Si apre una nuova stagione venatoria, un’attività che in Italia coinvolge oggi circa 750 mila persone (trent’anni fa erano un milione di più). Fra i cacciatori oltre all’età media cresce l’idea di accreditarsi come elemento «naturale» nelle politiche di gestione del territorio e di tutela del patrimonio faunistico (innumerevoli le dispute con gli ecologisti a proposito dei piani di selezione, specie per gli ungulati come cervi e caprioli).
L’approccio non sembra tuttavia trovare particolare apprezzamento nella generalità dell’opinione pubblica, se si considera che i sondaggi degli ultimi anni indicano una tendenza favorevole all’inasprimento della normativa e finanche al blocco dell’attività venatoria affidata a privati cittadini. Di certo una reazione emotiva di fronte all’immagine di un animale abbattuto a colpi di fucile. Ma se ne può desumere, leggendo il caustico pamphlet di Filippo Schillaci «Caccia all’uomo» (Stampa Alternativa, 156 pagine, 10 euro), anche che la «gente della strada» forse è più preoccupata degli effetti collaterali di quanto non lo siano i cacciatori stessi e le autorità amministrative. È proprio sulla pericolosità di questa attività, per chi la esercita e soprattutto per gli altri, che si concentra l’autore sottolineando che in Italia «la caccia uccide proporzionalmente più degli incidenti sul lavoro: nel primo caso l’esito mortale, nel 2001, riguardava il 41% del totale, contro lo 0,14% nel secondo». Schillaci, nel suo elenco di lutti nei boschi, ricorda gli impressionanti dati statistici nazionali: nel 2002 si contarono 47 morti e almeno una settantina di feriti, per lo più gravi.
Un bilancio da brividi che si ripete più o meno fedelmente ogni anno. Le vittime altri cacciatori, colpiti da compagni di battuta che li scambiano per selvaggina e sparano alla cieca, ma anche ignari cercatori di funghi o escursionisti cui di fatto è impedita la libertà di movimento (sono in pericolo o comunque sempre comprensibilmente in ansia). In queste pagine accorate, l’autore lancia un appello: «Ci siamo resi veramente conto di cos’è la caccia oggi? Forse è il caso di ripartire da zero. La caccia consiste nel libero uso di armi da fuoco da parte di dilettanti in luoghi non protetti. Luoghi in cui mentre il “cacciatore” spara, nulla vieta che qualcun altro stia transitando o sostando. Perché è nel giardino di casa sua, perché è un agricoltore che sta lavorando nel suo campo (la legge assicura ai cacciatori libero accesso ai poderi non recintati, ndr), perché ha deciso che è una giornata così bella da meritare una passeggiata in un bosco». Si tratta, osserva Schillaci criticando i legislatori, di presenze evidentemente fra loro «incompatibili» ma entrambe, al momento, hanno pieno diritto di esistere. Il risultato è il lungo elenco di lutti che riempie le prime pagine del libro; poi si passa ad analizzare il quadro normativo e a esaminare i riflessi della caccia su altre attività umane, per esempio l’agricoltura (qui si sfata e capovolge il «mito» del cacciatore «amico» del contadino).
C’è anche un capitolo («O vacanze o fucilate») su possibili effetti di deterrenza sul turismo, la cui lettura può risultare particolarmente interessante per gli operatori del settore.
Un esempio è quello degli agriturismi e dei ristoranti in campagna che, secondo l’autore, sono gravemente penalizzati dalla presenza di cacciatori nel territorio (non basta certo la «distanza di sicurezza» di 150 metri dalle pareti delle abitazioni).
L’unica «arma» per difendersi sul piano normativo è la facoltà che la legge assegna ai sindaci di adottare provvedimenti per la sicurezza dei cittadini.
Generalmente nei municipi non ci si fa carico dei pericoli legati alla caccia, tuttavia c’è qualche episodio in controtendenza: «Il sindaco di Sauris, in Friuli, ha fatto vietare la caccia al capriolo sul territorio comunale, per tutelare l’incolumità dei turisti». Ma Schillaci invita pure a riflettere su tutti gli altri casi in cui l’attività venatoria mette in fuga i turisti arrecando danni economici alle comunità locali. Intanto, utile a tutti, non solo ai turisti, sarebbe quantomeno una segnaletica stradale che avverta dei rischi che si corrono durante la stagione di caccia e indichi i giorni di silenzio venatorio (martedì e venerdì) in cui escursionisti, contadini e quant’altri possono invece muoversi con serenità. Però, il sabato e la domenica restano a completa disposizione della minoranza armata, che non è romanticamente in cammino sulle crode, ma mimetizzata nella boscaglia, anche vicino ai paesi, immobile dentro capanni o su altane da cui spunta la sola canna del fucile.
Schillaci nota come sia ristretto il margine delle misure di protezione e di prevenzione richiamandosi anche ai contenuti di un manuale edito trent’anni fa dalla Federazione italiana della caccia in cui sostanzialmente il nucleo principale, quanto a sicurezza, riguardava il fattore umano e la necessità di massima prudenza prima di premere il grilletto. Un altro fronte da rivedere è la vigilanza, che è affidata anche ai cacciatori medesimi: «Controllati e controllori non possono coincidere». In definitiva, per prevenire realmente i rischi e riequilibrare il quadro generale, secondo l’autore servono radicali riforme legislative, un colpo di reni della società e della classe dirigente affinché il diritto dei cittadini all’incolumità fisica e alla fruizione del territorio non sia subordinato a quello di chi ha il passatempo di cacciare animali.