Una serie di riflessioni mi inducono a rifiutare le numerose trasformazioni della Costituzione proposte dall’attuale (risicata) maggioranza di governo. In sintesi.
- Innanzitutto, sono convinto che la legge fondamentale che determina le modalità della convivenza civile non può essere modificata da una maggioranza raccogliticcia, scritta dal governo e votata da un Parlamento eletto con una legge incostituzionale. Voluta da partiti che sostanzialmente non avevano vinto le elezioni.
- Il patto sociale, le regole del gioco vanno definite e eventualmente modificate (con cautela) attraverso un processo complesso di costruzione di una diffusa condivisione sociale.
- Un’eventuale trasformazione dell’ordinamento della Repubblica deve essere coerente con i principi fondamentali elencati in particolare nei primi dodici articoli della Costituzione e deve tenderle a consolidarne o a espanderne la concreta applicazione. La riforma Boschi-Renzi, al contrario, li riduce e comprime gravemente lo stesso diritto di voto con la creazione di un Senato confuso e non eletto dai cittadini (malgrado le bufale elettorali che promettono il contrario) e con la cancellazione definitiva delle Province (già declassate tramite una legge ordinaria di dubbia costituzionalità, mentre andrebbero valorizzate come presidio democratico prezioso).
- Si tratta di uno scenario che impoverisce la dinamica democratica diminuendo la pluralità di ambiti decisionali e di voci/poteri in campo come garanzia contro un’eccessiva concentrazione nelle mani, per esempio dell’esecutivo centrale. Il principio della separazione dei poteri subisce un altro colpo, in uno scenario già segnato dalla preponderanza del governo e dalla mortificazione del Parlamento.
- Anziché ripensare le articolazioni del potere avvicinandosi ai cittadini e alle comunità catalizzando la partecipazione (per esempio abolendo le regioni e attribuendo responsabilità alle province o a simili territori omogenei), si accentrano le facoltà decisionali a Roma, nel nome della rapidità e semplicità dei processi legislativi. Ma le decisioni – specie se importanti – andrebbero con calma, evitando le banalizzazioni e privilegiando l’approfondimento: per evitare di produrre cambiamenti frettolosi e negativi.
- Si produce uno scenario istituzionale utile a una cristallizzazione dello status quo sociale che vede molto potere (anche finanziario) nelle mani di pochi mentre la grande massa dei cittadini è impotente di fronte a processi economici penalizzanti (non è un caso se i principali snodi degli interessi consolidati e dominanti sono caldamente a favore della riforma).
- Un successo dei sì ci darebbe una Costituzione nella quale larga parte del Paese faticherebbe a riconoscersi, dunque spaccherebbe l’Italia e incoraggerebbe il qualunquismo nei riguardi della vita collettiva e delle sue istituzioni Salvo, di questo passo, tirare troppo la corda e generare sconvenienti e imprevedibili reazioni sociali di contrapposizione all’autorità.
Ma passiamo all’analisi del quadro generale in cui si inserisce questa iniziativa politica, cercando di metterne a fuoco le possibili motivazioni, origini e effetti.
Vedremo poi anche un paio di questioni specifiche di primaria rilevanza: la riscrittura del processo legislativo centrale e i rapporti di potere fra lo Stato e le comunità locali cui aspira questa riforma che considero fondamentalmente reazionaria.
La riforma della Costituzionale italiana è stata imposta nell’agenda politica di questa legislatura senza che vi fosse alcuna richiesta da parte dell’elettorato, che probabilmente si aspettava che i rappresentanti del popolo sovrano dedicassero le loro energia a introdurre correttivi seri anti-crisi e a rianimare le relazioni democratiche nell’epoca dell’anticasta.
Gli sforzi delle cosiddette classi dirigenti dovrebbero orientarsi, piuttosto, al varo di misure radicali per contrastare il declino delle condizioni esistenziali di troppi cittadini fra precarietà lavorativa, sanitaria, abitativa, scolastica.
