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Finanza, una crisi divorante

[ dal settimanale anarchico Umanità Nova ]
Renato Strumia
La caduta del dollaro non accenna ad arrestarsi e con essa cresce la consapevolezza sempre più diffusa che siamo dentro una crisi finanziaria di dimensioni inusuali. Nelle ultime settimane il biglietto verde ha sfondato la soglia di 1,50 rispetto all’euro e si avvia perentoriamente verso abissi sempre più profondi: alcuni analisti vedono 1,60 come prossima, inevitabile tappa. L’accelerazione ha preso velocità dopo una audizione in cui il governatore della Fed, Ben Bernanke, ha ammesso di considerare l’economia ormai in recessione, ha preannunciato nuovi tagli dei tassi per la prossima riunione del 18 marzo e non ha escluso la possibilità di fallimenti bancari legati alla crisi dei mutui. L’ondata di vendite ha travolto il dollaro, calato ormai del 30% in soli due anni, ma non ha risparmiato neanche la sterlina, valuta simbolo di quella finanza londinese così simile al modello americano, nei suoi legami con l’immobiliare, la speculazione e l’uso dei derivati, in un contesto di generale deregulation. La sterlina ha perso il 14% dal luglio scorso, la Bank of England si è coperta di ridicolo nel minimizzare i rischi e poi dover intervenire per salvare dal fallimento la Northern Rock, che alla fine è stata statalizzata. È andato in crisi il modello di sviluppo basato sulla finanziarizzazione spinta, sull’espansione dei consumi garantita dai debiti e sull’economia di carta. Sono ritornati prepotentemente alla ribalta i paesi e i settori che producono merci, materie prime, valori tangibili. L’oro sta ritornando verso massimi storici che non toccava da 30 anni. Il petrolio ha superato di slancio la soglia dei 100 dollari al barile e l’Opec sta pensando ad un taglio della produzione per mantenere questo livello di prezzo per un lungo periodo di tempo, anche quando sarà evidente il rallentamento dell’economia e la caduta della domanda. Sembra cambiare la geografia dei poteri a livello mondiale, con un processo molto più rapido di quanto fosse, fino a pochi mesi fa, immaginabile.
Partiamo dalla crisi del dollaro e dalla caduta delle borse, che in questi primi due mesi del 2008 hanno assunto proporzioni impressionanti. L’indebolimento del dollaro esprime tutta la debolezza dell’economia Usa, minata da anni di crescita drogata ed implosa con la crisi dei mutui e la caduta dei prezzi immobiliari. Esprime però anche la perdita di capacità di controllo, da parte degli Usa, sul sistema finanziario globale e l’emergere di rivali che si contrappongono all’egemonia del dollaro. La Banca Centrale Europea ha una linea diversa di gestione della crisi e ne approfitta per imporre l’euro come nuova divisa forte, candidandolo a diventare la principale valuta di scambio, in cui fatturare le merci a livello mondiale. Persegue questa strategia nel modo più semplice che si possa immaginare: stando ferma. Dall’estate scorsa la Fed ha cercato di fermare la crisi abbassando i tassi sui Fed Funds, portati in pochi mesi dal 5,25% al 3,50%, e c’è chi ipotizza un abbassamento al 3% (o addirittura al 2,75%) già il 18 marzo. La Bce si è invede limitata ad interrompere, nel giugno scorso, il processo di rialzo dei tassi (ora al 4%) e non ha più agito sulla leva monetaria, graduando le sue dichiarazioni in modo molto prudente e prevedibile, minacciando nuovi rialzi in casi di ripresa dell’inflazione e imponendo in questo modo rinnovi contrattuali molto moderati sul piano salariale. Contemporaneamente ha gestito la crisi finanziaria immettendo massicce dosi di liquidità sul mercato interbancario, per consentire al sistema un funzionamento regolare, pur in condizioni di difficoltà anomale e straordinarie. L’effetto di questo modo di agire è sotto gli occhi di tutti: la Fed appare come una banca centrale allo sbando, in balia di eventi che non riesce a controllare, costretta a tamponare come può gli errori e gli eccessi del passato, in particolare la politica troppo rilassata che ha inondato di liquidità un sistema che ne ha approfittato per creare bolle speculative insostenibili. Lo sgonfiamento delle bolle immobiliari, dei mutui subprime e dei derivati ad esso collegati sta minando la stabilità finanziaria delle principali banche. La manovra aggressiva di riduzione dei tassi è mirata a salvare il mondo del business, in particolare la borsa e le banche, ma rischia di svalutare eccessivamente il dollaro e fare impennare l’inflazione con l’aumento dei prezzi dei beni importati, mentre il sollievo sulla bilancia commerciale resta limitato. Al contrario, la Bce appare come una banca centrale affidabile, concentrata soltanto sull’obiettivo della stabilità monetaria e della vigilanza sui prezzi, insensibile al crollo delle borse e dell’export: insomma una custode integerrima della stabilità dell’euro, valuta che diventa attraente sia per detenervi gli investimenti, sia da usare come valuta di scambio e riserva ufficiale. La competizione tra dollaro ed euro non potrebbe essere più palese.
