di Nando Sigona
Privatizzare la povertà. George Monbiot fa lo scrittore, l’editorialista del quotidiano The Guardian e l’attivista. È l’autore di un best seller della editoria new/no global, “L’era del consenso. Manifesto per un nuovo ordine mondiale”, libro che ha fatto molto discutere Al Forum Sociale di Londra dello scorso ottobre è stata una delle star, con pubblico in piedi ad ascoltarlo e applausi scroscianti. Anche oggi la sala è piena. Dal pubblico iniziano ad applaudire prima ancora che inizi a parlare. L’incontro ha come tema la lotta globale alla povertà e le strategie di aiuto umanitario adoperate dai principali donors internazionali, in particolare dal governo britannico.
«Strategie che – dice Monbiot – si possono riassumere nella parola d’ordine degli ultimi anni: condizionalità, che significa: ti do gli aiuti solo se tu fai quello che ti dico di fare». E quello che il più delle volte si chiede di fare è adottare un’agenda neoliberista, aprire il proprio mercato ai prodotti e alle aziende straniere (preferibilmente a quelle del paese donatore), ridurre al minimo il ruolo dello stato nell’economia e mettere in vendita risorse strategiche e vitali come, ad esempio, l’acqua.
La cosa non deve sorprendere. Come riporta, con disarmante chiarezza, un sito del governo americano, «il principale beneficiario dei programmi americani di aiuto all’estero sono sempre stati gli Stati Uniti. Circa l’80% dei progetti e fondi dell’agenzia per lo sviluppo internazionale (USAID) vanno direttamente ad aziende americane”. Che fare? È la domanda che si pongono oggi le organizzazioni non governative e di cooperazione internazionale più critiche e meno dipendenti dai finanziamenti dei governi nazionali. Bisogna, sottolinea un rappresentante del World Development Movement, mettere in discussione l’ideologia stessa degli aiuti allo sviluppo: «a chi aiutano gli aiuti?».
«La privatizzazione dei servizi pubblici ha portato, in molti paesi in via di sviluppo, ad un aumento della povertà. Nonostante le numerose prove dei danni arrecati da queste politiche – dice un ricerca condotta da War on Want – i paesi in via di sviluppo continuano a subire forti pressioni perché mettano in vendita i loro servizi pubblici – spesso questa diventa la condizione perché possano ricevere aiuti allo sviluppo, prestiti e abbuoni sugli interessi dei debiti contratti con le istituzioni finanziarie internazionali e i paesi donatori».
Gli esempi non mancano. Venti milioni di indiani della regione del Andhra Pradesh si sono visti privare delle loro terre come risultato delle politiche di “riforma” e “ristrutturazione” promosse dal governo regionale con il generoso supporto di dipartimento britannico per lo Sviluppo internazionale (DFID). In Zambia, settecentomila sterline sono state spese per combattere la fame e cinquanta milioni per privatizzare le miniere di rame. In Sudafrica, il programma di privatizzazione fortemente voluto dalla Gran Bretagna come condizione per ricevere aiuti finanziari e la parziale decurtazione degli interessi sul debito, ha causato per almeno dieci milioni di persone la perdita dell’acqua corrente e dell’allaccio alla rete elettrica e per due milioni la perdita della casa a causa del mancato pagamento delle bollette.
Il ritorno di Adam Smith. C’è un lato poco conosciuto di queste politiche di aiuto: il ruolo svolto dai grandi studi di consulenza e think tank pagati per elaborare, promuove e realizzare l’ormai dominante agenda neoliberista ed in particolare i programmi di privatizzazione dei servizi pubblici. Si tratta di pochi nomi: PricewaterhouseCoopers, KPMG, Deloitte Touche Tohmatsu, Ernst & Young. Sempre più spesso, infatti, i governi occidentali si avvalgono dei servizi di questi centri di ricerca privati e consulenti per elaborare strategie di “riforma” e “apertura al mercato”, e “consigliare” i governi dei paesi del sud su come condurre la privatizzazione degli assetti di stato. Nel settore specifico della privatizzazione di acqua, elettricità e servizi pubblici va aggiunta anche: l’inglese Adam Smith International. Negli ultimi sei anni, ben trentaquattro milioni di sterline del budget di DFID sono andati a questa agenzia, divisione dell’Adam Smith Institute, un think tank della destra neoliberista e conservatrice con sede a pochi isolati dalla House of Commons a Londra.
L’istituto ha una lunga storia. Negli anni ’80 si è distinto per essere uno dei maggiori ideologi e sostenitori del programma di privatizzazioni del governo conservatore della Thatcher. Il suo direttore, Madsen Pirie, riportano le cronache, si vanta di essere l’inventore della parola privatizzazione. Tra le attività svolte da questo istituto per il governo britannico negli ultimi anni c’è anche la preparazione di strategie mediatiche volte a conquistare il supporto dell’opinione pubblica dei paesi del sud del mondo ai progetti di privatizzazione del governo Blair. Un esempio: DFID ha pagato ottocentomila sterline perché l’istituto assistesse il governo della Tanzania nel suo programma di privatizzazione. Quasi la metà di questa somma è andata a finanziare iniziative volte a conquistare l’opinione pubblica locale ai benefici della privatizzazione, tra queste: un video pop, programmi radio televisivi, una serie di telefilm con celebri attori e commedianti locali, la celebrazione del “privatisation day” in un hotel di lusso di Dar es Salaam.
Bontà pre-elettorale. Prende la parola Mark Curtis, direttore del World Development Movement e autore di due bestseller dell’editoria no global, Web of Deceit e Unpeople. «Dopo duecento anni di intervento diretto britannico in Africa, abbiamo imparato che quando questo governo enfatizza il suo interesse per quel continente, c’è da preoccuparsi». La campagna d’Africa che Blair ha iniziato nelle ultime settimane non è altro che propaganda e non si tratta di un caso isolato. Con le elezioni che si avvicinano, il primo ministro ha bisogno di riconquistare la fiducia del suo elettorato. La guerra e occupazione dell’Iraq, la morte del dottor Kelly, la defenestrazione dei vertici della BBC, le mai trovate armi di distruzione di massa, il dubbio dossier di Lord Hutton hanno lasciato cicatrici profonde che però, grazie soprattutto al rigido sistema elettorale inglese, difficilmente si tradurranno in una sconfitta elettorale. Meglio però non rischiare troppo.
Secondo Curtis, Blair è consapevole che l’unica minaccia reale alla sua politica estera è l’opinione pubblica. Per questo, con l’aiuto dei suoi spindoctor, «è impegnato in una campagna permanente di propaganda per convincere il pubblico della moralità delle sue politiche, sopratutto di quelle di intervento militare». Un ministero come DFID, che per statuto «promuove lo sviluppo sostenibile e la riduzione della povertà», diventa perciò cruciale per bilanciare l’animo militaresco del suo governo. Anche se, sottolinea ancora Curtis, dietro la retorica dello sviluppo e i ricorrenti richiami al fair trade (commercio equo), «il governo Blair è nei fatti uno dei massimi sostenitori della dottrina economica neo-liberale che è alla base del WTO».
Aiuti poco umanitari…
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