Nonluoghi Archivio Ecuador, un sogno di giustizia

Ecuador, un sogno di giustizia

di Luca Gazzola

Napoleón Saltos è sociologo, insegna Teoria Politica all’Università Centrale di Quito e dirige la Fondazione di Ricerca e Promozione Sociale ‘José Peralta’ che svolge un importante lavoro di ricerca e analisi sociale in Ecuador, con l’obiettivo di accompagnare e consolidare il protagonismo dei movimenti sociali. Parliamo di come nasce la CMS, delle principali fasi che ha attraversa-to dalla sua nascita ad oggi, della sua crescita quantitativa e qualitativa, di quali sono i movimenti e gli attori sociali che alimentano questa esperienza.

La ‘Coordinadora de los Movimientos Sociales’ è nata nel 1995. Dalla nascita del Coordinamento ad oggi distinguerei due fasi. Nel primo periodo, fino al 1999 circa, le forze fondamentali sono state soprattutto quelle del nuovo sindacalismo pubblico del settore energetico e dei settori ‘strategici’ del paese. Negli ultimi due anni, dal 1999, c’è stata una nuova affluenza di ampi settori non necessa-riamente legati alla produzione. Sono entrati gruppi impegnati sui diritti umani, organizzazioni giovanili, settori informali, il movimento delle donne, i nuovi mo-vimenti sociali dell’ecologismo, le comunità ecclesiali di base che hanno un ruolo importante nel paese. Sono quelli che noi chiamiamo gli ‘esclusi’ e che rappre-sentano le tensioni più varie provenienti dalla società civile. Questo ha dato una nuova impronta al movimento, si è assistito ad una specie di complementazione tra realtà molto diverse, che ha dato al Coordinamento un ruolo e delle caratte-ristiche nuove: direi che è diventato sempre più la voce dei settori esclusi, un ‘movimento in movimento’ che prende forma strada facendo, senza una struttu-ra istituzionalizzata e rigida ma capace di organizzarsi in ‘caliente’, nella mobili-tazione. Ciò che cerchiamo di realizzare è che ogni organizzazione sociale (at-tualmente sono ventisette organizzazioni a carattere nazionale vincolate alla CMS) a partire dalla propria storia e identità possa approdare a obiettivi comuni. Rispettando l’identità di ogni settore che fa parte del Coordinamento parliamo dell’unità nella diversità, uniamo il sociale con il politico, lavoriamo a partire da una nostra proposta per il paese. Il nostro intento è sia quello di essere forza di mobilitazione e pressione, sia di elaborare delle proposte concrete. Neghiamo e ci opponiamo all’oppressione ma, nella mobilitazione, cerchiamo di costruire il nuovo mondo che vogliamo, e questo implica un grande lavoro teorico e politi-co.

Lo scorso aprile avete dato vita ad un Congresso della CMS, il primo dopo il grande ‘levantamiento’ del gennaio 2000. Avete posto una grande attenzione all’elaborazione di una vostra proposta di cambiamento profondo, di un programma per il paese.

Il Congresso è stato il confluire di un lungo processo di consulte generali perché crediamo che solo dalla partecipazione della gente possa nascere un program-ma di trasformazione profonda. Per noi la fase storica attuale è un momento che ci impegna oltre l’aspetto ‘programmatico’, non si tratta di una riforma ma di una sfida di civiltà. I decenni passati sono stati, in Ecuador e in America Lati-na, quelli delle ‘crisi’: la crisi del debito, quella economica, quella finanziaria … sembra una parola tanto semplice … per noi significa fame, insicurezza sociale, epidemie, analfabetizzazione … Ci sono stati grandi piani, gli aggiustamenti, le ‘ricette’ degli organismi internazionali, le privatizzazioni, è stata applicata la dol-larizzazione e molte altre misure. Ma la crisi non è risolta, l’economia non ripar-te, non c’è produzione, la crisi sociale continua e i livelli di povertà sono molto alti. Nel paese l’82 % delle famiglie vive sotto la soglia di povertà e il 37 % sotto quella di indigenza [rispettivamente 170$ e 30$ mensili – ndt]. Questa è la si-tuazione. Il nostro è un programma non solo contro il pensiero neoliberista, ma anche contro il sistema capitalistico: crediamo che c’è il bisogno di costruire un nuovo sistema di società e un nuovo senso dell’umanità. Alla domanda ‘che pa-ese vogliamo?’ che ci siamo posti attraverso le consulte la gente ha risposto ‘vogliamo un paese che garantisca vita con dignità per tutti e tutte’. Questa è la nostra definizione, può sembrare una definizione semplice, ma che cosa implica per noi ? Implica i diritti di avere la dignità umana, in quanto persona, e le con-dizioni per questa dignità: pane, lavoro, salute, educazione, sicurezza sociale. A partire da questi concetti abbiamo elaborato un programma di trasformazione ma che per noi è anche di transizione perché crediamo che il cammino si co-struisce camminando: più che individuare i grandi obiettivi ci concentriamo sull’apertura di questo cammino. Per noi rappresenta un programma di utopia realizzabile. L’utopia apre orizzonti ma deve essere realizzabile perché la nostra gente non crede solo nel discorso. Quindi, insieme all’aprire il cammino e alla rottura delle logiche di dominio, dobbiamo anche realizzare e costruire, vedere risultati nella lotta quotidiana che porta avanti ogni nostra organizzazione.

