttamento degli esseri umani ai fini dell’accumulazione di risorse da parte di altri esseri umani.
Nel discorso pubblico corrente si menzionano spesso i poveri e la necessità di politiche a loro sostegno (sotto varie forme di pietismo caritatevole); ma non si parla quasi mai dei ricchi. Specie di quelle classi agiate di vebleniana memoria che, lungi dal mettere a frutto il proprio lavoro produttivo, sono una minoranza globale che difende pervicacemente il suo istinto accumulatore e di rapina tramite i mercati finanziari (e il loro controllo sulle industrie), la proprietà e la rendita.
Vanno poi elaborati piani di umanizzazione dei consumi, mediante norme che penalizzino e inibiscano le produzioni dannose per la salute e l’ambiente.
Va pretesa una revisione delle “regole del gioco” globali, per esempio il totem neoliberista della massima deregolamentazione e il feticcio ingannevole della concorrenza salvifica: è di primaria importanza riuscire a sfiancare con strumenti istituzionali la dittatura delle grandi imprese di mercato.
Non ultimo va sviscerato il nodo drammatico della violenza e della guerra: adoperiamoci seriamente per espellerle dalla storia, cominciamo affrontando la questione militare (in un’epoca che registra tragicamente una nuova corsa al riarmo con i relativi costi umani e finanziari).
Appropriamoci tutti insieme di una cultura della nonviolenza. Farà del bene a noi tutti (scontenterà solo le élite dominanti e ultradanarose).
Avremo la forza di articolare un ragionamento serio su queste (e altre) traiettorie di pensiero e di azione politica che personalmente reputo ineludibili e urgenti?
Complicato? Indubbiamente; ma bisogna giocoforza tentare di fare un primo passo, accorto ma deciso, in una direzione radicalmente divergente dalle dinamiche in atto.
Bisogna creare strumenti in grado di produrre una progressiva riduzione della sofferenza, di ripulire il campo dai processi che generano malessere, dissesto sociale e abbruttimento della persona.
Bisogna adoperarsi per animare con fermezza società positive, oneste, trasparenti, creative.
Per favorire questi passi in una direzione nuova, ma ben delineata, considero necessaria anche una visione che punti alla destrutturazione degli Stati nazionali così come li conosciamo (ormai semplici alleati della dittatura del mercato).
Serve un lavoro profondo di geometria costituzionale, in un’ottica federalista di rigenerazione delle architetture democratiche a ogni livello (reticolare, policentrica e solidale), di sperimentazione di nuovi circuiti informativi e decisionali, di autonomie territoriali, di coinvolgimento dei cittadini, degli studiosi, dei tecnocrati, in un grande progetto di trasformazione umanizzante.
Ma a monte di tutto ciò vi è dell’altro, una questione antropologica costitutiva, fondamentale: abbiamo oggi la capacità di riflettere sulla scissione fra noi e la natura?
Di recuperare il nostro essere natura e non ridurci a vivere come uno sterile agente esterno che al massimo può tornare a rispettarla un po’ di più?
Se non troveremo la forza di rientrare nella natura il nostro destino di specie mi sembra segnato.