[ da www.carta.org ]
Una vecchia e geniale vignetta di Massimo Bucchi, ai tempi della guerra del Kosovo, mostrava un interruttore senza scampo: si poteva scegliere solo tra “on” e “on”. Assenza di qualsiasi alternativa. Il nesso tra quella vignetta e l’abbozzo di politica energetica delineato nel disegno di legge presentato da Pierluigi Bersani, ministro per lo sviluppo, oltre che dalla somiglianza dei due governi di allora e di oggi deriva dall’identico atteggiamento. Volitivo e rinunciatario. Le voci del programma dell’Unione che riguardavano l’energia e l’ambiente lasciavano sperare in una, per quanto timida, inversione di tendenza rispetto alla non-politica energetica del governo Berlusconi. Era, insomma, un abbozzo di programmazione, almeno di censimento dei bisogni effettivi, del risparmio possibile, ecc. Il ddl Bersani, invece, riduce tutto al mercato. Lo stato, minimo che più non si può, si limita a garantire che i vecchietti di qualche sperduto paesino non rimangano senza riscaldamento o senza elettricità, e che le aziende petrolifere ed energetiche che si dividono la torta rispettino le regole. Punto. “On”.
Il testo del ddl si può leggere da diversi punti di vista: da quello delle sue lacune [lo scarso spazio per le fonti rinnovabili o il risparmio, per esempio], o da quello del metodo [ancora una legge delega, anziché il normale processo legislativo], o ancora da quello del rapporto con le regioni e le comunità locali… Ciascuno di questi aspetti, però, deriva da un atteggiamento culturale, che poi diventa politico e quindi, data la fonte del provvedimento, istituzionale.
Lo scarso spazio riservato alle fonti rinnovabili e il modo in cui vengono chiamate in causa, stampella di una politica di continua e cieca crescita dei consumi, sembra poco più di un omaggio ipocrita doveroso alle forze ecologiste della coalizione di governo. Scarsa convinzione, e ancor meno intuizione. Se si prendono sul serio le analisi sullo stato di salute del pianeta e sul costo economico e politico della dipendenza dalle fonti fossili [si veda il prezzo del petrolio], non si tratta più di riservare un po’ di spazio per i pannelli solari o i biocombustibili. Quanto piuttosto di gettare, almeno, le premesse per una conversione massiccia alle fonti rinnovabili. Accompagnata, inesorabilmente, da una cospicua e possibile riduzione dei consumi, privati e pubblici. Ben più del “risparmio” energetico a cui Bersani fa riferimento nel suo testo.
Il metodo, poi. L’energia non riguarda solo il Pil, “mission” aziendale del ministero dello sviluppo economico. Come, quanto e dove produrre ciò che fa girare il paese riguarda, come poche altre cose forse, tutti i cittadini. Allora, meglio della delega [vaga] chiesta dal governo sarebbe stato utile un normale iter legislativo, allargato ai contributi di quanti, dai comitati di cittadini ai comuni, agli esperti di organizzazioni ecologiste, che con i modi, le quantità e i luoghi della produzione di energia hanno a che fare. È il metodo che l’Unione ha sperimentato durante l’elaborazione del programma. Peccato che, almeno su questo tema, tutto sia finito lì.
L’interruttore di Bucchi torna anche per un altro aspetto. Il provvedimento principale del ddl, cioè le norme che prefigurano un modo per incoraggiare la costruzione di nuovi impianti [leggi, rigassificatori]. La tesi di fondo è quella che nell’inverno scorso ci hanno ripetuto l’amministratore dell’Eni Paolo Scaroni, il ministro Lunardi [passato alle attività produttive nell’ultimo rimpasto berlusconiano] e appunto, da sinistra, Enrico Letta e Pierluigi Bersani. Non ci sono alternative. I rigassificatori sono una necessità. È vero. Sono una necessità, sebbene non in quel numero, ma solo nel contesto delle politiche energetiche che l’Italia ha seguito negli ultimi dieci anni e che Prodi ha incoraggiato quando era alla testa della Commissione europea. Ma il contesto non si può discutere. Il mercato non si discute, né si governa. Al massimo, si amministra e si asseconda.