Parlaci di alcuni dei punti essenziali che caratterizzano il vostro programma, da dove comincia l’utopia realizzabile…

Parliamo di una nuova economia: lottare contro il neoliberismo, ma anche costruire una società economica nuova e, a grandi linee, noi diciamo che bisogna passare da una società dominata dal capitale speculativo e finanziario ad una società orientata alla produzione e al lavoro. Orientare alla produzione implica una alleanza ampia con tutti i settori produttivi, perché essa ci permette di riorientare a fondo l’economia. Insieme a molti altri aspetti, comprese alcune forme di riproduzione del capitale. Nel caso dell’Ecuador ci sono preziose esperienze di forme produttive comunitarie, solidali, e in questo modo prospettiamo una combinazione di forme avanzate di capitalismo, sotto il controllo sociale, e forme nuove di produzione, in particolare comunitarie, non solo nel settore rurale e indigeno ma anche nella realtà urbana. Proponiamo un cambio sostanziale rispetto al ruolo della statualità, crediamo che debba agire ma non siamo per una tesi ‘statalista’. Crediamo nella necessità del controllo del mercato attraverso un forte ruolo della società civile. Questa economia non la vediamo isolata dal con-testo internazionale: alla discontinuità rispetto alla situazione attuale e alla con-solidazione di questa nuova realtà economica, devono seguire delle alleanze re-gionali, in particolare dell’area andina-bolivariana, per creare le condizioni che ci permettano di dare basi solide a questi cambiamenti.
Una seconda trasformazione riguarda la politica e la democrazia. La democrazia è per noi il terreno dell’agire politico, però il tipo di democrazia che abbiamo conosciuto fino ad oggi è di tipo escludente e di minoranze, delegativa, di rappre-sentazione. Noi parliamo di una democrazia partecipativa dal basso, che implica una costruzione del potere a partire dalla cittadinanza. Molti contributi ci vengono portati dalle esperienze locali di esercizio del potere nelle comunità indigene: ci insegnano che bisogna rivoltare il concetto di democrazia basata sullo ‘stato di diritto’ per concentrarci invece su una democrazia che parta dai diritti di cittadinanza.
In terzo luogo noi diamo molta importanza ad una trasformazione etica. L’etica rappresenta per noi il fondamento della politica. Il divorzio che si è creato tra pratica e norme, il sentiero che ha portato ad una etica senza morale nel sistema capitalista non richiede da parte nostra solo una lotta contro gli effetti negativi come per esempio la corruzione. Dobbiamo soprattutto ricostruire una nuova etica e una nuova morale, riaffermare i fondamenti dell’etica andina, del mandato del buon-governo (non rubare, non mentire, non rimanere ozioso). E attivare inoltre una etica civica, capace di promuovere valori in positivo, partico-larmente incarnati nella nostra società che combina l’occidente con l’andino. La visione occidentale è costruita a partire dal lavoro, dall’etica protestante, dalla logica dell’accumulazione e del capitale. Noi siamo portatori dell’etica della redistribuzione, che riscattiamo dalle nostra culture. L’etica andina è quella della festa, della solidarietà e della redistribuzione. Il lavoro è per noi un castigo. E il potere non è solo il denaro, ma anche il valore sociale delle persone. Siamo differenti.

Mi sembra che il cambiamento che prospettate richiami direttamente al confronto la ‘visione del mondo’ occidentale che è penetrata un po’ ovunque.

Se guardiamo alle ragioni più profonde del nostro programma, queste non riguardano tanto l’economia o la politica, bensì che questi aspetti della vita pubblica siano orientati allo sviluppo della persona umana: obiettivi come salute, reddito e piena occupazione, educazione di qualità, per tutti e tutte, devono es-sere la ragione dell’organizzazione della società. Così anche se pensiamo ad altri temi chiave, come per esempio ai diritti ambientali e al ruolo che il nostro paese ha nella sicurezza ambientale e biologica mondiale. Fino ad ora abbiamo subito decenni di politiche aggressive che si sono affermate nella nostra regione sul piano economico e militare e che, negli ultimi tempi, hanno preso il nome di Plan Colombia e ALCA [Accordo di Libero Commercio per le Americhe]. Per que-sto pensiamo che, per quanto sia un paese piccolo, l’Ecuador che vogliamo co-struire possa dare un contributo ad un riordino mondiale, ad una politica di pace mediante un ordine universale democratico, alla costruzione di una cittadinanza universale. Siamo per la democratizzazione degli organismi internazionali, a co-minciare dall’ONU. E siamo con chi si batte contro questo tipo di globalizzazione capitalista, in nome del riscatto della globalizzazione della speranza.

Negli ultimi dieci anni è cresciuta l’interazione tra la CMS e il movimento della Conaie, avete sperimentato sempre più delle forme di a-zione ed espressione unitaria, fino al movimento elettorale ‘Pachaku-tik-Nuevo Pais’. Quale valore e senso dai a questa alleanza?

