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Autonomisti contro le autonomie

Sconcerta e rammarica che tre giorni fa anche la pattuglia di senatori eletti in Trentino Alto Adige abbia assicurato il sostegno al disegno di legge governativo 1212 (noto anche come “svuota-Province”) che impone ai territori scelte prese a Roma sull’onda della demagogia e stravolge il sistema delle autonomie in altre Regioni, quelle a Statuto ordinario.

Il provvedimento, fortemente voluto dal premier Matteo Renzi, che ne ha affidato le sorti all’ex ministro e oggi sottosegretario alla presidenza Graziano Delrio, in sostanza declassa le 107 Province ordinarie a enti di secondo grado al servizio dei Comuni (eliminandone gli organi eletti direttamente dal popolo), istituisce dieci (per ora) Città metropolitane (che in queste aree ingloberanno anche i territori delle municipalità limitrofe sostanzialmente riproducendo i confini provinciali), aumenta il numero di consiglieri e assessori nei centri minori (secondo vari scaglioni, da sotto i mille e fino a 5 mila abitanti: in definitiva, con le nuove norme avremo circa 31 mila posti in più nei piccoli Comuni, mentre le “tremila poltrone cancellate nelle Province” di cui twitta continuamente il capo del governo, sono in realtà circa 1.800).

Sempre per rimanere nei municipi, la legge approvata a spron battuto in soli due giorni di aula e di tweet, contiene anche due perle in odor di clientelismo quali l’estensione al terzo mandato (prima erano due) per i sindaci nei centri sotto i tremila abitanti e una concessione ai parlamentari: prima non potevano rivestire contemporaneamente anche una carica nei municipi sopra i cinquemila abitanti, ora quel limite sale a ben quindicimila.

Chi ha ascoltato il dibatitto di palazzo Madama (svoltosi in un emiciclo semideserto e quasi sempre senza ministri presenti, tanto meno il “padrone di casa” Graziano Delrio) ha potuto cogliere l’accalorarsi di alcuni senatori fermamente contrari a un provvedimento che giudicano improvvisato, rispondente a logiche fuorvianti da spot elettorale (i puntuali titoli di stampa dopo i tweet sulla “abolizione delle Province”) e socialmente negativo perché genererà seri problemi funzionali in ambiti importanti del servizio ai cittadini; perché impoverisce l’architettura istituzionale di un luogo della democrazia cancellando le elezioni provinciali e sostituendole con decisioni/spartizioni decise a livello municipale dai partiti (una volta si chiamavano “consorterie di notabili” e sappiamo quanto siano efficienti); per molte altre ragioni che vedremo più avanti e che hanno indotto alcuni senatori e altri commentatori a definire questo ddl “un grande pasticcio”.

Il provvedimento è arrivato in aula dopo che il governo aveva bocciato in commissione (dove peraltro è andato due volte sotto nelle votazioni) tutti gli emendamenti che cercavano un riequilibrio o almeno di rispondere a qualche esigenza di territori in difficoltà, come nel caso del tentativo (primo firmatario il senatore bolzanino Francesco Palermo) di restituire l’elezione diretta degli organi alla vicina Provincia dolomitica di Belluno (che aspira all’autonomia e invece perde anche il poco di autogoverno elettivo che aveva: ora se la spartiranno i sindaci, nel tempo libero e secondo i rètori del riformismo choc bisognerebbe anche gioire e ringraziare perché la legge conferma che effettivamente Belluno sta in montagna).

Dato il dubbio profilo di costituzionalità (appena il ddl sarà varato dalla Camera pioverano i ricorsi alla Consulta da parte di Regioni e singoli consiglieri provinciali deposti da Roma), in aula si è votata anche una pregiudiziale in proposito, presentata dall’M5S: non è passata per una manciata di voti.

Fondamentale in questo passaggio, così come nella successiva approvazione di un nuovo iter per il ddl, l’apporto della riserva renziana rappresentata da Forza Italia (che ha fatto mancare i voti necessari a far cadere il provvedimento). Ma anche quello degli autonomisti trentini e sudtirolesi che hanno difeso il ddl.

Vista la malaparata, infatti, il governo anziché aprire un supplemento di riflessione sulle pesanti criticità della legge, ha accelerato ponendo la questione di fiducia (il testo blindato in un maxiemendamento i cui precari contorni sono stati illustrati in aula con qualche balbettio di troppo dalla ministra Maria Elena Boschi).

Sullo sfondo di queste tristi manovre parlamentari domina la vulgata che la cura per il sistema Paese sono urgentissime riforme istituzionali: via le Province (dati i rischi procedurali è già pronto anche un ddl costituzionale), via il Senato della Repubblica, via molte competenze regionali (per il premier, quisquilie tipo l’energia devono tornare saldamente a Roma) e via anche molte Regioni (il Pd ha presentato questa settimana la proposta per passare alle “macroregioni”: aiuto…).

Qualcuno osserverà che insistere su queste presunte emergenze è una baggianata, che servono piuttosto visioni profonde e decisioni concrete (oggi totalmente assenti) per ripensare e riattivare il sistema produttivo, le articolazioni del supporto pubblico al mondo delle imprese, la creazione di condizioni favorevoli alle attività economiche compatibili con il rispetto delle persone e dell’ambiente naturale?

Avanza, invece, un piano sul lavoro, misticamente battezzato “Jobs Act”, che prosegue nel soldo ultradecennale della precarietà e del calo delle tutele per i lavoratori (“questo era il progetto di Forza Italia”, ha protestato invano la minoranza Pd durante la surriscaldata direzione di ieri).

