Giovedì 19 aprile 2007. Un’ovazione si leva dalla sterminata platea dei delegati al congresso del principale partito della sinistra.
Il leader carismatico ha appena concluso l’intervento di apertura ed è stato sommerso da applausi entusiastici. Particolarmente calorosa l’accoglienza nei settori occupati dagli esponenti del movimento giovanile di questa forza tradizionale che oggi siede nel governo del Paese. L’appuntamento congressuale era molto atteso per le novità che portava in grembo; pochi, tuttavia, anche fra i sodali del numero uno, si attendevano parole di simile determinazione, lucidità, concretezza. Un discorso breve e chiaro: «Ci assumiamo l’impegno a ridurre del 30%, entro il 2020, le nostre emissioni di gas serra. E per il 2050 dovremo tagliare l’equivalente del 100% del nostro contributo all’inquinamento che sta sconvolgendo il clima e la vita sulla Terra». Battimano fragorosi e cori di giubilo.
L’emergenza ecologica è stata il filo conduttore della giornata di apertura del congresso nazionale e resterà il tema di fondo dell’assise politica di questa forza che ha le radici nella storia del movimento operaio. Insomma, Al Gore, presidente americano defraudato, non è solo in questa visione dell’ordine delle priorità.
Gli alleati di governo plaudono. Sorridono i sindacati, ma anche i rappresentanti degli industriali («è fondamentale avere obiettivi precisi per mettere in atto i processi di conversione e adeguamento», dice uno di loro). Idem, ovviamente, le organizzazioni ambientaliste, con l’eccezione di chi non si fida troppo dei politici e invita il leader a precisare come si intenda operare il taglio delle emissioni. Si teme che il grosso dell’operazione sia solo «nominale», derivante da acquisti nel mercato internazionale delle quote di inquinamento; gli ecologisti chiedono, al contrario, che la riduzione sia frutto di interventi strutturali sull’industria, sull’energia, sui trasporti, sulla mobilità, sull’edilizia. A tarda sera, smaltita la sbornia degli applausi, il capo in persona rassicura gli scettici: nessuna intenzione di cavarcela aprendo il portafogli alla Borsa mondiale dei gas serra, massima risolutezza nell’introdurre anche correttivi radicali nella nostra società.
Una risposta prevedibile (quanto credibile, si vedrà), venuta da un leader che poco prima si era accalorato per spiegare ai delegati che «l’incubo da combattere per i nostri padri politici era il rischio nucleare, l’equilibrio del terrore con i suoi possibili esiti letali; per la nostra generazione quell’incubo è la crisi ecologica che mette in pericolo la vita sul pianeta».
Mentre quella platea si surriscaldava all’idea di raffreddare l’atmosfera terrestre, altrove un altro leader della principale formazione nazionale della sinistra srotolava i fogli del suo sterminato discorso. A un paio di migliaio di chilometri di distanza da Oslo, Piero Fassino intratteneva per un paio d’ore la platea fiorentina dell’ultimo congresso dei Ds. Un un intervento denso di frasi pregnanti, destinate a scolpire gli annali dell’umanità. Tipo: «Il futuro nostro e dei nostri figli dipende da noi, dalla storia che sapremo narrare, ma soprattutto dalla storia che sapremo scrivere». Oppure: «E che al Partito democratico deve essere finalizzata ogni nostra iniziativa, a partire dalla prossima stagione delle Feste de L’Unità che dovranno essere le “Feste della doppia U: Unità e Ulivo”».
L’intervento, fitto di riferimenti seri al raccapricciante dibattito politico del cortile italiano e alla sua paludosa classe dirigente che replica se stessa (fumose analisi del quadro partitico, alchimie dell’ennesima riforma elettorale e altre manovre di piccolo cabotaggio), ha riservato circa dieci righe (una trentina di secondi) alla questione ecologica, sorvolando naturalmente sui suoi riflessi economici e sociali.
Sorge spontanea una domanda: sarà anche per questo che il partito laburista norvegese di Jens Stoltenberg veleggia al 33% dei consensi e i Ds in via di scioglimento di Piero Fassino ne raggiungono a malapena la metà?
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