In questa prospettiva, l’idea di agitare come una necessità le modifiche alla Carta fondamentale e come un’apocalisse la loro eventuale bocciatura, assume le caratteristiche di un diversivo demagogico, un tentativo operato da pessime classi dirigenti per confondere e distrarre l’elettorato, al fine di perpetuare gli attuali equilibri di potere; cioè di conservare una condizione di controllo.
L’intera operazione ha il profilo dell’ennesima manovra dilatoria: si intende fossilizzare la realtà dei fatti evitando (se non per volontà per impotenza) di occuparsi del nucleo del problema, cioè la diseguale distribuzione di potere e quindi di redditi, ricchezza e salute nella società.
Vien fatto di chiedersi se questa precisa riforma costituzionale non abbia in realtà l’intento di mascherare l’assenza di una politica capace di affrontare e risolvere la fibrillazione sociale causata dalle ricette economiche ultra decennali adottate più o meno similmente da governi di centrodestra e di centrosinistra.
Con richiami ingannevoli sulla necessità salvifica della “governabilità”, si intende in sostanza fornire pieni poteri costituzionali ai nuovi interpreti delle medesime ricette economiche socialmente devastanti fin qui applicate.
A quanto pare, chi ha causato i danni non ha alcuna intenzione di arrendersi.
Si tratta di uno scenario coerente con la dinamica reazionaria che fin dagli anni Ottanta veicola la risposta – a tratti violenta – dei centri di potere consolidato contro le conquiste “eccessive”, in termini redistributivi, ottenute da vasti strati di popolazione, grazie alla traduzione legislativa delle lotte del movimento operaio.
Sono segni caratteristici di questa dinamica, da un lato la deregolamentazione e la privatizzazione economica, dall’altro la riduzione degli spazi di partecipazione democratica diretta e la cosiddetta “personalizzazione” della politica attorno a figure simboliche che si sostituiscono alle ideologie e diventano semplici facilitatori della corsa senza freni delle imprese di mercato.
Una corsa che senza briglie produce solo marginalmente vantaggi per tutti i cittadini, mentre enormi sono i danni generati in termini di diseguaglianze economiche (si allarga la forbice di reddito e ricchezza) che producono differenze anche nella qualità (condizioni esistenziali, malattie) e durata della vita.
Tutto fotografato dalle rilevazioni statistiche: in questi decenni il 90% della popolazione ha vissuto un progressivo arretramento; un rimanente 10% ha continuato a stare sempre meglio accumulando ricchezza. E la mobilità sociale, l’osmosi fra i due gruppi, è minima.
Una responsabilità particolare, in politica, hanno avuto forze che in ambito riformista si richiamano per l’appunto alla storia del movimento operaio: i partiti socialdemocratici che si sono appiattiti su politiche economiche liberiste, consentendo che la stessa Unione europea orientasse verso questa ideologia la sua disciplina di convivenza.
Non sorprende che diversi leader di governo europei “socialdemocratici” sono stati assoldati come consulenti o lobbisti da grandi corporation, una volta conclusi i mandati politici nei quali hanno aggravato le diseguaglianze.
I risultati di questa evoluzione sono deprimenti. Istituzioni politiche catalizzatori acritici della volontà delle macro imprese di mercato.
Cittadini spogliati di potere reale sulla definizione della rotta del sistema economico e sociale, al massimo illusi di poter determinare il cambiamento in veste di consumatori.
Meriterebbe un’analisi separata la parabola della sinistra di governo. Il suo atteggiamento remissivo e connivente verso i “potenti” l’ha resa corresponsabile dell’appeal crescente ottenuto dal volgare populismo di destra nei riguardi di ampie fasce sociali tradizionalmente rappresentate dalla (fu) sinistra.
Si è lasciato dunque spazio a un’offerta politica reazionaria, demagogica e elitaria che tuttavia riesce, con le sue semplificazioni, a spacciarsi fraudolentemente per risposta favorevole ai più deboli.
In realtà questo populismo di destra utilizza strumentalmente anche analisi corrette – ma abbandonate dalla sinistra di governo – per piazzare sul mercato del consenso slogan appetibili che si traducono in provvedimenti in realtà ininfluenti o peggiorativi sui meccanismi che determinano gli equilibri economici diseguali e regressivi.
