Le persone che, come chi scrive, si occupavano già decenni or sono di ecologia e nonviolenza, ricordano che la questione del pericolo nucleare/militare veniva sollevata ben prima della tragedia alla centrale di Chernobyl (1986) e del referendum che poco dopo bloccò i programmi atomici italiani (che ci lasciano tuttavia una non semplice gestione di scorie radioattive).
Gli eventi sanguinosi nell’Ucraina invasa dalle forze armate russe ci stanno rinfrescando la memoria.
I missili sulla centrale atomica di Zaporizhzhia, la più grande d’Europa, nel sud-est dell’Ucraina, hanno sfiorato una catastrofe indicibile. È tornato il brivido nucleare, si è temuta una nuova Chernobyl (qui, fra l’altro, l’impianto dismesso, ma pieno di scorie, è stato preso dai militari russi e non è chiaro che cosa vi stia accadendo).
A qualcuno tutto ciò deve aver rinfrescato la memoria (che altri, al contrario, non hanno mai perso).
Gli smemorati
Molti, in effetti, anche nelle classi dirigenti italiane, sembravano aver dimenticato nei mesi scorsi la cognizione dei rischi legati alla scelta energetica nucleare, di nuovo evocata con afflato patriottico, ultimamente, a fronte dei rincari dei combustibili.
Fra le numerose criticità degli impianti, non figura solo il ben noto (quanto spesso minimizzato nei formalismi tecnocratici) rischio di incidente, che sia pur remoto, potrebbe rivelarsi catastrofico: perciò molti Paesi preferiscono privilegiare un principio di precauzione e non installare sul proprio suolo simili strutture.
Altri lo hanno fatto ma ne hanno programmato una dismissione progressiva (così la stessa Germania). Altri ancora, come la Francia o il Belgio o vari Stati dell’est, semplicemente se ne infischiano, forti della loro granitica fiducia nella tecnoscienza nucleare che assicura (forse) alcuni vantaggi competitivi nello scenario globale ma crea non pochi grattacapi (oltre alla gestione del rischio, la questione dello stoccaggio dei pericolosissimi detriti radioattivi).
Il rischio bombardamenti (e terrorismo)
Fra le eventualità di cui parlavamo negli anni Ottanta come pericoli da considerare, prima di gettarsi in avventure atomiche senza possibilità di (rapido) ritorno, c’erano proprio gli eventi connessi con le operazioni belliche. Oltre alle intrinseche connessioni fra ricerca “civile” e inquietanti applicazioni militari dell’atomo.
In caso di guerra o comunque di attacco militare, per esempio un bombardamento aereo, le centrali nucleari diventano obiettivi iper sensibili. E siccome non si sa mai con chi si può avere a che fare (si veda, appunto, il comportamento dei militari russi in Ucraina), dovremmo riconoscere che un impianto atomico può trasformarsi nella genesi di una calamità di proporzioni difficilmente quantificabili a priori (ma di certo letali).
Anche la sola conquista di un siffatto impianto da parte di un esercito invasore rappresenterebbe un gravissimo problema: prenderebbe il controllo su parti della rete elettrica, in sostanza potrebbe causare blackout programmati.
Un sistema centralista
Questa è una fragilità severa di un sistema di approvvigionamento energetico di stampo centralista, basato su una serie di centrali che se sabotate provocherebbero una crisi pesante.
E un sabotaggio, di là dagli eventi propriamente bellici, potrebbe essere opera anche di gruppi terroristici: un’altra labilità della soluzione nucleare.
In generale si può osservare che il capitolo energetico, così come molte altre forme di organizzazione (politica compresa), mette a nudo tutti i limiti e i fallimenti dei sistemi centralizzati, verticali e strutturati su marcata base gerarchica.
Un’organizzazione capillare, territorialmente diffusa, con prevalenza di fonti rinnovabili, risponderebbe – al contrario – in modo democratico anche a queste criticità.
Quanta energia possiamo permetterci?
Le società energivore in cui vive buona parte di noi dovrebbero dunque interrogarsi con onestà su questo scenario: per cercare risposte, però, sarebbe consigliabile un capovolgimento del percorso logico.
Non chiedersi quanta energia ci serve, ma che cosa possiamo permetterci con l’energia che produciamo con metodi non distruttivi.
E da qui mettere in atto processi realmente “ecologici”. Che ci salverebbero sia dal pericolo nucleare sia più in generale dalla rotta suicida di un’umanità che si sta via via estraniando dal resto della natura. Col rischio di finirne (auto)espulsa.