In vista del voto popolare sulla riforma costituzionale appare fondamentale sgombrare il campo da un rischio di mistificazione che potrebbe rivelarsi molto serio. Si tratta dell’operazione orchestrata da quelli che «il combinato disposto», cioè da larga parte della cosiddetta minoranza Pd.
Quelli che la riforma costituzionale è pessima, introduce un grave squilibrio di potere a favore dell’esecutivo, fra l’altro sottrae sovranità popolare creando un Senato/dopolavoro e spogliando di potere i territori (via le Province, via molte competenze importanti delle Regioni).
Una riforma pessima che tuttavia, sempre secondo quelli del combinato disposto, diventerebbe una pagina bellissima della storia repubblicana cui riservare dunque un caloroso sì referendario, se soltanto il governo Renzi si decidesse finalmente a introdurre delle modifiche.
Modifiche alla riforna Boschi (alias presidente Napolitano)? Ma no! Impossibile ormai, dopo tutte le forzature parlamentari per farla passare con maggioranze risicate, sotto il ricatto della tenuta del governo e di una legislatura peraltro delegittimata dalla sentenza della Consulta sull’incompatibilità costituzionale della legge elettorale. La legge simpaticamente nota come Porcellum, quella che ha portato in Parlamento i nostri improvvisati costituenti (i quali fra l’altro di queste loro manie di grandezza si erano scordati di avvisare i cittadini nei programmi elettorali).
Già, la legge elettorale. È proprio qui che si rischia di giocare la grande mistificazione delle modifiche.
Dopo il Porcellum verrà l’Italicum, che peraltro è a sua volta sospettato di mortificare la rappresentanza democratica anche (ma non solo) per il reiterato premio di maggioranza (sul tema la Consulta si esprimerà in ottobre).
Ecco, a leggere gli interventi di una vasta schiera di rappresentanti del popolo italiano, il problema della pessima riforma costituzionale risiede altrove: nella nuova legge elettorale. Basterà ritoccare quest’ultima per riequilibrare i poteri del premier e poi chissenefrega della riforma della Carta fondamentale della Repubblica.
E quali sarebbero questi fantastici ritocchi di una legge ordinaria capaci di ripulire la Costituzione futura dalle varie amenità previste dalla (contro)riforma? Sostanzialmente tutto potrebbe ridursi a un semplice dietrofront sul premio di maggioranza: Renzi, in versione pettoruta post 40,8% alle europee 2014, lo volle alla lista, era il sogno del Pd asso pigliatutto, la vocazione maggioritaria, la fine dei compromessi con i partitini che si ostinano a fare la sinistra, quei poveracci straccioni che pensano ancora ai ricchi sempre più ricchi e ai poveri diseredati.
Poi, però, è stato via via sempre più chiaro ai cittadini quanto sia in grado realmente di brillare di luce propria la stella dell’ex sindaco fiorentino catapultato a palazzo Chigi senza passare dal voto e dal programma elettorale.
È cominciata una fase di declino culminata con il flop alle amministrative e segnata – fra uno spot populista renziano e l’altro – da una linea di condotta politica di stampo conservatore, scandita da provvedimenti incompatibili con chi intendesse richiamarsi al patrimonio ideale dei movimenti di emancipazione popolare: leggi che peggiorano le condizioni dei lavoratori, che favoriscono gli interessi economici consolidati a danno delle realtà innovative, che perpetuano la ricetta esiziale dello sviluppo cementista sacrificando l’ambiente, che adottano le fallimentari ricette economiche neoclassiche della massima deregolamentazione mercantile, al punto che sulla gestione dell’acqua – per esempio – sembra non bastare la chiara manifestazione di volontà espressa in un referendum.
Coerentemente con questa linea politica dal profilo neoliberale, il governo ha blindato una riforma costituzionale che a sua volta risponde a esigenze revansciste rispetto a una serie di orientamenti di fondo della Carta medesima.
Va da sé che non si toccano direttamente i principî fondamentali, tuttavia essi possono essere indeboliti e intaccati notevolmente anche agendo sull’architettura della distribuzione e della gestione del potere.