È un populismo coerente con decenni di pensiero unico di destra; demonizzazione del collettivo e celebrazione del privato; espropriazione della partecipazione democratica sostanziale e delega forte al governo.
Un personale politico che prima si voleva professionalizzato e ora può assumere i connotati di qualche miliardario più o meno eccentrico.
Ma la linea ideologica non cambia. E la democrazia esclusiva cresce, con godimento di reazionari e conservatori.
A subire una metamorfosi è piuttosto la sinistra di governo: anziché rinnovarsi senza rinunciare ai principi di fondo, si è lasciata sedurre dal neoliberismo che genera diseguaglianze fra le persone e devastazioni ambientali sistematiche perché intrinseche allo schema ideologico. Pure qualkche guerra.
Oggi si tratta di impegnarsi per ricostruire un forte disegno riformatore coerente con l’impianto di quei valori di sinistra che sono universali e per i quali negli ultimi due secoli si è sacrificata larga parte dell’umanità in cerca di emancipazione.
La “quarta” rivoluzione industriale richiede non banalizzazioni ma sforzi di rielaborazione creativa e di sintesi politica delle enormi energie positive in campo (dalle opportunità tecnologiche alle pratiche ispirate alla condivisione e a forme economiche d’avanguardia, come il copyleft o i gruppi d’acquisto solidale).
Si tratta di incentivare i percorsi umanizzanti e l’accesso alla conoscenza, di favorire la formazione delle idee, la partecipazione di tutti nella determinazione delle leggi cui tutti sono chiamati a attenersi puntando al benessere diffuso per la generalità degli esseri viventi (umani e non).
Si tratta di coltivare a tutti i livelli una cittadinanza matura e consapevole: prezioso e ben speso è il tempo dedicato alla costruzione di una democrazia profonda e diffusa, non gerarchica e non fondata sulle deleghe in bianco che piacciono a quelli del governo forte e del bicameralismo palla al piede (poi sulle Camere si può discutere, ma su premesse diverse).
Ecco, la riforma costituzionale Renzi-Boschi, e prima ancora altre leggi adottate in Italia, rappresentano un tentativo di accelerare nella direzione opposta, verso l’omologazione al sistema di dominio liberista.
L’individuo e i gruppi sociali restano ingabbiati nella complessità deregolamentata del mercato e dei suoi centri di controllo sulla vita umana. Centri di potere economico ormai svincolati dalle interferenze politiche, cioè democratiche; anzi, sempre più in grado di influenzarle direttamente tramite lobbismo sfrenato, ricatti occupazionali e altri strumenti opachi.
La riforma costituzionale, in quest’ottica, è un’inutile forma di distrazione dell’opinione pubblica e un consistente tassello di questa fossilizzazione regressiva che espropria il cittadino e le comunità locali di larga parte del diritto di essere protagonisti del proprio destino, di poter veramente contribuire a determinare le leggi e a orientare il patto di convivenza civile cui tutti devono attenersi, imprese di mercato comprese.
La riforma costituzionale va fermata innanzitutto per questa ragione: per restituire centralità al popolo sovrano e costringere la politica a ricostruire una proposta forte in grado di governare un presente pregno di criticità, fallimenti e incognite, sia su scala nazionale sia globale.
Il terreno su cui (ri)costruire politiche di eguaglianza, giustizie e libertà è sempre più scivoloso, ma le condizioni climatiche ostili non ci possono indurre a sventolare bandiera bianche consegnando il potere di tutti nelle mani di pochi.
Se siamo giunti a questo punto, complice la resa dei grandi partiti socialdemocratici, è per responsabilità primaria del fanatismo religioso liberista. E oggi i suoi sacerdoti, sulle ceneri dei tragici fallimenti sociali in Occidente, vorrebbero addirittura farci credere che la crisi e la riduzione in semi schiavitù dei lavoratori/disoccupati sarebbe il prezzo da pagare per la liberazione (e omologazione) di una piccola parte delle popolazioni dei Paesi poveri.
