A quanto pare ci siamo, dopo due mesi e mezzo nei quali i cittadini sono stati avvolti da una nebbia verbale mentre gli eletti del 4 marzo se la cantavano fra loro nell’opacità di infiniti incontri “segreti”.
Fra slogan sterili ripetuti all’infinito (immigrazione, Ue, pensioni) e battute da bar Sport, si è arrivati all’accordo sul “contratto” tra M5S e Lega dopo settimane politicamente strazianti e poco decorose (sia per le performance dei due protagonisti sia di tutti gli altri partiti). Altro che democrazia diretta, bilanci partecipativi e trasparenza in streaming. Altro che “mai alleanze”.
Altro che risposte ai milioni di elettori di sinistra, molti in fuga dal Pd, il cui voto del 4 marzo viene “sequestrato” per governare con la destra.
Ora, si attende la decisione finale del Quirinale sull’eventuale incarico a una figura “esterna” indicata da cinquestelle e Lega. Un “non eletto”, direbbero loro, se si trattasse di tecnici e professori altrui…
Nel frattempo si possono anticipare alcune riflessioni sullo spettacolo fin qui offerto (a carico dei contribuenti) dai registi del “governo del cambiamento”.
Banalmente la prima osservazione riguarda l’ambiguo “post-ideologismo” declamato dal movimento Cinque stelle: con apparente noncuranza si è passati dal corteggiare la Lega (oggi più destra che mai, con saldature ideologiche e programmatiche che vanno dal Front National ai neofascisti nostrani) al cinguettare verso il Pd renziano (partito solo simbolicamente di centrosinistra, nella realtà delle leggi una forza di governo neoliberale, di centrodestra) al ricercare il Carroccio dopo la porta in faccia sbattuta dal fiorentino già firmatario del patto del Nazareno con Berlusconi.
Così il patto l’hanno firmato invece Salvini e Di Maio, dopo interminabili sedute a porte chiuse nelle quali si è scritto il cosiddetto contratto (brutto vocabolo quando si tratta di politica e di democrazia, era meglio un semplice “programma di governo”).
Evitiamo qui elucubrazioni sul filo dei se e dei ma, in riferimento ai contenuti di un’improbabile intesa M5S-Pd.
Cerchiamo piuttosto di capire dove ci porterà questo “contratto” tra gli ex federalisti del Nord ora sovranisti nazionali e gli ex green economy e no tav ora piuttosto “prima gli italiani” e flat tax.
Uno scenario politico inequivocabilmente di destra, comprensivo dell’eventuale reddito di cittadinanza, dell’ammorbidimento sulle pensioni, delle promesse su asili nido (anche in questo caso sussidi solo agli italiani, of course: gli stranieri residenti che lavorano e pagano le tasse avranno probabilmente qualcosa da chiedere alla Corte costituzionale) .
A proposito di italiani “stranieri” è ovviamente sepolta ogni ipotesi di riforma nel segno di uno Ius soli più aderente alla realtà e alle esigenze dei tanti giovani nati in Italia ma non ancora “cittadini”.
Ma di là dai diritti civili (finiscono in soffitta fra le altre anche le norme sull’eutanasia) a colpire sono due grandi fronti più direttamente legati alla qualità della vita quotidiana delle persone.
A cominciare dalla enorme e insoluta questione della precarietà esistenziale e del riequilibrio dei rapporti di forza fra capitale e lavoro, cioè tra imprese di mercato e cittadini.
Non solo non si intende abolire il renziano Jobs Act (che genera occupazione temporanea e tutele approssimative), ma si annuncia il ripristino dei famigerati voucher, un emblema della incertezza professionale eletta a sistema.
Altro che i cinquestelle generazione precaria e tutta la retorica antisistemica sulla giustizia sociale. La visione (per quanto opaca e sfuggente) si rivela sostanzialmente fedele al meccanismo neoliberista; caritatevolmente però, con una lacrima e un sussidio pronti per i poveri…
Ma nell’abbraccio leghista si intravede anche un volto “sviluppista” dei Cinque stelle, che dopo anni di annunci ecologisti ora balbettano sul Tav e sull’Ilva e restano evanescenti su un’emergenza nazionale (e europea) quale l’inquinamento atmosferico, cioè le malattie e le morti a causa della pessima qualità dell’aria. Traffico a motore e sistema produttivo sono le cause principali di questa moria (nel mondo, Italia compresa, 7 milioni di decessi l’anno, secondo i dati Oms), addebitabile anche alle fonti non rinnovabili di energia.
