Zenone Sovilla
Oggi ascoltavo alla radio norvegese l’intervista al presidente dell’associazione locale Syklistenes Landsforening, omologa dei nostri Amici della bicicletta.
Tema del colloquio (anche se qualche lettore non ci crederà): la ciclabilità urbana invernale nelle città norvegesi.
Morten I Kerr, questo il suo nome, ha spiegato che non c’è nessun problema a inforcare la due ruote tutti i mesi dell’anno, basta attrezzarsi: “Lasciamola in garage solo quando c’è una tormenta di neve e quel giorno tiriamo fuori gli sci…”.
Negli ultimi quindici anni il Paese nordico ha registrato un forte incremento dell’utilizzo della biciclette, non solo nel tempo libero ma anche negli spostamenti quotidiani casa-lavoro, scuola, shopping…
Il tutto grazie a significativi investimenti in percorsi protetti e in campagne di promozione dell’uso della bicicletta (anche abbinata ai mezzi collettivi) a scapito dell’automobile.
E pure l’uso quotidiano invernale è cresciuto: “Una quindicina d’anni fa – ricorda l’esponente dei ciclisti organizzati – facevo una fatica incredibile a trovare a Oslo un paio di pneumatici chiodati per la mia mountain bike; oggi li vendono anche al supermarket del bricolage, sono diventati un prodotto comune perché utilizzato da un sacco di gente”.
Seguono i consueti consigli sulla sicurezza e sull’attrezzatura per andare in bicicletta col gelo e col buio (essere ben visibili – “io sembro un albero di Natale…”, scherza – e pure vederci bene usando fari appropriati, vestirsi con cura facendo molta attenzioni a mani e piedi, montare per l’appunto gomme chiodate che assicurano una straordinaria stabilità rendendo il ciclista più sicuro di un pedone e così via).
Insomma, ne esce un quadro piuttosto sconfortante, per noi italiani che nonostante il favore del clima non riusciamo a costruire una rete ciclabile – specie in ambito urbano – degna davvero di questo nome. Nel frattempo siamo sempre più inchiodati dentro le nostre automobili, che (anche in Trentino) proliferano in città come in campagna.
Una conferma arriva dal nuovo rapporto Euromobility: il nostro Paese resta primatista in fatto di diffusione del traffico privato a motore e due italiani su tre utilizzano l’automobile per gli spostamenti quotidiani.
Gli effetii, ovviamente, si misurano anche in termini di morbilità e mortalità umane e di danni all’ambiente naturale.
Interessante anche il richiamo ai costi monetari di questo modello: dalle spese individuali per l’automobile a quelle infrastrutturali, dai costi sanitari a quelli del risanamento ambientale.
Il ritardo pluridecennale dell’italia in questo contesto mette a nudo i limiti e le devianze delle classi dirigenti politica e tecnocratica (compreso l’attuale governo la cui creatività innovativa si ferma alle licenze dei taxi mentre il ministro dell’Ambiente ama celebrare la bellezza degli inceneritori di rifiuti e le potenzialità dell’energia nucleare, mentre per superare l’emergenza smog in zone come la pianura padana, morfologicamente svantaggiata per la scarsità di vento e di pioggia, proponeva di abbassare ad hoc i limiti degli inquinanti: un vero ecorivoluzionario…).
Sembra un aspetto secondario dell’agenda politica che ci si ammali e si muoia (tanto più se si è poveri e si vive in aree particolarmente esposte anche ad altri fattori di rischio epidemiologico); o che in ogni caso sia possibile vivere meglio e in salute modificando profondamente l’attuale assetto della mobilità e dei trasporti.
E tuttavia esiste in Italia una vastità di sensibilità e competenze politiche e scientifiche in grado di costruire un’inversione di tendenza; ma esse sono marginalizzate in un contesto che paga evidentemente anche il ritardo culturale dei grandi centri di concentrazione del potere industriale, finanziario e intellettuale del nostro Paese.
Il che spiega probabilmente anche il conformismo che caratterizza largamente il profilo dell’attuale governo.
Il momento storico richiede il coraggio di elaborazioni politiche innovative, uno strappo anche con la retorica del liberismo, utilizzata in quantità industriale in questi giorni sui media italiani colpiti da amnesie collettive sui fallimenti del modello sociale affidato prevalentemente alle virtù del libero mercato, delle logiche del profitto e della massima concorrrenza (che fra l’altro produce effetti collaterali noti eppure sottaciuti, come una diffusa precarietà delle persone/lavoratori/consumatori).
L’idea che siano necessari nuovi strumenti di governo – magari mutuando alcune fruttose esperienze straniere di profilo socialdemocratico – capaci di orientare anche le attività economiche verso un orizzonte meno distante dagli interessi generali e dal “bene comune” sembra non sfiorare le classi dirigenti prigioniere di dogmatismi pseudoliberali ancorati al secolo passato che finiscono semplicemente col perpetuare la legge del più forte (altro che politche redistributive serie…).
Urge un progetto nazionale che tenda a una conversione progressiva per minimizzare i costi sociali gravissimi provocati da industrie e traffico a motore (in alcune aree soprattutto quello pesante che ha un impatto ambientale enorme); costi in genere non contabilizzati e dunque in larga parte non addebitati puntualmente a chi li provoca.
In questa prospettiva, l’emergenza mobilità va affrontata con un piano specifico serio, attrezzando finalmente l’Italia con infrastrutture ciclabili urbane funzionali (non le strisce di rosso dipinte sull’asfalto che spesso finiscono contro un muro all’angolo di una trafficatissima rotatoria, dopo uno slalom fra auto parcheggiate in ogni spazio disponibile) da integrare con un sistema di trasporto collettivo da ripensare secondo le nuove esigenze dei cittadini (per decenni, per esempio, abbiamo assistito all’espulsione demografica dalle grandi città senza che vi rispondesse un’adeguata riforma dei servizi di trasporto pubblico né di altro genere, col risultato di alimentare un intenso pendolarismo quotidiano in automobile).
Idem dicasi per il trasporto merci; i Tir, per esempio, sono sovrautilizzati come magazzini viaggianti per risparmiare sulle giacenze mentre le ferrovie merci restano largamente sottoutilizzate (altro che Tav miliardaria, vediamo intanto di usare meglio e di migliorare la rete esistente).
Questo ritardo nazionale (anche di visioni) si misura peraltro su diversi scenari, comprese – giusto per menzionarne due ovvi – le energie rinnovabili o l’auto elettrica: chissà se un giorno ll’Italia potrà finalmente affidarsi alle compentenze che la nostra società ha in grembo ma che lascia soffocare sotto l’intreccio di interessi di potere da cui emerge il personale che purtroppo conosciamo fin troppo bene.
Nel frattempo, l’energia solare, l’auto elettrica e la bicicletta in città interessano di più ai norvegesi.
Che sono seduti su un enorme barile di petrolio.