Dunque dopo quattro settimane di regale e ostentata indifferenza, il presidente francese Emmanuel Macron ieri si è degnato di rivolgersi direttamente ai cittadini che si attivano per reclamare, in poche parole, una società più equa.
È una mobilitazione, quella dei gilet gialli, che può piacere o non piacere, ma sarebbe arduo negare la sua efficacia nel mettere a nudo i fallimenti dell’intreccio regressivo fra politica e economia in atto da decenni.
Senza dilungarsi qui in analisi sulla natura ideologica e sulla eterogeneità dei soggetti e dei fini dell’onda gialla, la si potrebbe riassumere in un sonoro e probabilmente definitivo “basta” al modello neoliberista che rende i ricchi sempre più ricchi, sottraendo disponibilità finanziaria e qualità della vita a tutti gli altri.
La sintesi dell’indignazione che attraversa la Francia è tutta qui: nella presa di coscienza e nel conseguente rifiuto di questo sistema della precarietà permanente e dell’esasperazione della concorrenza competitiva finanche fra le persone.
Il presidente ha ignorato per settimane le rivedicazioni redistributive, peraltro minime, in termini di giustizia sociale avanzate dal coro dei gilet gialli. Difficile immaginare che l’Eliseo non avesse previsto che un muro di gomma presidenziale avrebbe incoraggiato il degenerare della mobilitazione e l’infiltrarsi dei soliti sfasciavetrine. Ciò che forse ha sorpreso anche il sovrano ridisceso dall’Iperuranio è che i gilet gialli hanno superato incolumi, col sostegno dell’opinione pubblica maggioritaria, pure i forti rischi di delegittimazione rappresentati da una minoranza esecrabile di teppisti fuori controllo.
Finalmente, dunque, ieri sera il presidente ha parlato. Tredici minuti nei quali la ciccia erano alcune misure contabili (tipo la defiscalizzazione degli straordinari) annunciate per sollevare le sorti della classe media e dei pensionati. Una performance imbarazzante.
Pensava veramente l’ex banchiere d’affari, che l’anno scorso ha pure tagliato la tassa patrimoniale, di cavarsela così a buon mercato?
Ora, di là dal conto in banca e dal physique du rôle aristocratico che di certo non lo aiuta, Macron non può minimizzare e rispondere con questo piatto di lenticchie a un movimento che mette in discussione il risultato deprimente di decenni di politiche economiche e i meccanismi che ne stanno all’origine.
Certo, il presidente può fingere di non aver afferrato il senso del terremoto sociale che scuote la Francia; ma con ciò confermerebbe l’impressione non solo di una distanza maiestatica, anche di una pervicace determinazione a praticare politiche intrinsecamente inique e a non affrontare il nucleo del problema.
In questo nucleo, accanto al tema redistributivo e del lavoro precario, c’è il nodo di una rappresentanza democratica sempre più opaca e abusata, come ripetono sonoramente i cittadini col gilet che alle rotatorie gridano «Macron démission».
C’è la questione di una cittadinanza che diventa sudditanza, se per lunghi anni vengono attuate politiche economiche e sociali che peggiorano le condizioni di vita degli elettori o dei loro figli (chi mai voterebbe per stare sempre peggio?).
C’è la questione delle aree non metropolitane, quelle rurali e quelle montane depredate via via di servizi e di posti di lavoro, col risultato fra l’altro di aver moltiplicato artificialmente, a dismisura, le esigenze di mobilità quotidiana delle persone.
La corsa obbligata all’uso dell’automobile e il conguente inquinamento (che causa malattie e morti) è uno degli effetti sistemici di un sistema economico basato sulla massima deregolamentazione di mercato e sulle sue logiche metropolitane, energivore e cementizie.
In questo contesto l’indiscriminato adeguamento al rialzo delle tasse sui diesel – che è stata la scintilla di questa rivolta popolare – si può interpretare come un intento paternalista di colpevolizzare i singoli cittadini per azioni cui in realtà sono costretti da un sistema deciso altrove, nelle torri d’avorio di un potere sempre meno trasparente e democratico.