Pensiamo che la strada per la costruzione di un potere popolare e quella della lotta per la direzione del paese siano due cose che stanno insieme. Bisogna co-struire il potere dal basso, dal locale, in ogni organizzazione: ogni organizzazio-ne, per piccola che sia, deve saper rispondere alle domande locali cosciente di quelle che sono le domande globali. Questo è un aspetto che consideriamo sempre più urgente perchè siamo coscienti di come una piccola organizzazione di quartiere o di indigeni possa opporsi direttamente al potere mondiale. É un confronto di visione del mondo, di civiltà. Quindi la base della nostra azione è il potere popolare, che non è tanto un potere politico nel senso classico ma la ca-pacità organizzativa che viene dalla gente, di proposta, di elaborare soluzioni al-ternative, di costruire basi di potere economico con forme alternative di produ-zione, di trovare forme nuove di comunicazione e informazione. A partire da questa base, quello che abbiamo costruito nell’ultimo decennio è stato possibile, nel caso Ecuadoriano, per la presenza del movimento indigeno e la sua alleanza con i settori sociali. Questa alleanza si è dimostrata strategica e ha permesso di concretizzare la costruzione di un potere popolare di questo tipo. La forza di re-sistenza che deriva dall’unità dei movimenti indigeni con i movimenti sociali ha messo in scacco e fermato in certi punti l’applicazione del disegno neoliberista in Ecuador. Negli altri paesi dell’America Latina, durante gli anni ’80 i movimenti sindacali furono ampiamente sconfitti e non ci fu grande resistenza all’applicazione dei nuovi programmi macro-economici dettati dagli organismi in-ternazionali. Nel caso dell’Ecuador, la presenza del sindacalismo e del movimen-to indigeno hanno permesso di resistere al progetto neoliberale, impedendone l’applicazione di alcuni suoi aspetti importanti.
In tutto questo, però, il contributo del movimento indigeno non riguarda solo gli aspetti socio-economici: oltre a riconoscersi come soggetti socio-economici gli indigeni rivendicano anche la propria soggettività etnica e culturale, la propria identità e la propria visione del mondo, diversa da quella occidentale. Per esem-pio la visione occidentale si fonda su una razionalità strumentale, o tecnica. Nel caso andino la razionalità assume una dimensione simbolica, quella del ‘realismo magico’. Non si tratta del fatto che una razionalità sia migliore dell’altra, ma solo che sono diversi modi di vedere le cose. L’occidente parte dall’individuo per arri-vare al sociale. Nel caso andino il rapporto è capovolto, il centro è la comunità e si va verso l’individuo. E così per la concezione del tempo, che è una questione di civiltà. Il senso occidentale è quello del tempo intorno al progresso: esiste il passato, esiste il presente e andiamo verso il futuro, in una scala ascendente. Nella visione indigena c’è la visione del Pachakutik (il ritorno del passato al futu-ro, l’avvento di tempi migliori), che è un processo rappresentato con il caracol: ci sono dei cicli, che si muovono in una specie di spirale. Ogni cinquecento anni comincia una nuova epoca. Cinquecento anni fa c’è stata la conquista delle a-meriche e cominciò la notte. Cinquecento anni dopo ritornano i popoli indigeni che sono stati soggiogati e comincia una nuova fase. Si recupera il passato, ma non per riviverlo ma per poter proiettare il tipo di società che vogliamo ora. Il passato può dunque stare dopo il futuro. Siamo differenti. Dunque, come indi-geni non solo siamo poveri, ma abbiamo una nostra storia e identità. Rivendi-chiamo che ci siano riconosciuti i diritti socio-economici (salute, lavoro, educa-zione, …) ma rivendichiamo anche la nostra diversità. Questo è l’elemento nuo-vo della lotta. É un problema socio-economico ma anche di civiltà. Cambia la storia.

Quali sono state le principali tappe di questo percorso comune dei mo-vimenti sociali con il movimento indigeno?

É stata la forza del movimento indigeno che ha risvegliato gli altri movimenti so-ciali, non indigeni. L’unità c’è stata nel 1990. Nel 1995 nasce la CMS. Insieme abbiamo vinto il referendum sulle privatizzazioni: il governo aveva promosso un plebiscito di propaganda in cui chiedeva al paese l’approvazione per un piano di privatizzazione delle risorse e di flessibilizzazione del lavoro, due pilastri del pro-getto neoliberale. Tutti sostenevano questa prospettiva politica del governo: i mezzi di comunicazione, la chiesa, tutti i partiti … compresi i sondaggi che un mese prima dicevano che l’Ecuador sarebbe stato il primo paese in cui il neoli-beralismo si sarebbe affermato con un referendum! I movimenti sociali insieme alla Conaie dissero ‘no’, e imparammo a lottare attraverso i mezzi di comunica-zione, a ricercare risorse, spazi … un mese prima del voto i sondaggi dicevano che il 70% della gente era a favore del governo e un 30% dei movimenti. Ab-biamo fatto una campagna spettacolare, porta a porta, senza mezzi, la gente uscì e si mobilitò con noi e in un mese siamo riusciti a cambiare i pronostici, vin-cendo il referendum.
Nel 1996, ancora insieme, costituiamo il Movimento di Unità Plurinazionale ‘Pa-chakutik-Nuevo Pais’. Perché un nome così lungo? Movimento di Unità Naziona-le era il movimento degli indigeni della sierra. Pachakutik dell’oriente, dell’Amazzonia. Nuevo Pais i settori sociali. La ricerca di un’unione a partire dal nome. Nel 1996 partecipiamo al processo elettorale, affermandoci come la terza forza del paese, con 8 deputati, 4 indigeni e 4 mestizos a livello nazionale e con 30 sindaci su 215 e 5 province su 22 a livello locale. Considerando che il risulta-to elettorale è molto manipolabile dall’apparato elettorale … E ancora, nel 1998 proponiamo, attraverso un anno di lotta, che si faccia una Assemblea Nazionale Costituente, per cambiare la Repubblica e fare una nuova Costituzione. Ancora una volta i gruppi dominanti ne approfittano. Sul piano economico si aprono de-finitivamente le porte al modello neoliberale. Su quello politico si va ad un si-stema presidenzialista, maggiormente autoritario, con una concentrazione del potere. Le nostre conquiste furono sul piano dei diritti, per le popolazioni indi-gene, per le comunità nere, per le donne, i giovani … In generale questi mo-menti ci hanno via via permesso di prendere coscienza sul fatto che eravamo capaci di sostenere delle lotte su un piano alto. Per noi è stato un processo di apprendimento e di creatività a partire dalla domanda “che cosa possiamo fare per cambiare il paese?”. Abbiamo conquistato comuni e province, e questa è un’opportunità per scoprire che cos’è il potere, che è una tentazione permanen-te. Dove governiamo proponiamo un modello di democrazia partecipativa. Am-ministrare un comune significa coinvolgere la cittadinanza in tutte le questioni, fino al bilancio partecipativo. Cotacachi è un esempio di amministrazione indige-na, riconosciuta anche da organizzazioni internazionali: si crea un piano di stra-tegie per quattro anni, coinvolgendo la gente sulle opere da fare, decidendo in-sieme gli obiettivi da raggiungere, le opere pubbliche da realizzare … questo crea un circolo virtuoso soprattutto per fermare la corruzione e il clientelismo. E altre esperienze e tentativi ci sono in altri comuni. Esperienze locali che ci stan-no insegnando molto. Ma anche con i deputati di Pachakutik in parlamento: si lavora insieme con la base perché essi rispondano al mandato di chi li hanno scelti.