Un discorso subdolo per giustificare le diseguaglianze crescenti e la precarietà dilagante: un’equazione (meno diritti in Occidente uguale più diritti in Cina o in India) perversa e necessaria per continuare a distogliere l’attenzione dal nucleo della faccenda economica, cioè la concentrazione di ricchezza e di potere nelle mani di pochi.
Se le sinistre di governo vent’anni fa avessero dialogato con i movimenti antiglobalisti invece di flirtare con le corporation, oggi probabilmente sarebbe un po’ meno complicato riordinare le idee, sgomberare il campo dalle mistificazioni politiche o accademiche, elaborare visioni traducibili in riforme legislative progressiste, capaci di orientare anche la nascente sharing economy verso modelli di benessere diffuso, non di precarietà sistemica.
Non dovrebbe sfuggire, per esempio, che 15-20 anni fa la proposta politica cosiddetta no global contemplava fra l’altro correttivi di governo economico che molto probabilmente ci avrebbero evitato la esiziale finanziarizzazione speculativa e la crisi del 2008 con i suoi tragici effetti sociali.
Questa breve analisi, lungi dalla pretesa di essere esaustiva, costituisce per chi scrive la premessa di una bocciatura della riforma Renzi-Boschi, ritenuta incompatibile con una visione e una prassi politica coerente con i processi di emancipazione sociale che negli ultimi decenni sono stati umiliati nelle istituzioni rappresentative.
Ecco, dunque, un breve cenno alla inadeguatezza del metodo e di alcuni dei punti principali di merito, che avrebbero un effetto tossico su una dinamica democratica già sofferente.
IL METODO
Il governo Renzi, subentrato nel 2014 per ragioni opache all’esecutivo Letta, ha ritenuto di imprimere un’accelerazione sulla riforma costituzionale facendone una priorità, quasi un’ossessione, forte di un patto con Berlusconi.
Venute meno per motivi opachi le larghe intese del patto del Nazareno (l’elezione di Mattarella sembra più che altro un pretesto che cela un’operazione politica), si è ritenuto ugualmente di insistere nella pesante modifica della Carta.
Una modifica osteggiata radicalmente, fra l’altro, dalla forza politica che (piaccia o no) ha rappresentato il segnale più forte inviato dai cittadini alle istituzioni nel voto del 2013: il movimento Cinque stelle, con il 25% dei suffragi.
Con notevole sicumera i partiti di governo, Pd in testa, hanno ritenuto di ignorare questo dato di elevata valenza democratica. Peggio, lo hanno platealmente denigrato mettendo mano alla Costituzione senza la condivisione di questo 25% di rappresentanti eletti. Un fatto grave.
In un contesto parlamentare simile, venuto meno anche l’appoggio del centrodestra berlusconiano, un governo saggio avrebbe preso atto che la riforma era diventata un elemento di profonda spaccatura e che avrebbe poi trasferito questa tensione anche nella società, così male rappresentata nelle istituzioni (e si potrebbe fare ancora peggio, se passasse il sì…).
Un governo saggio avrebbe scelto di ritirare la riforma e di occuparsi delle numerose altre questioni da cui dipende la qualità della vita delle persone.
Un governo e un Parlamento di maggiore caratura avrebbero, peraltro, evitato anche solo di ipotizzare una modifica della Carta: gli eletti grazie a una legge incostituzionale – il cosiddetto Porcellum – si trovano in una condizione eticamente precaria rispetto alla rappresentanza democratica e bene farebbero a limitarsi alla legislazione ordinaria consentendo ai cittadini di tornare al più presto alle urne.
Al contrario, il presidente del consiglio, incoraggiato con zelo dall’ex inquilino del Quirinale e fiancheggiato da vari cronisti embedded, ha scientemente sorvolato su tutto ciò, quasi fossero quisquilie avere un governo che attua un programma non esplicitato chiaramente nel momento elettorale, un premier scelto con le primarie di un partito, un Parlamento eletto con una legge cestinata perché illegale.