Le vere politiche ecologiche latitano in Francia come in molti altri Paesi europei (e non).
In questo quadro non sorprende, ma rammarica, l’arroganza del potere parigino, tanto del presidente quanto del governo, totalmente refrattario a ogni invito a riflettere anche sullo stato della democrazia.
Non è per nulla un caso se dalle rotatorie e dalle piazze dei gilet gialli, così come dalle scuole che rifiutano una riforma “elitaria”, si è levato anche un grido per una riforma degli strumenti della partecipazione democratica.
Possibile che da decenni si parli di crisi della democrazia occidentale e poi si neghi l’evidenza quando sin tratta di riflettere su come rianimare i processi partecipativi?
Lo stesso caso Macron, peraltro, è emblematico: l’attuale inquilino dell’Eliseo ottenne al primo turno il sostegno del 24% dei voti espressi, vale a dire che lo sostennero direttamente otto milioni e 600 mila cittadini (provenienti in gran parte dai ceti più abbienti). Gli altri, no.
Al ballottaggio, poi, molti da sinistra decisero di esprimersi per Macron, portandolo al 66% (poco più di 20 milioni di voti) per evitare l’incubo di un successo dell’estrema destra di Marine Le Pen.
Macron successivamente ha sequestrato quei consensi arrivati da sinistra, se n’è appropriato bellamente e li ha utilizzati per praticare politiche economiche di destra.
Un problemino democratico parrebbe sussistere, con buona pace anche dei rètori italici del “presidenzialismo alla francese”.
Si aggiunga poi la questione centro/periferia, il dominio parigino e metropolitano, la crisi e l’impotenza delle aree rurali, e si comprenderà quanto cosmetica e forse anche demagogica sia la pseudo-risposta che presidente e governo rivolgono controvoglia a chi più che chiedere esige riequilibrio economico e democratico.
La resistenza messa in atto dal modello dominante è fenomenale. Tuttavia, è evidente che solo una discussione profonda sulla crisi di sistema potrà offrire uno sbocco duraturo al malessere espresso dai cittadini (nel caso specifico quelli in pettorina gialla, ma non sono i soli in Europa).
Qui si gioca anche la rinascita di una nuova sinistra che riprenda in mano i propri valori originali di eguaglianza, declinandoli nel segno delle esigenze urgenti di riequilibrare i rapporti di forza, restituire dignità ai cittadini tramite garanzie sul lavoro e sul peso specifico di ognuno in democrazia (che sia davvero una testa un voto, non milioni di voti per una testa…).
Ma si tratta di declinare quei valori anche nella dimensione redistributiva del potere, ripensando l’architettura democratica della delega piena, centralista, verticistica e nazionalista: si può riflettere, in Francia come altrove, su una prospettiva di federalismo partecipativo, che accentui realmente il protagonismo dei singoli cittadini e delle comunità locali.
Una dinamica creativa, orizzontale, solidale e internazionalista che riattivi anche le energie di una visione europeista non più ridotta ai confronti e ai veti di governi decadenti.
Eguaglianza, però, nell’orizzonte di una nuova sinistra è anche quella fra noi esseri umani e il resto della natura. Ci vuole ora il coraggio di affermare questa cruda verità e di coinvolgere i cittadini (informati e consapevoli) nella risposta collettiva a questo bisogno indifferibile di correggere i fallimenti del sistema sociale, economico e politico che devasta la vita e l’ambiente fra inquinamento e cementificazione speculativa.
La conversione ecologica più che una tassa sul diesel è una riprogrammazione profonda del sistema produttivo e dei consumi, delle scelte urbanistiche, della irrazionalità di società abbandonate alla logica dei profitti mercantili.
Insomma, è una riprogrammazione profonda e condivisa della relazione fra le attività umane e l’ambiente.
Ciò con una premessa essenziale: ritrovare la “normalità” umana di essere parte integrante della natura, non semplici utilizzatori esterni più o meno rispettosi della Madre Terra.