Parimenti non pervenute, giusto per tornare nell’alveo istituzionale, anche iniziative del governo per rafforzare la partecipazione democratica, del tipo referendum popolari propositivi/consultivi (non siamo la Svizzera…), garanzie procedurali per le leggi di iniziativa popolare, altre forme di partecipazione attiva dei cittadini alla creazione delle decisioni collettive.

Si procede piuttosto per sottrazione, riducendo gli spazi della rappresentanza e delle dinamiche democratiche e accentuando a furor di sindaci il carattere centralista della distribuzione del potere in Italia: di più a Roma e alle grandi città, sempre meno agli altri territori. È lecito chiedersi se l’intento reale sia fare terra bruciata e togliere di mezzo ostacoli istituzionali all’istantaneo concretarsi di progetti imposti ai territori (dallo Stato centrale o dai suoi selezionatissimi referenti locali).

Ora, fra l’altro, il premier caldeggia anche una #svolta già tanto cara a Silvio Berlusconi (e ad altri prima di lui, dentro e fuori le istituzioni democratiche…): l’attribuzione di maggiori poteri al capo del governo (che peraltro se li prende da anni tramite l’abuso della decretazione d’urgenza e dei voti di fiducia).

Una #svolta che una serie di figure di primo piano del dibatitto pubblico nazionale non esita a definire “autoritaria”, come fanno in un appello diffuso ieri Nadia Urbinati, Gustavo Zagrebelsky, Sandra Bonsanti, Stefano Rodotà e gli altri primi firmatari.

Una #svolta che nei suoi stessi contorni evoca le ragioni che indussero i padri costituenti a prevedere il tanto vituperato bicameralismo paritario: evitare che il Parlamente potesse troppo facilmente stravolgere l’architettura della democrazia e i suoi bilanciamenti del potere. I rischi di fughe verso l’espropriazione della sovranità popolare possono assumere forme le più svariate, come appunto la semplificazione dei processi decisionali restituiti a Roma e alle ramificazioni periferiche del potere centrale.
Guarda caso, oggi abolire il Senato è la priorità delle priorità. Ma se il problema è semplificare, perché anziché ipotizzare di trasformarlo in una ridondante e cosmetica rappresentanza di sindaci e presidenti regionali, non riservare proprio a palazzo Madama un ruolo di garante, per esempio, ogni qualvolta si volesse metter mano alla Carta fondamentale?

Se la questione sono i costi degli eletti, perché semplicemente non ridurli in modo rapido e netto?

Non stupirà, dunque, in questo scenario, se replicando alle argomentate obiezioni di senatori della minoranza su paradossi quali la sospensione per legge del voto nelle Province (fra l’altro commissariate con personale che costa più dei precedenti organi politici) oppure l’imposizione del sindaco metropolitano a cittadini che non l’hanno mai votato, il capogruppo Pd al Senato, Luigi Zanda, ha tuonato contro chi “mitizza il ricorso alle elezioni”. Come dire che dovremmo abituarci a una democrazia in cui noi tutti avremo un limitato diritto di esprimerci? (salvo naturalmente pochi eletti che maramaldeggiano).

È in questa prospettiva, per tornare ai senatori del Trentino Alto Adige, che risulta davvero deludente registrare un solo voto contrario al Ddl Delrio, quello dell’esponente leghista Sergio Divina. Per gli altri (del centrosinistra autonomista: Svp, Pd, Patt) hanno prevalso la tragica disciplina di maggioranza e le logiche del baratto politico sul tavolo separato della trattativa fra il governo Renzi e le due Province a statuto speciale.

Vien fatto di chiedersi quale sia, per il mondo autonomista locale, il limite del compromesso con il nucleo costitutivo del proprio pensiero, se nemmeno di fronte a un impianto legislativo dai molteplici tratti centralisti si trova la forza di dissentire non solo a parole bensì nel voto, che oltretutto l’altra sera, nella pregiudiziale di costituzionalità, sarebbe bastato per mettere una pietra sopra a questo ddl raffazzonato e dai contorni democratici assai opachi.

Una declinazione del mandato elettorale, questa, che fa sorgere qualche dubbio sulla relazione tra la mera difesa di interessi territoriali particulari e le valutazioni di ordine generale sul sistema Paese. Nel caso specifico, poi, non essersi messi in gioco nel nome di principi e valori (come invece hanno fatto in dissenso dal gruppo un eletto all’estero e un paio di senatori dei popolari per l’Italia) potrebbe rivelarsi un boomerang, perché così gli autonomisti trentini e bolzanini supportano disegni neocentralisti che un giorno, ineluttabilmente, colpiranno anche qui, malgrado le temporaneee illusioni, costringendo a battaglie difensive e probabilmente prive del sostegno dell’opinione pubblica nazionale. Insomma, si è persa una grande occasione di difendere concretamente i principi del federalismo e di dare un segnale forte a chi li corrode. Un’occasione di difendere le prospettive dell’autonomismo.

Interessante, infine, osservare che proprio un deputato eletto in Trentino Alto Adige, Gianclaudio Bressa, è stato investito del ruolo di grande promoter di questa controriforma delle Province ordinarie, prima come relatore di maggioranza a Montecitorio (in dicembre, c’era ancora il governo Letta) e poi come sottosegretario di Stato agli affari regionali (ora, con il governo Renzi, che naturalmente si è costituito a sua volta senza un passaggio elettorale).

Mentre celebra urbi et orbi il blocco del voto nelle povere Province ordinarie e le meraviglie delle futuribili e scintillanti Città metropolitane, su un tavolo parallelo il medesimo Bressa, così come i parlamentari della sua Regione, tratta col governo le garanzie per le autonomie speciali nell’ambito dell’annunciata riforma del Titolo V della Costituzione.

Questione di stile. E non solo.

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