C’è chi sostiene che sarebbe stato un eccesso di ottimismo attendersi che Matteo Renzi mostrasse una tale sensibilità e lungimiranza.
Negli ultimi due anni e mezzo, in effetti, abbiamo visto all’opera un politico cresciuto nelle stanze e nei giochi di potere, amante delle frasi e delle leggi/bonus a effetto (breve), insofferente verso le intermediazioni sociali e altre dinamiche che, però, sono semplicemente articolazioni di una forma di democrazia matura, inclusiva e ragionata.
Se, per esempio, la Consulta boccia per incostituzionalità qualche articolo della riforma della pubblica amministrazione, va apostrofata come “burocrazia”. I custodi della legittimità, del nostro patto sociale, come burocrati che ostacolano chi vuole “fare” (male).
Come e più dei tempi d’oro di Silvio Berlusconi, assistiamo quotidianamente e spesso a reti unificate agli spot di palazzo Chigi. Ma rispetto ad allora forse siamo rimasti in pochi (almeno a sinistra) a gridare allo scandalo.
Si rincorrono metafore calcistiche o performance degne di fortunate televendite per persuadere il “popolo” (cioè raggranellare voti e “vincere la partita”).
Ma dietro le quinte si intravede un solido bagaglio di cinismo machiavellico nella gestione del Palazzo, fra ossessioni da cerchio magico e intolleranza per il dissenso interno.
Si potrebbe parlare, forse, di una forma di populismo sorridente e blaterato, che ama confondersi con la folla dei selfie ma che in realtà interpreta plasticamente la distanza drammatica fra rappresentati e rappresentanti.
Un agire settario, con il tentativo di distinguere il popolo “buono” (quello che accetta il cambiamento proposto dal Palazzo e gradito a Confindustria) e il resto, quelli che stanno fuori dal recinto e remano contro, i gufi, i vecchi, i professoroni. Ma il popolo è uno e sovrano, composto da una pluralità di differenze: nessuno ne detiene il copyright o il monopolio della rappresentanza politica, men che meno il capo dell’esecutivo.
Il rispetto della pluralità sociale è una precondizione, così come il diritto alla massima conoscenza e partecipazione ai processi decisionali.
A guardare bene, questo affannarsi nel nome di un cambiamento purché sia, sembra accentuare la caratteristica dell’attuale premier come l’alibi perfetto di una classe dirigente mediocre che cerca disperatamente di sopravvivere a se stessa a colpi di mistificazioni – evitando il nocciolo del problema – per ottenere consenso a buon mercato e mal riposto. E così tirare a campare agitando lo scalpo dei “costi della politica”.
E se serve alla sopravvivenza, si può pure riscrivere (male) e stravolgere l’ordinamento della Repubblica.
Si può partorire un oscuro Senato federale mentre ogni parvenza e promessa di federalismo viene tristemente cancellata e offesa (a eccezione delle privilegiate Regioni e Province a statuto speciale, come vedremo fra poco).
Oltretutto, l’esperienza anche recente legittima il dubbio che sia meglio poter contare su due Camere che perfezionano le leggi dello Stato e riequilibrano i poteri, che non eleggerne più direttamente una (dunque slegandola dal rapporto fiduciario col governo) che può inquinare variamente il processo legislativo
Siamo di fronte al leader di una corrente di potere che per ragioni sue, comunque vada a finire, il 5 dicembre ci consegnerà un’Italia spaccata.
QUALCHE OSSERVAZIONE SUL MERITO
Articolo 1. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Questo pilastro della nostra convivenza civile è stato offeso da un Parlamento, non propriamente rappresentativo della volontà del popolo sovrano, perché eletto con metodo incostituzionale.
Un Parlamento che tuttavia si è permesso di modificare la Carta sperando – con il governo Renzi – di ingabbiare l’opinione pubblica in un dibattito asfittico per marciare trionfalmente verso un plebiscito per il Pd neorenziano (in stile europee 2014 e 40,8%).