La vostra forza cresce costantemente, fino al levantamiento del 21 gennaio 2000…

Il 21 di gennaio è per noi uno dei momenti chiave perché diventa evidente a tutti, attraverso la bancarotta del sistema bancario e finanziario, la totale inca-pacità dei gruppi dominanti di governare nell’interesse del paese. Sono saltati tutti i meccanismi bancari e finanziari, si apre una crisi economica molto forte, l’economia del paese cade a picco con percentuali molto più impattanti di quel 7% di cui parlano i dati ufficiali. Il 21 gennaio 2000 è l’apice della crisi economi-ca prolungatasi durante tutto il 1999. Ma bisognerebbe andare ancora un pò più indietro, al 1994, quando viene approvata una legge sul sistema finanziario to-talmente neoliberale, dove vengono meno i controlli centrali delle autorità mo-netarie e dello Stato. É in questo settore che le politiche neoliberali sono riuscite a penetrare. Nasce la libertà finanziaria. Si moltiplicano il numero delle banche e delle pratiche off-shore, con fughe di capitali. Vengono eliminati i meccanismi di controllo, le banche potevano fare quello che volevano. Da strumenti di rispar-mio per l’investimento, diventano meccanismi di risparmio per la loro propria crescita. Questo fino al 1998, quando i nodi vengono al pettine ed esplode la crisi bancaria, dentro ad una serie di fenomeni internazionali (crisi asiatica, ef-fetto vodka della crisi russa, questione del petrolio). Il Governo di Mahuad salva il sistema bancario assumendo i debiti: il salvataggio del sistema bancario priva-to viene assunto dal paese, dalla collettività. In due anni hanno regalato un an-no e mezzo del PIL dell’Ecuador alle banche… L’economia cade a picco, una ca-duta totale, con conseguente instabilità nel paese: la crisi non è solo economica ma anche politica e all’ordine del giorno si pone la questione ‘chi dirige il paese’?

In questo quadro voi avete sviluppato una strategia che chiamate in-surrezionale. Cosa significa?

Bisogna riconoscere che in Ecuador non ci sono tradizioni, come accade nel no-stro vicino paese, la Colombia, di una lotta armata o violenta. L’Ecuador, non negli ultimi anni ma durante tutto il secolo scorso, si è caratterizzato per forme di lotta come i ‘levantamientos’ indigeni e popolari, le sollevazioni, le insurrezio-ni. Questa è stata la tendenza: all’inizio del secolo, nel 1925, nel 1944 ‘La Gloriosa de Mayo’, per citare alcune di queste rivolte. É una forma di rivolta di mas-sa e pacifica, basata sull’alleanza tra le diverse nazionalità indigene e i settori sociali. Nel caso del 21 gennaio c’è stata una partecipazione dei colonnelli e dei capitani dell’esercito. Abbiamo utilizzato i meccanismi e le risorse di una insurrezione, cioè la creazione di un teatro insurrezionale. In un tempo di globalizza-zione e in un paese tanto piccolo come il nostro, credere e parlare di un cam-biamento profondo può apparire un’utopia o un’avventura. Però, il 21 gennaio ha dimostrato che nei momenti di crisi è possibile isolare fattori di potere. In termini sportivi possiamo parlare di fuorigioco. Quindi diciamo: nei momenti di crisi ci sono le condizioni perché settori di potere perdano la loro forza.

Parlaci di come si sono sviluppate le dinamiche in quei giorni.

