[ dal quotidiano Liberazione www.liberazione.it ]
Forse non è stato solo teatrino. Perché la giornata di ieri, la personale scissione a destra di Nicola Rossi dai diesse ma soprattutto la sterminata serie di dichiarazioni e commenti che l’hanno accompagnata, forse un po’ aiuta a capire cosa si sta agitando nel complicatissimo mondo della sinistra moderata. E della politica. Anche se dalle paginate intere dei giornali dedicate al tema emerge un dato che ad una prima lettura può sembrare grottesco. Questo: Nicola Rossi, che se ne va sbattendo la porta, e Piero Fassino, che quella porta se l’è vista sbattere in faccia, la pensano allo stesso modo. Identico. Tutti e due vogliono che i ”privati” – altro sinonimo che, esattamente come la parola riformismo, serve a mascherare quello a cui ci si riferisce davvero: le imprese, le grandi imprese in questo caso – ; vogliono che i privati, si diceva, e il mercato ”governino” ciò che resta del welfare. A cominciare dalle pensioni. I loro progetti sono identici. Perfettamente sovrapponibili.
La differenza è apparentemente minima: uno, quello che se n’è andato, dice che queste cose vanno fatte subito. L’altro, quello che la porta l’ha ricevuta in faccia, dice che bisogna aspettare. Aspettare Rutelli, Parisi, Monaco e via via tutti gli altri. Aspettare un po’ di tempo, per fare esattamente le stesse cose. E allora? Dov’è la querelle? Forse sta proprio in quell’elemento che fino a venti anni fa avrebbe tenuto insieme chi aveva lo stesso disegno – di destra, in questo caso di destra – ma differiva sui tempi per realizzarlo: il partito. I partiti. La vicenda di Nicola Rossi, insomma, ci racconta innanzitutto di cosa sono diventate, oggi, le formazioni che sono ancora maggioritarie negli schieramenti che competono coi conservatori. Con le destre. Luoghi oligarchici, posti dove non si discute, neanche se si ha la stessa strategia.
Qualcuno ha detto, proprio in queste ore, che la vicenda racconta di un partito che da ”partito degli iscritti” è di- F ventato ”partito degli eletti”. Forse esagera ma Nicola Rossi, parlando di metodo, proprio questo ha lamentato. Partito burocratico, partito elitario. Che si appresta a formare un nuovo partito, ugualmente burocratico, elitario (questo ha scritto ieri Caldarola sul ”Riformista”). Certo, in questo caso, nel caso di Rossi, l’atto di denuncia s’è accompagnato ad una scelta che non fa fare un passo in avanti al dramma del partito, del suo ex partito. Se n’è andato. Come si usa a fare in una stanza d’albergo: si entra, si esce, si va altrove. Ma questo è un altro discorso.
Resta la crisi del partito. Di tutti i partiti riformisti. Che la ”filosofia” di Nicola Rossi l’hanno introiettata da tempo. Da Blair ai socialdemocratici nell’esecutivo Merkel. Con piccoli, piccolissimi tentativi di attenuazione. La destra chiede l’abolizione delle indennità di disoccupazione e i socialdemocratici dicono che va bene, ma almeno la si lasci agli indigenti. La destra chiede la privatizzazione dei servizi pubblici, i riformisti dicono che va bene, ma, almeno, si faccia una gara di appalto regolare. Tutto qui. Incapaci di scegliere. O meglio: incapaci di scegliere subito quel che vorrebbero, vincolati come sono, ancora, dal loro blocco sociale. Dai rischi che comporterebbe la rottura col loro blocco sociale. Da qui, la loro paralisi. Da qui, la loro incapacità a produrre idee, progetti (che è esattamente la critica scritta da Rossi nella lettera a Fassino). Per capire, e per tornare all’Italia: Fassino è stato completamente d’accordo con Padoa Schioppa nel dare la priorità ai tagli. E’ stato completamente d’accordo a dare valore – quasi un valore etico – al riequilibrio dei conti. Poi, dentro quei tagli, hanno accettato modifiche, aggiustamenti.
Hanno accettato richieste e proteste. Nicola Rossi sui tagli la pensa allo stesso, identico modo. Li vuole, li chiede, ne fa una filosofia politica. In più, vorrebbe che quei tagli fossero anticipatori di altri. E’ quello che ormai si definisce ”inserire un provvedimento in un progetto”. Il suo è quello di redistribuire le risorse a favore delle imprese. A favore dei settori dinamici, li chiama, li chiamano così. Lui sceglie, Fassino ha già scelto ma ancora non ha il coraggio di dirlo. Rossi, insomma, a suo modo è più politico del suo (ex) segretario: lui ha in mente un blocco sociale, settori, interessi da difendere. E se ne fa portavoce in politica. Se si vuole, un po’ come ha fatto nella scorsa stagione Berlusconi. Che ormai – passati i furori girotondini – di tutto può essere accusato meno che di essere un ”antipolitico”. Lui, il leader della destra, il suo blocco sociale l’aveva portato alla guida del paese. E ha governato, legiferato, risolto questioni in suo nome.
