Tratto dall rivista Una Città – www.unacitta.it
Quando i musulmani accoglievano i perseguitati dai cristiani, imponendo loro tuttalpiù una tassa, quando le guerre erano poco più che scaramucce, quando gli arabi commercianti si sentivano superiori e la via della seta era un via vai di carovane. La storia dei rapporti fra Occidente e Islam, storia di debiti e crediti, di pregiudizi e chiusure, di attese deluse.
Parlano Franco Cardini e Gianni Sofri. Franco Cardini
Per iniziare voglio sottolineare che non sono uno studioso dell’Islam, ma uno che, da quando aveva una ventina d’anni, si è interessato all’Oriente e a quel tipo di cultura. All’università mi laureai in storia e mi specializzai nella storia medioevale dell’Occidente, della quale, siccome avevo questi interessi per l’Oriente, m’incuriosiva particolarmente il problema di come l’Occidente ha vissuto il rapporto con l’Islam; una cosa che pensavo essere marginale mentre oggi, quarant’anni dopo, si trova invece ad essere nell’occhio del ciclone. Per questo, naturalmente, un po’ studioso dell’Islam mi sono dovuto fare, perché, se non sapessi alcune cose -poche- su di esso, non riuscirei a calcolare lo spessore della deformazione che noi ne abbiamo fatto.
Il mio, tuttavia, non è un processo all’Occidente: non mi vergogno di essere occidentale, non ho scuse particolari da fare a nessuno, fra l’altro condivido profondamente l’idea ebraica che le scuse le devono fare direttamente quelli che hanno commesso qualcosa a chi ha direttamente subìto e personalmente non mi sento granché responsabile di crociate, di colonialismo, eccetera eccetera. So che la mia civiltà ha operato nel bene e nel male, ne accetto le responsabilità nella misura in cui un singolo se le può addossare, e non mi sono mai fatto illusioni sul fatto che sia la migliore cultura possibile, che il nostro sia il migliore dei mondi possibili: è quello nel quale io sono cresciuto, ne accetto e ne apprezzo alcuni aspetti, altri vorrei che migliorassero. Come ho detto, dal punto di vista accademico sono un medievista, ma le mie ricerche sulla percezione deformata che, a partire dal Medioevo, l’Occidente ha avuto dell’Oriente mi hanno portato a costatare come questa deformazione non abbia mai abbandonato l’Occidente, avendo anzi una sorta di recrudescenza all’incirca dalla fine degli anni ‘70 del Novecento.
In quel periodo ci siamo resi conto che fuori dall’Occidente c’erano grandi trasformazioni di cui noi non ci eravamo accorti. Io sono del 1940, quindi appartengo a una buffissima generazione che per molti anni è andata ripetendosi la fiaba dell’“ormai il mondo è in pace”, una fiaba di cui io un po’ mi vergogno, perché la disinformazione, oltre un certo segno è anche una responsabilità, una colpa.
Ma perché ci dicevamo quelle cose? Le dicevamo perché per molto tempo abbiamo impostato la nostra visione del mondo alla luce di un duro e ottuso occidente-centrismo, per cui chiamavamo “pace” quanto a noi occidentali (cioè a noi americani, soprattutto settentrionali, canadesi, sudafricani bianchi, australiani -a livello socio-civile l’Occidente è questo) sembrava tale. Già per l’Europa orientale il discorso era un po’ diverso, se non per la pace perlomeno per il benessere, che non è poco. Anche se sapevamo che c’era stata la guerra in Corea, che c’era quella in Vietnam, che c’erano le guerriglie in America Latina, in Africa, in Asia, noi ci dicevamo: “Che fortuna, dopo il ’45 non ci sono più state guerre…”. E ci sembrava vero, cioè ci sembrava che il tono fondamentale del mondo fosse ispirato alla pace ed il resto fossero fatti episodici della responsabilità dei quali, in fondo, non ci occupavamo. Fu quindi soprattutto nel ’79, con l’ascesa dell’imam Khomeini al governo dell’Iran, che molti di noi si sono risvegliati: il mondo era esattamente il rovescio fotografico di come lo immaginavamo; stavamo vivendo in un mondo di privilegiati circondato da un mare di guerra e di miseria. Molti di noi, a quel punto, pensarono fosse necessario capire, e quindi rimettersi in discussione.
Abbiamo allora cominciato a renderci sempre più conto di una realtà obiettiva, denunziata anche dalla Banca mondiale, dalla Fao, eccetera, e cioè che noi occidentali, noi del nord del mondo, (che siamo circa un miliardo, quindi meno del 20% dei circa sei miliardi della popolazione mondiale) produciamo e gestiamo l’80% delle ricchezze del pianeta. E’ vero che c’è tutto un dibattito tra gli studiosi della cosiddetta globalizzazione, alcuni dei quali dicono che noi le ricchezze le gestiamo, altri invece che le produciamo, e fra produrre e gestire la differenza è importante. Rimane il fatto che l’80% dell’umanità vivacchia col 20% delle ricchezze. Tutto questo potrebbe ancora andare bene se il mondo fosse quello che è stato per millenni, cioè un mondo organizzato in compartimenti stagni, in cui le culture comunicavano relativamente poco. Ma oggi non è più così. E’ vero che con la cultura musulmana comunicavamo molto e bene, ma, in generale, fra loro le culture non comunicavano granché. Abbiamo convissuto per millenni coi grandi imperi della Persia, della Cina, dell’India e non ne sapevamo quasi nulla, per non parlare di quello che succedeva in America.