Il centro della ribellione è stata Quito, la capitale. Era stato attivato un accer-chiamento militare della città e gli indigeni riuscirono a penetrare pacificamente con una grande marcia, penetrando fino al cuore del potere, al Palazzo di Giu-stizia. Il 9 gennaio si installò il Parlamento dei popoli dell’Ecuador, una specie di potere duale, con delegati di ogni provincia, dipartimento e dei vari settori so-ciali, che assumevano la capacità di decidere e decretare. Al potere costituito questo appariva come una specie di gioco e non lo prendevano sul serio. Il no-stro accerchiamento ai simboli del potere andava però crescendo e diventò da simbolico a fisico. Fino all’impedimento per i partiti politici, partiti basicamente elettorali, di non potersi riunire. Nel momento in cui non potevano riunirsi erano fuorigioco, non potevano decidere. E così è successo per il Palazzo di Giustizia, e per i giudici. Questo è quello che chiamiamo l’isolamento di fattori di potere e creazione di un teatro insurrezionale. Non ci sono regole per fare questo, si gio-cano sul campo. L’esecutivo, delegittimato, non fu in grado di reagire e si è ve-nuto a creare un momento in cui in questo teatro i fattori di decisione erano la mobilitazione indigena e sociale e quello che avrebbero potuto fare i militari, le loro reazioni. Nel dialogo tra queste forze stava il destino di quello che sarebbe successo nel paese. C’erano due possibilità: la prima, creare un dialogo con le gerarchie militari, con il comando supremo, compromesso però con l’ambasciata statunitense e con il potere costituito e questo vacillò nelle sue decisioni. La se-conda, che è prevalsa, creare delle relazioni con i quadri bassi e intermedi dell’esercito, le componenti meno compromesse. Il parlamento dei popoli nomi-nò una giunta di salvezza nazionale, formata da un rappresentante militare, un rappresentante indigeno e un rappresentante della società civile. Il resto lo sa-pete … emerge l’attuale Presidente Noboa come espressione di un populismo equilibrista tra le diverse tentazioni dei grandi gruppi dominanti …

Il 21 gennaio dimostra dunque tutta la vostra forza: destituite un pre-sidente e vincete la sfida di assumervi la responsabilità della direzione del paese. Ma è emersa anche tutta la vostra fragilità. Cosa vi ha inse-gnato e quali valutazioni avete fatto?

Sono molte le valutazioni che facciamo. Abbiamo creato un terreno insurrezionale, che ha raggiunto il suo obiettivo, ma non siamo riusciti a con-solidarlo per errori strategici. Costituita la giunta di salvezza nazionale si è aperta una negoziazione e invece di consolidare le conquiste già ottenute abbiamo iniziato a negoziare, vale a dire a compartire il potere. Altro problema c’è stato sul piano della comunicazione: c’era un forte appoggio concreto nel paese a questo cambiamento, però la televisione che non era nel nostro controllo, è riuscita dare una percezione totalmente opposta. Altri errori ci sono stati nei limiti geografici: la rivolta si è concentrata soprattutto nella capitale e, malgrado l’appoggio di alcune province, sono mancati gli elementi per una azione congiunta ed estesa. Dopo il 21 gennaio una delle nostre domande è non solo quella di come rivoltare una situazione di potere a nostro favore ma anche di come esercitarlo e mantenerlo in condizioni molto difficili.
Credo che il 21 gennaio ci lascia molti insegnamenti, molti positivi ma anche ne-gativi, sugli errori e sui limiti. Sarà la bilancia della storia a farci vedere cosa pe-sa di più. Per ora c’è un grande valore che questa esperienza ci lascia: la consa-pevolezza e la determinazione nella ricerca di un cambiamento profondo del pa-ese, aver osato assaltare il cielo con le mani. Credo che questa sarà sempre la fame dei popoli. Noi ci consideriamo insorgenti, non siamo riformisti, vogliamo cambiare e cambiare totalmente il modello. Non stiamo lottando per un pò di salario in più, o qualche diritto in più. La Conaie e la CMS sono due realtà che vogliono andare in fondo a queste questioni. Pur avendo questa strategia insor-gente, c’è pure una caratteristica pacifica, nonviolenta. Come è stato possibile che il 21 gennaio 2000 ci sia stata una rivolta, una ribellione generale che ha fatto cadere un governo, un presidente, senza che ci sia stato nemmeno un feri-to? Questo è un aspetto importante e interessante …

Cosa è successo in questi due anni di governo Noboa sul piano dei rapporti tra potere costituito e movimenti indigeni e sociali?

Quando nel paese si rivela l’esistenza di una forza in grado di affrontare diret-tamente un sistema di potere, essa viene affrontata altrettanto direttamente da quel potere. A partire dal 2000 l’alleanza tra militari, Conaie e CMS è stata du-ramente attaccata. L’obiettivo centrale di questa controffensiva è stata quella di rompere l’alleanza tra le comunità indigene e i movimenti sociali, e di spaccare al loro interno le varie organizzazioni. La nostra era una azione pacifica, di mas-sa, pubblica e trasparente: non abbiamo cospirato, ma annunciato via via i passi che avremmo fatto, alla luce del sole. Per loro non è stato difficile: iniziarono gli attacchi alla CMS, alla Conaie e ai loro dirigenti, cercando di rompere l’alleanza strategica. Le forme di penetrazione sono state varie, dal discredito dei dirigenti all’offerta di posti e favori clientelari, favorendo divisioni in questioni locali per impedire una visione nazionale. É molto difficile lottare per degli interessi gene-rali, sostenere una coscienza dei settori sociali perché non vedano solo i loro in-teressi immediati e settoriali. Se non c’è questa visione generale si rischia di ar-rivare ad un indigenismo etnicista da un lato e ad una specie di razzismo dall’altro. Per i movimenti è stato un periodo difficile, di riflessione, di discussio-ne. Stiamo attraversando una tappa di ridefinizione. Credo che questa fase ter-minerà presto, per il solo fatto che ci obbliga a fare un salto strategico. per la CMS la fase difensiva si è conclusa nel congresso dell’aprile scorso; e così per la Conaie nel congresso delle scorse settimane. Stiamo passando ad una nuova fa-se, perché se il 21 gennaio è stato un grande momento di affermazione, è stato anche un momento in cui si è esaurito una fase costruita negli anni precedenti. Per noi dunque il 21 gennaio deve insegnarci a raggiungere nuove tappe, sul piano teorico e pratico, che implica lotte nei punti nodali del dominio e che si concreta molto di più quando non si tratta solo di lotte nazionali ma regionali.