L’invenzione del Senato non eletto, composto da sindaci e consiglieri regionali, con il conseguente bicameralismo pasticciato è una riduzione degli spazi democratici e dunque del peso specifico del singolo cittadino: si tratta di una trasformazione coerente con l’intento di concentrare il potere in poche mani e teste.
Per i grandi interessi economici è finanziari è più comodo: meglio avere pochi interlocutori affidabili che una moltitudine di cittadini che partecipano a un’architettura di processi democratici la cui sintesi prevedibilmente sarà più favorevole agli interessi dei più che ai profitti di pochi.
Se una cerchia ristretta decide quasi tutto, basterà farsela amica o persuaderla per anteporre nell’attività legislative le esigenze delle corporation bulimiche e di quelle del 10% (i principali capitalisti e i loro addetti degli alti livelli gerarchici) che detiene il 50% della ricchezza nazionale e si adopera affinché questa eccessiva diseguaglianza si cementifichi o auspicabilmente si accentui. D’altra parte, poi si può sempre fare la carità.
A proposito di accesso ai processi decisionali, i fautori della riforma si difendono ricordando che verrebbe introdotto l’istituto del referendum propositivo e d’indirizzo, che il quorum delle consultazioni (ora al 50% più uno degli aventi diritto) si ridurrebbe alla maggioranza dei votanti alle ultime elezioni politiche (ma solo se anziché le 500 mila firme previste oggi ne vengono racccolte 800 mila), che obbliga a prevedere tempi certi per il voto parlamentare sulle leggi d’iniziativa popolare.
In realtà, però, queste ultime subiscono una penalizzazione perché si triplica il numero minimo di firme necessarie per presentarle (oggi è 50 mila, diventerebbero 150 mila).
Quanto alla loro trattazione, non si avrebbe alcuna particolare garanzia, né sui tempi (la cui definizione è lasciata ai regolamenti parlamentari) è sui modi.
Ci sono ottime ragioni per essere scettici anche su questi punti, dunque, specie nel Paese in cui il potere legislativo e quello esecutivo hanno reiteratamente calpestato la volontà espressa dai cittadini nei referendum (clamoroso ma non unico il caso dell’acqua “bene comune”) oppure agito in modo sguaiato per far fallire le consultazioni (vedi il recente caso trivelle, che infastidiva il premier Renzi).
In altre parole, anche gli aggiustamenti cosmetici sugli istituti di democrazia diretta sembrano rientrare nel disegno complessivo di indebolire la partecipazione popolare, con l’aggravante di costituire un edulcorante per imbonire un’opinione pubblica scettica: specchietti per allodole, quasi patetici.
Articolo. 5. La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più’ ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.
I propugnatori della riforma Renzi-Boschi sostengono che non è stata toccata la prima parte della Costituzione, quella che contempla principÎ, diritti e doveri.
Formalmente è vero, ma va onestamente rilevato che le ampie modifiche alla seconda parte, sull’ordinamento della Repubblica, in realtà pregiudicano l’applicazione di principÎ sanciti nella prima.
Nel caso del titolo V, per esempio, sul potere locale, si stravolge al ribasso quasi tutto, a eccezione delle Regioni e Province a statuto speciale che ne escono rafforzate in virtù di uno squallido patto politico necessario al governo Renzi per raggranellare al Senato i voti di sopravvivenza.
Per inciso va osservato che questa vicenda degli accordi fra Roma e le autonomia (specie nei casi delle Province di Trento e Bolzano) ha messo a nudo da un lato l’opportunismo del premier, dall’altro l’egoismo territoriale di chi fino a ieri sosteneva di proporsi come modello per le aree a regime ordinario, ma poi si è reso complice di un’operazione che prosciuga competenze agli enti che non godono del privilegio della specialità, mentre ne riconoscerebbe di nuove a questi ultimi (già più volte aiutati con la legislazione ordinaria di questo governo).
Altro che tendere al federalismo solidale: qui sui poteri locali si fa indietro tutta; salvo per chi viene considerato più uguale degli altri, perché vota sempre a favore del governo centrale.