Il dollaro sta persino sostituendo lo yen come valuta per il carry-trade: ora gli hedge-funds si indebitano in dollari (a tassi bassissimi), senza neanche correre il rischio di vederselo rivalutare, e investono il ricavato in valute che rendono di più (l’euro, il dollaro australiano, divise esotiche, la stessa sterlina). La capacità degli Usa di varare una manovra coordinata tra banche centrali per agire sui tassi è ridotta a nulla: non è pensabile una replica degli accordi del Plaza (1985) e del Louvre (1987) per politiche valutarie concertate. La diagnosi sulla crisi è diversa, così come le strategie di risposta e gli interessi contrapposti che si vogliono difendere o affermare. Del resto, anche a prescindere dalla mancanza di volontà politica nel predisporre una cintura di salvataggio per il dollaro, esistono dubbi sulla reale efficacia di interventi coordinati. La forza e le dimensioni dei derivati finanziari sono così ampie che un intervento tradizionale che coinvolga i soliti noti non avrebbe esiti scontati: di recente il Segretario al Tesoro Paulson ha ammesso l’impotenza del Gruppo dei Sette ed ha parlato della necessità di un Gruppo dei Venti, cioè dell’inclusione, in qualunque intervento organizzato, di tutta una serie di paesi produttori di materie prime e detentori di massicce riserve valutarie (la nuova “domanda pagante” del capitalismo mondiale).
Basta pensare a come se la passano le principali banche del mondo: la Citibank è stata salvata dall’Abu Dhabi Investment Fund, mentre la settimana scorsa la blasonata Ubs, prima banca svizzera e terza banca europea, ha dovuto svalutare per 13 miliardi di euro e varare un aumento di capitale che vedrà come principali attori del salvataggio fondi di Singapore e del Qatar. Negli Usa si rischia di vedere fallire importanti istituzioni operanti nel settore dei mutui, ma la paura vera è che questa spirale perversa finisca per coinvolgere pesantemente anche le principali banche commerciali e le assicurazioni che sono intervenute nella riassicurazione dei mutui e dei crediti. Una delle principali cause del crollo borsistico di fine febbraio è stata la svalutazione comunicata al mercato da AIG, la principale compagnia assicurativa del mondo, attiva proprio in questo settore.
Che la crisi non sia ancora finita è evidente non solo dall’avvitamento al ribasso delle borse, ma anche dalle stime sempre crescenti sulle svalutazioni ancora implicite nei bilanci bancari: c’è chi parla di 600 miliardi di dollari che andranno persi, mentre sinora le banche ne hanno “comunicati” solo 160. Mancano ancora all’appello 440 miliardi di dollari di crediti inesigibili: chi li avrà in portafoglio e quando lo renderà noto? L’andamento dei mercati, in questi giorni, è piuttosto simile alla roulette russa: chi si sparerà oggi un colpo nella nuca, annunciando i propri dati di bilancio?
L’efficacia degli strumenti adottati sinora dalla più aggressiva delle autorità monetaria, cioè la Fed, è del resto alquanto circoscritta. L’abbassamento dei tassi si propaga all’economia reale in modo lento e vischioso, se è vero che tuttora i tassi sui mutui sono ancora più alti di quando è partito l’intervento. L’arrivo nella cassette delle lettere dei 160 miliardi di dollari di stimolo fiscale, sotto forma di assegni da spendere, è previsto per la seconda metà di maggio, ma si calcola che almeno la metà verrà utilizzata per fare fronte al rincaro delle rate di mutuo, quindi si tradurrà in una diminuzione delle insolvenze, a tutto vantaggio, ancora una volta, di un sistema bancario boccheggiante.
Siamo quindi dentro uno scenario drammatico, che rischia di prolungarsi per un certo numero di mesi, e che non presenta vie di uscita programmabili. Il pessimismo è ai livelli massimi e qualche economista, anche famoso, è arrivato a vaticinare un percorso in 12 stadi che porterebbe dritto dritto ad una catastrofe finanziaria di proporzioni epocali. Altri cercano di fare ricorso all’esperienza storica e paragonano la fase attuale al 1990, quando l’evaporazione della bolla giapponese, concretizzatasi nel crollo congiunto del Nikkei e dello yen, finì per trasferire sulla piazza americana una enorme massa di capitali, che pose le basi per il boom di Wall Street e l’inizio dell’era clintoniana durata fino al 2000. Può darsi che dalle macerie statunitensi si levino nuoci cicli egemonici, che l’Europa diventi per un po’ la nuova locomotiva mondiale, che la dorsale del Pacifico assuma definitivamente il ruolo di “fabbrica del mondo” e sviluppi contemporaneamente un modello autocentrato. Può darsi persino che gli Usa risorgano dalle proprie ceneri, dopo una salutare e profonda recessione, che svalorizzi in modo adeguato il capitale fisso, a partire da quel 30% di valore globale dell’immobiliare considerato eccedente.
Qualunque scenario si verifichi, dobbiamo aspettarci un rincrudimento della competizione globale e una pressione verso il taglio dei sistemi di sicurezza sociale, perchè il capitale finanziario in difficoltà cerca di scaricare sulle classi subalterne i costi del proprio salvataggio e il prezzo della propria sopravvivenza.

[ tratto dal settimanale anarchico Umanità Nova ], n. 9 del 9 marzo 2008, anno 88.

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