Quando si cancellano con un colpo di spugna intere articolazioni di rappresentanza e di presidio democratico sostituendole col nulla o con organismi opachi (come il Senato dopolavoro), si attenta sostanzialmente alla sovranità popolare. A proposito, davvero complimenti ai fanatici della cancellazione tout-court delle Province, fra i quali si annoverano partiti di opposizione che oggi si tracciano le vesti contro la riforma elettorale.
Comunque la si voglia vedere, se vincesse il sì al referendum il nostro modello democratico rappresentativo, già in crisi, vedrebbe accrescere pesantemente il peso specifico degli eletti – specie nel Parlamento e specie dei fiduciari del governante di turno – a scapito degli elettori: si alimenterebbe cioè il processo esiziale che sta allontanando le persone dalla politica e che rischia di trasformare in misura crescente un sistema decisionale collettivo in una oligarchia o nel caos generale e denso di insidie.
Ora, dunque, a sentire una parte della ex sinistra di governo, basta modificare il meccanismo del premio di maggioranza in una legge elettorale per rendere accettabile la pessima riforma costituzionale.
E guarda caso si propone al capo del governo di tornare al premio alla coalizione, una banalità, vista la facilità con cui i cinquestelle hanno trionfato ai ballottaggi a Roma e a Torino e le difficoltà che oggi il Pd incontra a raggiungere il 30%, altro che il 40% delle europee (che poi guarda caso è diventato anche la soglia per far stravincere al primo turno la lista più votata).
Con una semplice modifica all’Italicum, invece, i democratici insieme ad altri potrebbero arrivare al 40%, l’M5S sarebbe quasi fuori dai giochi e soprattutto – sempre secondo l’originale logica degli eredi di Berlinguer – la riforma costituzionale sarebbe salva e dunque la voterebbero di nuovo nel referenudum come hanno già fatto in aula per questa e altre simpatiche iniziative del governo Renzi.
È curioso poi che la segreteria renziana risponda per ora con frasi di circostanza all’invito (a nozze…) a modificare la legge elettorale, malgrado sia evidente che il Pd ne trarrebbe un enorme vantaggio: i soliti tatticismi, vien fatto di scommettere che sotto l’ombrellone questa gelida manina si farà teneramente calda. E che nel Pd tutto potrebbe finire a tarallucci e vino, con la riforma costituzionale che all’improvviso diventerà la più bella del mondo.
Ora, considerato che tutto questo ci sembre davvero il mondo alla rovescia, il modesto suggerimento di chi scrive è a valutare in sé la modifica costituzionale proposta dal governo: non c’è legge elettorale che tenga, qui si tratta di fermare un ulteriore accentrametno di potere, che probabilmente deriva da un riflesso condizionato e dall’istinto di sopravvivenza di classi dirigenti scarse, subalterne alle oligarchie economiche e incapaci di costruire ipotesi di nuovi modelli democratici, inclusivi e efficaci per il «bene comune».
Costoro amano definire efficiente il loro modello, per esempio in riferimento all’ingiustamente vituperato bicameralismo che non è la causa di tutti i mali, anzi…
Può darsi che il neocentralismo romano sia efficiente, d’altra parte anche i modelli più verticistici e autoritari lo sono. Ma non sarebbe efficace rispetto al mandato supremo che è dare attuazione ai principî fondamentali della Repubblica.
Mortificare la partecipazione popolare diretta e atrofizzare le articolazioni del potere locale è un esercizio che contraddice quei principî. Qualcuno potrebbe definirlo autoritario, di certo è una prospettiva propriamente di destra. Di sinistra, oggi, sarebbe ripensare radicalmente il ruolo ormai debordante di un potere esecutivo che si fa legislativo, mortifica la rappresentanza popolare e abusa del mandato elettorale (di questo la minoranza dem dovrebbe preoccuparsi seriamente e non solo in relazione a una effimera legge elettorale…).
Bocciare la riforma costituzionale, inoltre, assume anche il senso di riportare al centro del discorso pubblico le questioni pressanti delle diseguaglianze sociali, il nodo centrale dei fallimenti del modello economico neoliberista cui invece i governi continuano a ispirarsi.
E magari, giusto per creare un diversivo, questi stessi governi aprono le improbabili e mal riposte stagioni delle riforme costituzionali. Per poi trovare la sponda dei soliti mass media nazionali e stranieri pronti ad «avvisare» gli italiani sui gravi rischi di instabilità che comporterebbe un successo dei no al referendum. Non propriamente un bel vedere.