La nuova Costituzione, dunque, allargherebbe sensibilmente la forbice delle diseguaglianze, fra i sistemi di governo locale. Fino a interrogarci su una sua possibile incompatibilità che i principî stessi della Carta.
Particolarmente grave, in questo contesto, appare la disparità di trattamento fra territori morfologicamente e climaticamente simili, aree problematiche come quelle di montagna (chi scrive ha seguito da cronista, per esempio, decenni di battaglie autonomistiche nella Provincia alpina di Belluno, lotte totalmente inascoltate da quello stesso legislatore romano che ora assicura nuovi poteri alle confinanti Trento e Bolzano).
Il paradosso di questa vicenda è che sia il premier Renzi sia altri membri del governo in queste settimane, replicando alle obiezioni su questo punto, non hanno fatto mistero di questo ricorso obbligato alla realpolitik: se ci fossero stati i numeri in Parlamento, l’impeto centralista avrebbe preso di mira anche gli statuti speciali.
In linea generale le modifiche al Titolo V si connotano per il contenuto involutivo, che cancella norme in piena sintonia con il suddetto Articolo 5 e le sostituisce con disposizioni centraliste e intenti dirigisti.
I territori sono sostanzialmente spogliati sia di competenze di primaria rilevanza sociale (con il trasferimento allo Stato di gran parte di quelle concorrenti) sia di strumenti difensivi nel caso il governo (e il Parlamento che gli è in genere asservito) intendesse imporre le sue scelte ai territori persino su materie spettanti alle sole Regioni.
Si tratta, in quest’ultimo caso, della clausola di supremazia che la riforma Renzi-Boschi assicura al potere centrale: basterà dichiarare un certo progetto o una data opera pubblica di “interesse nazionale” per espropriare le comunità locali della facoltà decisionale.
L’obiettivo sarebbe ridurre il contenzioso giudiziario fra Stato e Regioni, tuttavia va rilevato che anche su questo piano esistono falle enormi, la stessa clausola di supremazia potrà di volta in volta essere impugnata davanti alla Consulta in forza, innanzitutto, delle previsioni dell’articolo 5 sul decentramento.
La vituperata legislazione concorrente è una modalità che consente la ricerca di un equilibrio fra Stato e Regioni, in un sistema imperfetto non per scarso potere centrale ma per il mancato compimento di una maturazione verso un modello federalista.
Appare probabile che la riforma non ridurrà il contenzioso, anzi, lo moltiplicherà sotto nuove vesti, a causa dell’incongruenza di fondo di questa svolta ostile alle autonomie locali: ciò autorizza a ritenere che la questione della litigiosità giudiziaria fra livelli (orribile definizione di un’organizzazione nazionale) dell’ordinamento repubblicano sia soltanto un paravento dietro al quale si cela un preciso bagaglio ideologico. Una filosofia che punta all’accentramento delle decisioni nelle mani dell’esecutivo, alla spoliazione dei poteri decentrati (a partire dal singolo cittadino fino alle varie organizzazioni che ne dovrebbero informare la partecipazione democratica), alla mortificazione del ruolo del Parlamento.
Va da sé che di fronte a questo scenario uno spirito realmente democratico dovrebbe mettere radicalmente in discussione non certo il senso e i poteri delle autonomie locali o delle due Camere, bensì il ruolo e la deriva dell’esecutivo, fino a interrogarsi se esso non vada largamente ridimensionato al ribasso per riattivare la partecipazione e il valore della pluralità.
A maggior ragione in una fase di trasformazioni epocali quale la presente che richiede la massima diffusione della consapevolezza, dei saperi e della presenza attiva delle persone e dei gruppi nella vita collettiva.
In definitiva, nella riforma del Titolo V, così come in altre norme oggetto del referendum, si legge un tentativo della classe dirigente al potere di assicurarsi condizioni per perpetuare se stessa – in una dimensione ulteriormente elitaria – difendendosi dal rischio che una più vasta partecipazione popolare possa stravolgere gli equilibri consolidati.
