[ dal quotidiano Il Manifesto – www.ilmanifesto.it ]
Tra le clausole più controverse contenute nel Protocollo governo-sindacati siglato il 23 luglio u.s. spicca quella (par. 5, «Competitività») che testualmente impegna il governo ad abrogare alcuni commi della legge n. 549/95, che hanno introdotto un contributo aggiuntivo sulla retribuzione relativa alle ore di straordinario, con il solo obiettivo di renderne meno conveniente l’utilizzo. In particolare, ai sensi dell’art. 2, co. 19, l. 549 (che ora si vorrebbe abrogare), l’esecuzione del lavoro straordinario comporta, a carico delle imprese con più di 15 addetti, il versamento, a favore dell’Inps, di un contributo pari al 5% della retribuzione relativa alle ore di straordinario; per le imprese industriali tale misura è elevata al 10% per le ore eccedenti le 44 ore e al 15%, indipendentemente dal numero dei lavoratori occupati, per quelle eccedenti le 48.
In attuazione di questa norma, è stato predisposto dal ministero un elenco nutrito di occupazioni esonerate dal contributo addizionale (occupazioni discontinue, ecc); a ciò si aggiunga che non è facile raggiungere la soglia di 40 ore oltre la quale scatta la penalizzazione, essendo sicuramente esclusi dal computo le assenze per malattia, i periodi di non lavoro che siano concordati in sede negoziale con la finalità di ridurre l’orario (es., sotto forma di ferie aggiuntive o permessi) o tutelare la salute (pausa per refezione, riposi intermedi).
La penalizzazione contributiva è poi esclusa quando «lo svolgimento di lavoro straordinario crei in capo al lavoratore … il diritto a una corrispondente riduzione dell’orario normale di lavoro e tale riduzione venga effettivamente goduta». Le modalità delle riduzioni possono essere le più varie: permessi individuali finalizzati a ridurre l’orario, crediti-ore, ecc.
L’abrogazione dell’art. 2, co. 19, avrebbe sicuramente le seguenti conseguenze: renderebbe ancor più conveniente il ricorso alle ore di straordinario; parificherebbe le piccole imprese industriali a quelle commerciali (totalmente esenti dal prelievo); eliminerebbe un incentivo alle imprese (soprattutto quelle piccole, dove la riduzione dell’orario effettivo appare da sempre problematica) ad offrire la possibilità di compensare le ore di straordinario attraverso permessi giornalieri retribuiti (banca delle ore).
Una manovra così «minimalista» sugli orari non ce l’aspettavamo francamente, soprattutto dopo l’onda del governo di centro-destra che ha partorito un vero e proprio Testo unico in materia nel 2003 (d.lgs. 66).
Uno dei regali preparati per i lavoratori dal Testo unico è stato la cancellazione del principio del limite giornaliero dell’orario di lavoro. Il governo di centro-destra ha accreditato l’idea che si potesse abrogare la normativa in materia (di persistente operatività, secondo la giurisprudenza) sol perché la direttiva comunitaria 2003/88 parla di limite settimanale dell’orario e dell’obbligo di riconoscere un periodo minimo di riposo di 11 ore consecutive «nel corso di ogni periodo di 24 ore». Quest’ultima norma, che indica soltanto ragionevolmente l’intervallo minimo fra due turni di lavoro, è stata intesa come autorizzazione implicita a superare le regole (risalenti al ’23) che prevedevano, nel nostro ordinamento, l’esistenza di una durata massima ordinaria della giornata lavorativa di 8 ore (più 2 di eventuale straordinario volontario): senza neppure il coraggio di dire apertamente che la conseguenza della «riforma» del 2003 è stata quella di legittimare, in singole giornate, la possibilità di lavorare sino a 13 ore, nel contesto di settimane lavorative di 78 ore (al lordo delle pause). Né si dica che, comunque, l’orario settimanale non potrebbe superare le 48 ore (art. 4, d.lgs. 66). Si tratta infatti di un valore medio, calcolabile su periodi molto ampi, addirittura annuali.
Certo, la direttiva comunitaria sull’orario contiene una «clausola di non regresso», a fronte della quale dovrebbe ritenersi esclusa la possibilità per il legislatore – in occasione della trasposizione della direttiva – di rivedere al ribasso le regole nazionali già esistenti in materia (in tal senso si sono pronunciati a fine 2005 i giudici comunitari). Ci sarebbe poi un ostacolo aggiuntivo: il principio del limite giornaliero dell’orario di lavoro ha un solidissimo fondamento nella Costituzione.
Sottolineo un aspetto che oggi può apparire strano. Sui temi dell’orario di lavoro grava un imbarazzante silenzio. Eppure proprio sul controllo dei tempi si agitano i negoziati per i rinnovi contrattuali. E’ evidente la connessione tra organizzazione produttiva e orario di lavoro, nel senso che è solo con il ricorso alla galassia di rapporti precari che possono essere esaudite esigenze aziendali il cui soddisfacimento sarebbe comunque aldilà di una flessibilità inevitabilmente regolamentata dell’orario di lavoro nel quadro dello schema del rapporto a tempo indeterminato.
La soppressione col Testo unico del 2003 di tutti i limiti all’orario giornaliero condivideva con la coeva legislazione sul mercato del lavoro il fatto di tendere ad uno scopo: ridurre la capacità di azione collettiva dei lavoratori dipendenti (quello che gli inglesi chiamano il «bargaining power» dei sindacati) e fare in modo che la determinazione dei redditi da lavoro dipenda in maniera sempre più marcata da performance individuali.
C’è un modo per ridistribuire potere, tra gli altri, che può sembrare banale e antico ma forse ha ancora una sua efficacia: ripristinare, nell’ambito di un disegno legislativo più ampio (che vada oltre l’abrogazione di qualche comma di una legge), un principio – che alcuni pensano superato – come quello di una durata contenuta della prestazione giornaliera, vista nella sua ineludibile connessione con la tutela della salute e della capacità di azione collettiva dei lavoratori dipendenti.
* Università di Ancona
[ Tratto dal quotidiano Il Manifesto del 12 ottobre 2007 – www.ilmanifesto.it ]