Veniamo alle questioni regionali e alla politica statunitense nell’area. Quali segnali intravedi e quali sono le vostre prospettive?

Direi che qui non esiste solo il potere nazionale, ma anche un potere extra-nazionale, quello statunitense che in America Latina continua ad essere molto forte … Sul piano interno la credibilità di Noboa è scesa molto negli ultimi mesi. In particolare una spada di damocle che pende sul governo è la questione del sistema bancario, che non è ancora risolta e lascia aperta la crisi economica e politica. Bisogna riconoscere che il problema è di tutta la regione andina, non solo dell’Ecuador. Le lotte, che negli anni ’80 erano concentrate soprattutto nell’america centrale, si sono spostate in questa area. Chavez in Venezuela, le guerriglie e la società civile in Colombia, le lotte indigene e dei movimenti in E-cuador, ma anche in Perù e in Bolivia … la regione andina è diventata la zona rossa che preoccupa l’impero. Quindi si è sviluppata una politica regionale, a cominciare dal Plan Colombia, che di fatto è un piano regionale di contenimento bellico che non riguarda solo il processo colombiano. Gli Stati Uniti considerano l’America Latina come il proprio cortile di casa e stanno attuando una politica molto diretta. Non si possono permettere il prolioferare di situazioni come quella del 21 gennaio in Ecuador.
Noboa è stata la continuazione di Mahuad, però con l’abilità di dividere i movi-menti e di cavalcare l’opinione pubblica: ciò gli ha permesso di proseguire il suo disegno politico, di introdurre la dollarizzazione, di privatizzare. Ma le sue politi-che non hanno risolto la crisi economica. Ha creato una visione, ha raccolta la fiducia di alcuni settori dominanti. Adesso siamo in un momento paradossale: la dollarizzazione, che doveva essere la zattera della salvezza, è oggetto essa stes-sa di ulteriore salvataggio. Si punta ancora di più sulle privatizzazioni, in partico-lare di tre settori fondamentali: petrolio, settore elettrico, sicurezza sociale. Queste saranno le battaglie che ci aspettano, soprattutto per il prossimo anno.
Credo che la tendenza potrà essere quella di ritornare ad un certo impatto di forza e ad una capacità di resistenza dei movimenti per fermare i processi di privatizzazione in questi settori e continuare il nostro cammino. Ma dobbiamo anche affrontare il tema del Plan Colombia, il senso che vogliamo dare alla ‘pace mondiale’ e interpretare gli avvenimenti mondiali. É urgente una relazione e una alleanza dei movimenti dell’area andina-bolivariana e, su fronti più ampi, del Fo-rum Sociale Mondiale, a livello internazionale. Ci riconosciamo parte di questo processo e di questo movimento mondiale però aspiriamo anche ad un salto in avanti, ad un progetto universale in positivo. Il livello propositivo è ancora debo-le.

Infine un’ultima questione, che sembre essere sempre nell’occhio del mirino, quella del petrolio …

Possiamo dire che in Ecuador il petrolio è una risorsa fondamentale, rappresen-ta il 42 % della ricchezza nazionale prodotta, circa il 20 % dell’esportazione to-tale. Dipendiamo da quello che succede con il petrolio. L’estrazione [500.000 barili al giorno] è controllata per un 65-70% dalla Petroecuador, che è un’impresa statale, e il restante 35-40% da imprese private. Gli sforzi delle im-prese private sono sempre più orientati alle strategie per prendere controllo di-retto del 65 % del settore statale. Secondo la Costituzione non avrebbero la possibilità di acquisire un controllo diretto, perché la Costituzione dice che le ri-sorse naturali sono di proprietà dello Stato. Allora la strategia è stata quella di aggirare questa disposizione e negli ultimi dieci anni le grandi compagnie petro-lifere, per garantirsi il controllo della produzione petrolifera, si sono concentrate sull’ottenere la concessione per la costruzione di un nuovo oleodotto, che rap-presenta un controllo indiretto, il chiavistello che permette di decidere su tutto l’oro nero che viene estratto nel paese. Se controlli una strada strategica, o un porto, e decidi di chiudere, non passa niente. É nata così una grande lotta, la stessa CMS nasce nella azione degli ‘encadenados’, di resistenza e disobbedien-za contro la costruzione di questo impianto e questa politica. Quest’anno, mal-grado questi 10 anni di resistenza, le multinazionali hanno vinto una battaglia, facendo approvare la costruzione dell’OCP. Adesso bisognerà vedere se riusci-ranno a costruirlo … Cinque compagnie, compresa la AGIP Italiana. Non è solo un problema energetico, c’è anche un grande problema ambientale. L’oleodotto dovrebbe passare per zone molto delicate da un punto di vista dell’equilibrio bio-ecologico, oltre che per zone urbane. Questo è un primo aspetto del pro-blema.
Ma se analizziamo più a fondo la questione petrolifera sorge un’altra questione: l’attuale sistema globale ha assegnato all’Ecuador essenzialmente il ruolo di e-sportatore di materie prime, in particolare del grezzo. Le nostre controproposte hanno dimostrato che con lo stesso costo dell’oleodotto potremmo costruire due o tre raffinerie e, al posto di esportare il grezzo per poi ricomprare prodotti finiti, potremmo prima rispondere al mercato interno e poi eventualmente esportare. Un barile di grezzo è venduto a 20 $, un barile di derivati è importato a 400 $. Perché non lo lavoriamo noi il grezzo? Allora è una questione di modello, di co-me passare dall’essere un paese esportatore di risorse naturali ad essere un pa-ese che fa delle risorse un fattore di sviluppo. Non si tratta solo di un processo di industrializzazione, ma di accedere alla tecnologia. Però chiaramente questo non dipende solo da questioni nazionali ma dalla realtà internazionale: il model-lo dominante è imposto dalle grandi compagnie occidentali.