In proposito vien fatto di osservare che in questi ultimi decenni di arretramento della politica, in Italia sono stati i comitati di cittadini o le associazioni a costituire una rete informale di partecipazione democratica.
Una rete di democrazia praticata che spesso è stata osteggiata dal potere centrale o regionale.
È grazie a questo generoso attivismo se su molti fronti è cresciuto un argine contro processi lesivi della qualità della vita umana (e non). Per esempio la tutela della salute da forme varie di inquinamento industriale oppure la salvaguardia del territorio da nuove cementificazioni selvagge.
Uno degli snodi istituzionali che potrebbe fungere da cerniera con questa voglia di fare democrazia erano le Province, ma i governi Letta e Renzi hanno invece pensato di trasformarle in enti sostanzialmente funzionali asserviti in tutti i sensi ai Comuni e naturalmente non più eletti dai cittadini.
Assistiamo a una forma camuffata di assalto al sistema delle autonomie che indebolirà il tessuto democratico e produrrà quasi certamente maggiori costi finanziari, disfunzioni nei servizi locali e perdite di tutela nei territori svuotati di rappresentanza.
Storicamente, guarda caso, le Province sono state uno strumento essenziale di pianificazione territoriale e di servizio, un tentativo opportuno di sintesi tra la dimensione comunale e quella di area vasta evitando il predominio dei municipi maggiori (che invece avviene oggi con le Città metropolitane).
Contenimento del consumo di suolo, politica della casa, promozione dei trasporti collettivi, tutela del paesaggio e dell’ambiente sono alcuni degli ambiti nei quali le Province hanno rivestito un ruolo rilevante.
Ripensando a un’architettura istituzionale che enfatizzasse la vicinanza alle comunità locali e rianimasse la partecipazione sociale alla cosa pubblica, si poteva partire proprio dalle Province, elaborando modelli di autonomia per investirle di nuove competenze, anche legislative, in un quadro di concertazione fra i territori vicini (anche per ottimizzare economie di scala sul fronte operativo).
La provincia è una dimensione vissuta in genere con appartenenza dai cittadini; le Regioni, invece, sono entità distanti, quasi astratte nella percezione, ma dotate di poteri significativi.
È convinzione di chi scrive che siano le Regioni la dimensione da mettere sul banco degli imputati per valutarne l’estinzione.
Al contrario le Province sono un potenziale catalizzatore della partecipazione democratica e di una gestione della cosa pubblica che risponderebbe meglio alle esigenze specifiche dei singoli territori.
È fondamentale che il potere locale, in coerenza con quanto previsto dalla Costituzione, si articoli secondo le aspirazioni delle comunità, oggi troppo spesso ingabbiate in ambiti regionali del tutto artificiosi, non rispondenti alle esigenze della morfologia (sociale e geografica) e tendenzialmente prevaricatori.
Ciò detto, stante l’attuale scenario è deprecabile il previsto accentramento a Roma di poteri oggi in capo alle Regioni.
Il lettore che desiderasse approfondire questo tema troverà fonti interessanti anche on line, per esempio gli appelli inascoltati che numerosi studiosi (giuristi, urbanisti…) avevano rivolto a governo e parlamento affinché sospendessero la riforma Delrio sulle Province.
Il mio no a una riforma costituzionale che inaridisce la democrazia, mortifica le autonomie locali e spacca l’Italia è un sì a un percorso profondo e partecipato di ripensamento della distribuzione del potere.
Appare coerente con l’idea di emancipazione popolare, un disegno politico radicale che trasferisca potere dal centro alle periferie, alimentando pero una rete eficiente di dialogo e compartecipazione decisionale e operativa fra tutti gli ambiti istituzionali, per cercare risposte più adeguate alle esigenze di cittadini e dei territori e contestualmente per accentuare i processi di conoscenza e di presenza sostanziale dei cittadini.
Un lavoro faticoso, certo, che richiede tempo, sforzo creativo, disponibilità al ragionamento e all’ascolto.
Ma che potrebbe restituirci un Paese più forte, equilibrato e rianimato nelle sue energie sociali.