Anche i diesse – non tutti, naturalmente – in cuor loro avrebbero già scelto. Starebbero con le imprese. Ma non se la sentono ancora di annunciarlo. Mettendo nel conto anche la perdita di qualche professore, di qualche economista moderato, moderatissimo. Però a conti fatti, l’”antipolitico”di Stefano Bocconetti orse non è stato solo teatrino. Perché la giornata di ieri, la personale scissione a destra di Nicola Rossi dai diesse ma soprattutto la sterminata serie di dichiarazioni e commenti che l’hanno accompagnata, forse un po’ aiuta a capire cosa si sta agitando nel complicatissimo mondo della sinistra moderata. E della politica. Anche se dalle paginate intere dei giornali dedicate al tema emerge un dato che ad una prima lettura può sembrare grottesco. Questo: Nicola Rossi, che se ne va sbattendo la porta, e Piero Fassino, che quella porta se l’è vista sbattere in faccia, la pensano allo stesso modo. Identico. Tutti e due vogliono che i ”privati” – altro sinonimo che, esattamente come la parola riformismo, serve a mascherare quello a cui ci si riferisce davvero: le imprese, le grandi imprese in questo caso – ;vogliono che i privati, si diceva, e il mercato ”governino” ciò che resta del welfare. A cominciare dalle pensioni. I loro progetti sono identici. Perfettamente sovrapponibili. La differenza è apparentemente minima: uno, quello che se n’è andato, dice che queste cose vanno fatte subito. L’altro, quello che la porta l’ha ricevuta in faccia, dice che bisogna aspettare. Aspettare Rutelli, Parisi, Monaco e via via tutti gli altri. Aspettare un po’ di tempo, per fare esattamente le stesse cose. E allora? Dov’è la querelle? Forse sta proprio in quell’elemento che fino a venti anni fa avrebbe tenuto insieme chi aveva lo stesso disegno – di destra, in questo caso di destra – ma differiva sui tempi per realizzarlo: il partito. I partiti.
La vicenda di Nicola Rossi, insomma, ci racconta innanzitutto di cosa sono diventate, oggi, le formazioni che sono ancora maggioritarie negli schieramenti che competono coi conservatori. Con le destre. Luoghi oligarchici, posti dove non si discute, neanche se si ha la stessa strategia. Qualcuno ha detto, proprio in queste ore, che la vicenda racconta di un partito che da ”partito degli iscritti” è di- F ventato ”partito degli eletti”. Forse esagera ma Nicola Rossi, parlando di metodo, proprio questo ha lamentato. Partito burocratico, partito elitario. Che si appresta a formare un nuovo partito, ugualmente burocratico, elitario (questo ha scritto ieri Caldarola sul ”Riformista”). Certo, in questo caso, nel caso di Rossi, l’atto di denuncia s’è accompagnato ad una scelta che non fa fare un passo in avanti al dramma del partito, del suo ex partito. Se n’è andato. Come si usa a fare in una stanza d’albergo: si entra, si esce, si va altrove.
Ma questo è un altro discorso. Resta la crisi del partito. Di tutti i partiti riformisti. Che la ”filosofia” di Nicola Rossi l’hanno introiettata da tempo. Da Blair ai socialdemocratici nell’esecutivo Merkel. Con piccoli, piccolissimi tentativi di attenuazione. La destra chiede l’abolizione delle indennità di disoccupazione e i socialdemocratici dicono che va bene, ma almeno la si lasci agli indigenti. La destra chiede la privatizzazione dei servizi pubblici, i riformisti dicono che va bene, ma, almeno, si faccia una gara di appalto regolare. Tutto qui. Incapaci di scegliere. O meglio: incapaci di scegliere subito quel che vorrebbero, vincolati come sono, ancora, dal loro blocco sociale. Dai rischi che comporterebbe la rottura col loro blocco sociale. Da qui, la loro paralisi. Da qui, la loro incapacità a produrre idee, progetti (che è esattamente la critica scritta da Rossi nella lettera a Fassino).
Per capire, e per tornare all’Italia: Fassino è stato completamente d’accordo con Padoa Schioppa nel dare la priorità ai tagli. E’ stato completamente d’accordo a dare valore – quasi un valore etico – al riequilibrio dei conti. Poi, dentro quei tagli, hanno accettato modifiche, aggiustamenti. Hanno accettato richieste e proteste. Nicola Rossi sui tagli la pensa allo stesso, identico modo. Li vuole, li chiede, ne fa una filosofia politica. In più, vorrebbe che quei tagli fossero anticipatori di altri. E’ quello che ormai si definisce ”inserire un provvedimento in un progetto”. Il suo è quello di redistribuire le risorse a favore delle imprese. A favore dei settori dinamici, li chiama, li chiamano così. Lui sceglie, Fassino ha già scelto ma ancora non ha il coraggio di dirlo.
Rossi, insomma, a suo modo è più politico del suo (ex) segretario: lui ha in mente un blocco sociale, settori, interessi da difendere. E se ne fa portavoce in politica. Se si vuole, un po’ come ha fatto nella scorsa stagione Berlusconi. Che ormai – passati i furori girotondini – di tutto può essere accusato meno che di essere un ”antipolitico”. Lui, il leader della destra, il suo blocco sociale l’aveva portato alla guida del paese. E ha governato, legiferato, risolto questioni in suo nome. Anche i diesse – non tutti, naturalmente – in cuor loro avrebbero già scelto. Starebbero con le imprese. Ma non se la sentono ancora di annunciarlo.
Mettendo nel conto anche la perdita di qualche professore, di qualche economista moderato, moderatissimo. Però a conti fatti, l’”antipolitico” non è Nicola Rossi.
[ dal quotidiano Liberazione www.liberazione.it del 5 gennaio 2007]