INTERVISTA CON GUALDEMAR JIMÉNEZ
Del gruppo Obiettori di Coscienza del Servizio Pace e Giustizia
Quito / ottobre 2001

Presentaci il gruppo, quando nasce, come si forma.

Sono Gualdemar, tra i fondatori del Gruppo Obiettori di Coscienza. Il gruppo na-sce nel 1994, dentro ad un processo prevalentemente di opposizione al servizio militare obbligatorio e alla logica-mentalità militarista che in Ecuador è sempre stata forte. Il Servizio Paz y Justicia ci da appoggio nella capitale, ma lavoriamo nelle province in maniera autonoma con i gruppi giovanili, diffondendo le tema-tiche e lanciare la proposta. Parlare di antimilitarismo nel paese non è mai stato facile, sei considerato contro la Patria. Nel 1997 riuscimmo a far includere nella nuova Costituzione del paese il diritto per tutti i giovani di praticare l’obiezione di coscienza al servizio militare. Da quel momento è iniziata una nuova fase per il nostro gruppo, abbiamo cominciato a rilanciare con più forza le nostre idee e ad associarle a rivendicazione di altri diritti: pace, rivendicazioni sociali, diritti giovanili, di una società differente ….

Qual’è la situazione legale, lo status giuridico degli obiettori di coscienza?

É stato inserito il diritto nella costituzione ma non è stata fatta nessuna legge per applicare questo diritto, che non può essere esercitato. Chi pratica l’obiezione di coscienza è soggetto a tutta una serie di sanzioni e restrizioni: non si può uscire dal paese, non si può lavorare perchè non si ha il congedo, o stu-diare nelle scuole pubbliche. Devi considerare che parlare di obiezione di co-scienza è molto difficile e anche contradditorio. La gente che va a fare il servizio militare proviene in particolare dalle zone rurali e povere, con pochi soldi e per loro entrare in una caserma significa un reddito minimo, pasti sicuri, un tetto, formazione. Per molti giovani è appetitoso dare un anno della propria vita pur di uscire da una situazione di miseria. Esiste poi un’altra opzione al servizio milita-re, senza per forza praticare l’obiezione di coscienza: pagando una multa di 25 dollari si ottiene la carta di congedo e si hanno tutti i diritti. Venticinque dollari sembrerebbero pochi, ma se consideri una famiglia indigena che vive con 50 dollari al mese, sono molti, significa privarsi del cibo. É meglio che il figlio vada in caserma, perchè le condizioni migliorano per lui e per tutta la famiglia. Quello che manca è un servizio civile alternativo. Se ti dichiari obiettore rimani a casa, ma ci rimani proprio, finché non paghi la multa o vai a fare il servizio militare. Non siamo molti obiettori, perchè è una lotta molto simbolica.

Quali azioni e attività proponete?

Proponiamo azioni dirette nonviolente, come manifestazioni, presidi, … ma an-che graffiti, cartelloni, laboratori di discussione nell’università, incontri con altri gruppi giovanili e altre organizzazioni. Ci sintonizziamo su questi temi, per co-struire una rete.

Fate parte della CMS?

No, direttamente non ne facciamo parte, non siamo militanti della CMS. Però in molte iniziative e azioni appoggiamo e partecipiamo.

Qual’è il vostro rapporto con le organizzazioni indigene e con la Conaie?

Di fatto abbiamo sempre appoggiato le mobilitazioni indigene, partecipando co-me potevamo. Il movimento indigeno conosce il nostro gruppo e i nostri temi. Bisogna capire il movimento indigeno, che ha le sue proposte politiche, le sue visioni del futuro, le sue logiche. É importante conoscerci. L’antimilitarismo è un punto di unione con il movimento indigeno, perchè le loro forme di lotta sono nonviolente per definizione. Ci sono legami e un lavoro comune sui temi della pace e dell’antimilitarismo. Nelle loro lotte e proteste noi collaboriamo con loro soprattutto qui a Quito, perchè sappiamo come muoverci nella città, e li aiutia-mo spesso nelle manifestazioni da un punto di vista pratico e organizzativo. Tre anni fa abbiamo cominciato la campagna contro l’installazione delle basi militari statunitensi in Ecuador e in tutta l’America Latina. Il primo gruppo cominciò con la base militare di Manta. E in quell’occasione abbiamo lavorato molto insieme al movimento indigeno, i primi ad iniziare questa campagna sono stati loro.

