[Brano del saggio “Bicicrazia” di Zenone Sovilla]
[…] Nel complesso, in Italia, sconcerta un’azione amministrativa schizofrenica che tende sostanzialmente a perpetuare e potenziare il modello di mobilità che sta soffocando un Paese primatista in fatto di diffusione dell’automobile e che ritiene di risolvere il problema continuando a incentivare l’uso della vettura privata. Si celebra il mito del motore pulito, in realtà tutto si gioca sul livello di pericolosità delle emissioni inquinanti per ridurre quelle considerate, allo stato attuale, piú nocive, calando un velo pietoso su tutte le altre (eliminato il piombo dal carburante, sono rimasti biossido di azoto, ossido di carbonio, biossido di zolfo, polveri sottili eccetera, mentre esistono perplessità anche sulla reale intercettazione del benzene nei mezzi catalizzati). E anche i veicoli elettrici (auspicabili nell’immediato per salvare l’aria in città) e la promessa auto-H, che non sporcano (però, bisogna vedere come è stata prodotta a monte l’energia veicolata dall’idrogeno o accumulata dalle batterie) non ci libereranno dagli altri effetti delle città intasate: l’invasione dello spazio, gli ingorghi, lo stress, l’inquinamento acustico, gli incidenti con vittime soprattutto pedoni e ciclisti, la riduzione dell’attività fisica e le relative conseguenze sulla salute, la socialità negata, il degrado paesaggistico.
Il Paese delle piazze, in altre parole, sembra aver perso memoria e identità urbanistiche. E pensare che anche in una megalopoli come Londra rinascono quartieri progettati per affidarsi principalmente alla piú efficiente, sana e sicura mobilità alternativa: le auto sono ospiti non graditi. Da noi, si dovrebbe saper rispondere almeno con potenziamenti del trasporto urbano e delle ciclopiste al soffocamento dei grandi centri e all’esodo dalla città alle frazioni, fenomeno – quest’ultimo che, senza iniziative di supporto, contribuisce con un ipertrofico pendolarismo all’emergenza della mobilità e del suo impatto sull’ecosistema, sulla salute umana, sulla fauna. Non va, poi, dimenticato che l’elaborazione democratica di un ripensamento del modello dei trasporti dovrebbe essere accompagnata da riflessioni generali sull’organizzazione del lavoro (in particolare degli orari) e sulle dinamiche locali e globali dei mercati, che in un irrazionale girotondo delle merci tendono a mortificare la dimensione regionale.
Si può immaginare che ogni piccolo passo umanizzante, oltre a contrastare il pluridecennale paradigma automobilistico interiorizzato da noi tutti, possa introdurre nuovi elementi di critica del modello del lavoro e della sua centralità alienante e ossessiva nella vita umana. Tra chi si occupa di sostenibilità, qualcuno, per esempio, indica una settimana lavorativa di quattro giorni per nove ore (36 in totale) quale strumento per contenere le varie forme di inquinamento legate agli spostamenti, soprattutto nelle città. Altri propongono, accanto all’incremento del telelavoro (modalità che, tuttavia, presenta aree critiche come il rischio di ridotta socialità e di un impegno totalizzante), forme articolate di bonus orari e incentivi fiscali sulla base del mezzo di trasporto utilizzato dal lavoratore. In questo ambito sono impellenti scatti individuali e collettivi, privati e istituzionali, in grado di disturbare l’introiezione della pigrizia motoria (invece di usare il corpo per muoverci nella vita quotidiana, lo spremiamo nel tempo libero consapevoli dei rischi della sedentarietà: il fenomeno mi sembra un po’ perverso).
Ragionare, discutere, confrontarsi per sperimentare nel nome della riduzione della sofferenza umana e dell’ecosistema dovrebbe essere il primo punto della nostra agenda quotidiana la quale, al contrario, ci offre regolarmente dibattiti alla tv pubblica e privata sul ritorno di moda delle bionde, vaniloqui del presidente del Consiglio sul paradiso terrestre che sarebbe l’Italia se fosse lui ad avere il 51% dei voti, fiumi di parole sui gran premi di Formula uno, discussioni polverose nelle quali si sovrappongono voci incomprensibili, altre amenità vendute come essenziali per la crescita civile e la qualità della vita, mentre si tratta di smisurati esercizi di distrazione collettiva. Per facezie come le malattie e le morti causate dal traffico, in tv c’è meno spazio che per il campionato di calcio di serie B. Siamo di fronte a un’emergenza, ma la classe politica, con la connivenza di gran parte dei mass media e del mondo intellettuale, brancola nel buio e invece di preoccuparsi di tutelare veramente la salute pubblica, promette e celebra grandi opere e colate di cemento (raddoppi autostradali, alta velocità ferroviaria, ponte sullo Stretto), privatizzazioni che accrescono la precarietà nelle fasce deboli, tagli fiscali che riducono le risorse per i servizi universalistici in difesa del benessere collettivo. Come se i tormenti degli italiani fossero le code d’auto sugli Appennini o la durata del viaggio in treno da Roma a Milano.
Non c’è da stupirsi se nel momento presente di un’epoca in cui si adotta ingannevolmente il vocabolo moderno sovrapponendolo sul piano semantico a mercato [neoliberista], l’Italia della mobilità segna il passo e registra ritardi inquietanti, forse culturali e antropologici prima ancora che politici e amministrativi. Il Paese ha subíto piú di altri il fascino e l’ubriacatura automobilistica e oggi, di fronte a un allarme anche sanitario, la presa di coscienza collettiva fatica a tal punto da far apparire buona parte del lavoro utile solo come una semina per la generazione futura, non come un’azione impellente per salvare la vita qui e ora. C’è, inoltre, da interrogarsi sulla credibilità delle politiche dissuasive nei riguardi dei mezzi a motore, in una ribalta nazionale che, nonostante un tasso di motorizzazione in crescita da record e ben sostenuto dal denaro pubblico, registra ricorrenti litanie dei produttori dei veicoli inquinanti che vengono proiettati sulle autostrade la cui profittevole gestione è in parte controllata da soggetti privati che su questo dannoso fenomeno consolidano imperi lucrativi.
Al cospetto di questi poteri forti, che ci propinano furbescamente lo spot dell’auto immersa nella natura selvaggia, in quale misura sarà realmente praticabile un processo di conversione industriale che sfugga al ricatto della precarietà occupazionale e a simili effetti indesiderati? Le testimonianze raccolte in questo volume dovrebbero dimostrare, quantomeno, che sperimentare è possibile e che l’integrazione tra la bicicletta e il trasporto collettivo e privato (che utilizzi i carburanti meno dannosi) può essere la carta vincente, in un’ottica progressiva e in un contesto sociale ed economico che non consente una conversione diretta e totale all’energia puramente metabolica evocata da Ivan Illich quale chiave di un’interazione compatibile dell’essere umano con l’ecosistema.
L’obiettivo è una conversione produttiva, fondata su tecnologie meno aggressive, nella quale i mezzi alternativi e le loro ricadute su altre sfere della vita sociale possano occupare via via lo spazio anche economico dell’automobile (il quale, come abbiamo visto dai dati sulla spesa pro capite, in Paesi come l’Italia è rimarchevole).
Putroppo, come si diceva, si manifesta una netta resistenza della classe politica e dei tecnocrati a cogliere il grido di sofferenza che si leva dalla società o a indicare alla popolazione scelte coraggiose di vivibilità. Il bisogno di una creatività intelligente per rifondare la mobilità è sempre più percepibile.