[b]Lorenzo Guadagnucci[/b]
(lettera inviata al Manifesto e pubblicata sul quotidiano il 25 maggio 2010)
Caro direttore, la notte del 21 luglio 2001 uscii dalla scuola Diaz coi piedi in avanti, legato a una barella e le braccia fasciate alla meglio: una posizione davvero umiliante. Attraversando il cortile, in mezzo a decine di poliziotti e con un elicottero che faceva un rumore infernale, colsi un’immagine che resta uno dei ricordi più netti che ho di quella notte: c’era un gruppetto di signori, in giacca e cravatta, che confabulavano; qualcuno parlava al telefonino. Mi parvero degli alieni. Chi erano? Che facevano così compìti in quel luogo di violenze, sangue, urla e pianti? Oggi posso dare loro un nome: erano Francesco Gratteri, Giovanni Luperi, Gilberto Caldarozzi e qualche altro, insomma i dirigenti condannati la scorsa settimana in tribunale a Genova. Mentre il presidente Salvatore Sinagra leggeva il verdetto, ho ripensato a quella scena di nove anni fa e ai nostri percorsi: il mio e il loro. Quella notte a me ha cambiato la vita. In breve, sono diventato un attivista sociale: ho scritto un libro (“Noi della Diaz”) per raccontare quella notte, partecipato a molte centinaia di incontri in mezza Italia, contribuito a fondare il Comitato Verità e Giustizia per Genova. Ho voluto conoscere dei sindacalisti di polizia, per capire meglio quel che succedeva dall’altra parte dei manganelli. Alla fine ho capito che Genova G8 è stato un punto di svolta per il nostro paese: il potere ha colpito e criminalizzato un movimento culturale e politico che raccoglieva consenso crescente e poneva le domande giuste, e ha stretto un patto tacito con i cittadini: benessere e “sicurezza” in cambio di meno diritti e meno libertà. Nel gennaio 2009, quando è uscito il mio libro “Lavavetri”, dedicato al fantasma della sicurezza e alle ordinanze repressive di decine di sindaci, ho capito di avere scritto il secondo capitolo di “Noi della Diaz”. Battersi per ottenere giustizia nei processi scaturiti dal G8 e contestare i poteri di polizia dei sindaci, le schedature del popolo rom, il diritto speciale per i migranti è assolutamente la stessa cosa. Senza il G8 di Genova (e il gravame della cosiddetta lotta al terrorismo dopo l’11 settembre) non ci sarebbe tutto il resto, nemmeno la catena di violenze e di abusi contro cittadini inermi (da Aldrovandi a Cucchi, Gugliotta e via elencando). È nel luglio 2001 che è cominciato il progetto di “governare con la paura”.
Rammento anche un’altra cosa. Il 24 luglio 2001, una volta scarcerato, mi feci una promessa: fare il possibile per ritrovare la fiducia perduta la notte di sabato 21, quando concetti come democrazia, garanzie costituzionali, diritti umani smisero all’improvviso di sembrarmi certezze sulle quali in Italia è possibile contare.
Quanto a loro, i dirigenti che notai nel cortile della Diaz, non so che pensieri abbiano fatto in questi anni. So che avevano carriere importanti alle spalle, ero e resto convinto che avrebbero fatto bene a dimettersi già il 22 luglio, o almeno quando è arrivato il rinvio a giudizio. Ma l’unico poliziotto che abbia pensato alle dimissioni per il disgusto provato di fronte agli abusi della Diaz è il commissario Montalbano, amatissimo dagli italiani ma come noto inesistente. E comunque alla fine, nel romanzo “Il giro di boa”, non si è dimesso neppure lui…
I nostri dirigenti, come sappiamo, hanno addirittura fatto carriera, nonostante la “macelleria messicana”. Ora leggo che il capo della polizia Antonio Manganelli e il ministro Roberto Maroni ribadiscono «piena fiducia» nei loro confronti e annunciano che non saranno sospesi, in attesa che la Cassazione si pronunci. Il sottosegretario Alfredo Mantovano aggiunge di avere la «ragionevole presunzione» di ritenere che la Cassazione cancellerà la sentenza d’appello e tornerà al giudizio di primo grado, con l’assoluzione della catena di comando: non afferro su quali basi Mantovano arrivi a questa «ragionevole» previsione, ma detta così somiglia molto a un’indebita pressione sui giudici. In ogni caso la fiducia governo è garantita e forse basta riflettere su questo concetto per arrivare alla lezione conclusiva di Genova G8. All’indomani della Diaz, quando pensavo alla fiducia da ritrovare, io mi riferivo a qualcosa che sale dalla base verso il vertice, come normalmente avviene nei regimi democratici. Oggi ministri e poliziotti hanno rotto tutti i ponti con quest’antica concezione: la fiducia scende dal potere politico verso il vertice di polizia e lì si ferma. Il circuito è chiuso: la magistratura disturba, i cittadini non sono nemmeno presi in considerazione. I dirigenti della Diaz, perduta la credibilità sia di fronte ai magistrati sia rispetto ai cittadini, si rifugiano nella “fiducia” del potere politico del momento. La domanda allora è: siamo ancora in una democrazia? Non so, ma per quanto mi riguarda ho smesso da tempo di parlare di democrazia senza usare aggettivi: autoritaria è quello che mi pare al momento più calzante per il nostro paese.
Per finire ho una domanda per i parlamentari dell’attuale opposizione. Non voglio chiedere conto della commissione d’inchiesta naufragata nel 2007 e nemmeno della promozione accordata dal governo Prodi a Gianni De Gennaro: la sentenza propone nuovi scenari e vorrei quindi sapere da che parte stanno, perché in questi giorni non sono riuscito a capirlo. Sono con noi, che rivendichiamo giustizia e anche il diritto dei cittadini e degli agenti di polizia ad avere dirigenti credibili e al di sopra di ogni sospetto, o credono anche loro che il principio di fiducia è un patto che unisce un ministero e un gruppo di dirigenti escludendo ogni controllo esterno? Sarebbe importante saperlo, perché nei mesi prossimi dovremo darci da fare per spezzare quel patto, che avvelena la democrazia ma non è invincibile, e anzi può esistere solo se circondato dall’indifferenza.