Parliamo della situazione dell’esercito in Ecuador: il 21 gennaio 2000 una parte si è schierata con il levantamiento, un’altra parte è rimasta nelle posizioni di potere tradizionale…

Dentro all’esercito ci sono due componenti forti: una parte è di destra, la parte più militarista e conservatrice; un’altra parte possiamo definirla più ‘progressi-sta’. La marina fa parte del primo gruppo, legato ai gruppi borghesi della costa. La parte dell’esercito della sierra è più popolare e più vicino alle comunità, han-no una logica più sociale. Tuttavia, che ci sia una parte dell’esercito, minoritaria, che abbracci e solidarizzi con un levantamiento indigeno e popolare, non toglie niente al fatto che il ruolo che hanno sempre avuto e hanno tuttora le forze ar-mate sia quello del controllo. É difficile cercare nell’esercito, ed è un errore che molti movimenti fanno, un potenziale alleato delle lotte sociali.

Il 12 novembre 1999 è stato firmato l’accordo per l’installazione della base militare statunitense a Manta. Quali sono state le vostre azioni?

Inizialmente abbiamo lavorato sul piano giuridico, a tutti i livelli, per impedire che si installasse questa base. Ma era una lotta impossibile. Da questa consape-volezza sono iniziate le azioni dirette, violando il recinto della base, facendo ma-nifestazioni e concerti per dire ‘llucshi’, che è una parola indigena che significa ‘fuori’ … questo ha fatto sì che a livello sociale sia cominciato un dibattito e una riflessione sulla presenza militare degli Stati Uniti in Ecuador .. uno dei problemi che abbiamo dovuto affrontare è la situazione sociale facilmente penetrabile da questi progetti di installazione di basi militari: in una zona povera come quella di Manta, dove non c’è lavoro, l’arrivo di una base significa lavoro ben pagato, cre-azione di piccole scuole, parchi, commercio … cose che la gente non aveva … anche se poi arrivano altre cose che la gente non conosceva, come le droghe, la prostituzione, …

Perchè proprio a Manta? Quali sono le strategie militari statunitensi?

Manta, geograficamente, è un luogo strategico. La strategia USA è quella di creare un triangolo di basi militari attorno alla Colombia. Una è qui, una nel Ca-ribe, una in Putomayo. É un triangolo di controllo della Colombia. La lotta al narcotraffico è una bugia, perchè gli USA sono il paese in cui più si consuma droga … e non fanno le fumigazioni ne a Washington ne a New York, le fanno in Colombia. Quello che veramente vogliono è radicarsi in questa regione, dove sono forti i processi di insurrezione. Il movimento indigeno e i movimenti sociali in Ecuador sono riusciti a fermare piani e politiche neoliberiste che non sono stati fermati in altri paesi, come in Brasile, dove ci sono pure dei movimenti mol-to forti. Siamo in una lotta costante contro le privatizzazioni. Non sono riusciti a fermarci in nessun modo, e una presenza anche militare è fondamentale per gli USA., per un controllo maggiore. Inoltre Manta è una zona di commercio molto grande e importante, è zona di porto, che è un nodo strategico per l’implementazione dell’ALCA. Un controllo militare nella regione va insieme al controllo economico e politico. Senza dimenticare delle altre basi militari e centri in America Latina: nel nord dell’Argentina, in Brasile, in Perù … un’altra base è in negoziazione nel confine tra Ecuador e Colombia … è un controllo militare funzionale che permette agli USA di entrare dove vogliono.

Che cos’è per voi la disobbedienza civile?

Per noi la disobbedienza civile significa costruire campagne di boicottaggio. Ab-biamo fatto campagne contro i Mc Donald, azioni di disturbo. Negli ultimi mesi stiamo lottando contro l’OCP (Oleoducto de Crudos Pesados – Oleodotto del pe-trolio grezzo), facendo delle azioni di disturbo, mettendoci davanti alle macchi-ne. Il nostro contributo è di appoggio e aiuto logistico ai compagni che portano avanti questa lotta. Vediamo insieme come agire, facendo dei laboratori anche pratici su come comportarci di fronte alla polizia, come praticare delle forme di lotta nonviolente ma determinate, come creare degli accampamenti sul luogo dei lavori.

Cosa pensate e come seguite l’evoluzione dei movimenti occidentali, da Seattle in poi?

Per il febbraio 2002 stiamo preparando qui in Ecuador una grande iniziativa con-tro il Plan Colombia e l’ALCA, l’Accordo di Libero Commercio delle Americhe, che è una estensione a tutta l’America Latina del Nafta, che riguardava solo il nord-america (USA, Canada, Mexico). In quella data ci sarà la riunione di tutti i paesi del trattato, di cui l’Ecuador ha ora la presidenza fino al 2005. É una presidenza strategica, per la posizione geografica del nostro paese ma anche per il suo faci-le controllo. L’incontro che faremo vuole proiettarci nella costruzione di un mo-vimento urbano, che raccolga le tensioni non indigene dell’intera regione.
Quello che è avvenuto in Occidente è molto interessante per noi, perchè da qui sembrerebbe che in Occidente ci siano dei livelli di vita più alti, e il fatto che ci siano persone e movimenti che lottano contro le logiche neoliberali … anche noi da anni portiamo avanti lotte contro le privatizzaizioni, lo sfruttamento del terri-torio … il 2002 sarà un fermento di iniziative, di carovane, di accompagnamento delle comunità indigene alla frontiera con la Colombia … speriamo che ci siano anche i movimenti europei…

nonluoghi

nonluoghi

Questo sito nacque alla fine del 1999 con l'obiettivo di offrire un contributo alla riflessione sulla crisi della democrazia rappresentativa e sul ruolo dei mass media nei processi di emancipazione culturale, economica e sociale. Per alcuni anni Nonluoghi è stato anche una piccola casa editrice sulla cui attività, conclusasi nel 2006, si trovano informazioni e materiali in queste pagine Web.

More Posts

ARTICOLI CORRELATI