Sarebbe stato bello sentire ogni giorno, per settimane, dopo il 4 marzo, il signor Di Maio parlare della tragedia dell’aria che uccide, dei paesaggi devastati, del suolo divorato, dell’agricoltura violenta dominata dai pesticidi, delle acque depredate. Della vita, della salute, della malattia e della morte determinate dai comportamenti e dalle decisioni delle imprese di mercato e delle istituzioni politiche.
Evidentemente queste bagatelle sono considerate di secondaria importanza nella lotteria del consenso, meglio la litania infinita sulle pensioni, l’euro e l’immigrazione (senza peraltro produrre soluzioni serie e sufficientemente articolate e credibili nemmeno per queste problematiche).
Certo, malgrado i silenzi dei leader, nel contratto si parla genericamente di economia circolare, rigenerazione delle risorse, tutela del suolo con il coinvolgimento degli enti territoriali, ma sembrano più che altro propositi vaghi, quasi fosse un dovere d’ufficio inserirli fra i punti promessi.
Più espliciti e confortanti i riferimenti all’acqua pubblica e alla strategia zero rifiuti (che significa anche basta finalmente con gli inceneritori).
Non che i governi precedenti abbiano fatto di meglio, per l’amor del cielo.
Né sul lavoro, come noto, né sulla necessaria e inderogabile virata ecologica. Il Pd renziano sembra avere come obiettivo la rimozione delle visioni e dei valori della sinistra e del movimento operaio (e dunque agli elettori da essa rappresentati e difesi, a cominciare dai meno abbienti). Partiti, movimenti e liste che si collocano a sinistra del Pd sembrano in stato confusionale, faticano a comunicare con la vasta platea che da loro attende da anni qualche parola convincente, una mossa intelligente, un’azione politica che vada oltre una lista elettorale per riportare in Parlamento una serie di personaggi già ben navigati (fra l’altro dilapidando in campagna elettorale l’8% entusiastico dei primi sondaggi fino a uno striminzito e eloquente 3 e briciole per cento nelle urne).
Fatto sta che ci ritroviamo alla vigilia della nascita di un esecutivo per nulla incline a indurre un’accelerazione nel segno della redistribuzione di reddito e ricchezza (la flat tax farebbe l’esatto contrario) e della conversione ecologica del sistema produttivo, della mobilità, della viabilità, dell’agricoltura, dell’energia.
Tutto sembra avviarsi nel solco di una disarmante continuità col passato, con gli indicatori statistici che da anni continuano a peggiorare.
Meriterebbe un approfondimento anche il programma di riforme istituzionali, assai poco confortante per chi avesse a cuore un’idea di federalismo e di riattivazione della democrazia partendo dai territori.
Facilitare il referendum abrogativo e le proposte di legge popolare è quanto concedono i contraenti alla partecipazione popolare rafforzata.
Poi ci propongono un taglio di 600 parlamentari (400 deputati e 200 senatori) senza peraltro contestualmente ipotizzare una riduzione e un trasferimento verso la periferia di poteri oggi afferenti a Roma: il risultato netto, dunque, dunque, sarebbe un indebolimento della rappresentanza, specie se l’operazione avvenisse senza introdurre meccanismi perequativi a favore dei territori meno popolosi della penisola (come le aree montane).
Inoltre, Lega e M5S scrivono che intendono rilanciare il ruolo delle attuali Regioni ordinarie, favorendo l’accesso a maggiori competenze come previsto dall’articolo 116 della Costituzione. Nessuna discussione, dunque, sul disegno federalista, sul senso delle attuali Regioni e sulla loro aderenza alle reali esigenze territoriali. In molti casi, infatti, la Regione è un’entità abnorme, centralista, metropolitana, distante e magari pure dispotica nei riguardi di territori remoti e distinti che aspirano invano a una loro forma di autonomia (in proposito eclatante, esemplare e negletto dal legislatore il caso – ben noto a chi scrive – della provincia alpina di Belluno, in crisi socieconomica e colpita da uno spopolamento crescente mentre le vicine realtà a Statuto speciale di Trento e Bolzano presentano indicatori positivi).
Tante parole ma pochi fatti, dunque, prima e dopo questo passaggio politico che tuttavia è a suo modo storico, se non altro perché affida il governo a un movimento nuovo e imprevedibile.
L’ultima volta accadde con l’avvento di Berlusconi e sappiamo com’è andata a finire. Anche all’epoca nel Palazzo entrava la Lega.
Speriamo che stavolta, il governo ci sorprenda e ci smentisca.