E’ vero che filtrava qualche leggenda, che passavano molte merci, che la via della seta andava da Pechino fino a Damasco, e da lì arrivava fino all’Italia, alla Francia, alla Spagna, però nessun cinese viaggiava con le sue merci fino a Damasco o alla Francia; le merci viaggiavano portate da vettori umani ognuno dei quali, con un sistema di staffetta, faceva poche centinaia di chilometri, da caravanserraglio a caravanserraglio, per segmenti di carovane altamente specializzate a percorrere sempre circa duecento chilometri, più o meno equivalenti a una settimana di cammello, che fa 35 chilometri al giorno.
Col Cinquecento, come si sa, noi occidentali abbiamo rotto questo equilibrio a nostro vantaggio e abbiamo cominciato a organizzare quello scambio ineguale per cui prendiamo forza lavoro e materie prime al prezzo che decidiamo noi e poi rivendiamo i prodotti finiti -tecnologia, know how, eccetera- sempre al prezzo che diciamo noi. Questo scambio ineguale non l’abbiamo fatto soltanto con mezzi pacifici, ma anche con mezzi molto duri: il mezzo millennio di colonizzazione di cui, più o meno, conosciamo gli eventi. Per fare un esempio, l’Africa non conosceva il concetto di carestia finché viveva in un’economia di sussistenza, ma a contatto col nostro vorticoso progresso, col nostro vorticoso trasformare le materie prime in prodotti finiti, col nostro imporre la logica dei mercati, ha finito col conoscere le carestie, spesso disastrose. Mi si obietterà che l’Africa non conosceva nemmeno il grande dono del progresso che noi le abbiamo dato; certo in queste cose c’è il pro e il contro, ma il fatto è che, con la globalizzazione e lo scambio ineguale, fra le merci che abbiamo venduto a tutti quelli diversi da noi ce ne è una che forse non avremmo dovuto vendergli: l’informazione. Grazie all’informazione, da alcuni decenni i quattro quinti del mondo sono in grado di calcolare la distanza che c’è fra noi e loro e i più colti di questi quattro quinti -che sono abbastanza pochi ma ci sono- sono in grado anche di capire quale processo storico ha favorito questa crescente distanza.
In tutta questa trasformazione, cos’è successo dell’Islam? Per cercare di spiegarlo bisogna andare indietro, alle Crociate: nel corso dei miei studi mi sono accorto che, tutto sommato, queste guerre tra cristiani e musulmani, di cui si parlava moltissimo, amplificandone le gesta, erano poco frequenti e sostanzialmente poco cruente. Già la battaglia di Poitiers, per esempio, è stata uno scherzetto. Quattro musulmani scalcagnati (arabi, berberi, ma per la maggior parte spagnoli, cioè di origine latina, celtica, sveva, visigota, evidentemente convertiti all’Islam, e probabilmente nemmeno tutti) a un certo punto vanno verso Tours per rapinare il tesoro di San Martino, patrono del popolo franco, e un gruppo di franchi li ferma.
La battaglia di Poitiers, che avviene nel 732-733, -non si conosce nemmeno la data certa- infatti, non ha vere conseguenze, tant’è che trent’anni dopo i musulmani occupano tranquillamente Tolosa, per alcuni anni prendono Marsiglia e si inseriscono in tutto il litorale provenzale e su quello toscano, occupando le isole del Tirreno. Non è quindi vero che l’Islam sia stato fermato a Poitiers: dopo Poitiers, con esiti alterni, l’Islam ha continuato a fare le sue guerre endemiche contro la cristianità.
Un discorso simile si può fare sulle Crociate. Tali guerre, che come ho detto erano molto amplificate, erano anche molto superficiali, cioè erano così poco “guerra totale” che, ai tempi delle Crociate, il papa doveva scomunicare i mercanti cristiani perché questi, seguendo una loro vecchia abitudine, vendevano le armi ai musulmani (il vendere le armi è sempre stata una nostra specialità), per cui i musulmani facevano le loro guerre contro i crociati con armi che erano fabbricate a Milano, in Germania e via discorrendo. Queste guerre, quindi, non interrompevano i rapporti fra cristiani e musulmani, ed infatti gli strettissimi scambi culturali, diplomatici, economici continuavano addirittura durante le guerre, che spesso diventavano vettori di rapporti che potevano diventare amichevoli e duraturi. E’ vero che c’è stato un lungo periodo, fra VII e X secolo, in cui il nostro Occidente ha avuto paura delle scorrerie musulmane, ma poi siamo passati all’offensiva noi, dopodiché, fra il Quattrocento e il Settecento, con la fondazione dell’impero Ottomano, sono ripassati all’offensiva loro. Infine l’impero Ottomano si è andato spegnendo e noi lo abbiamo fatto letteralmente a brandelli, con i francesi, gli inglesi e i russi che litigavano ferocemente per chi ne prendeva più pezzi. Nel frattempo, però, all’interno dell’Islam molte cose erano successe. La cultura islamica è una cultura che, a partire dal VII secolo, si è espansa rapidissimamente; si dice lo abbia fatto con la forza, ma non è del tutto vero, anzi è vero in scarsissima misura, perché, ordinariamente, l’Islam è come l’ebraismo, ossia molto discreto in materia di proselitismo. Certo oggi c’è un gruppo particolare dell’Islam sunnita, l’Islam wahabita, che gestisce e domina l’Arabia Saudita, che fa proselitismo, ma in linea generale l’Islam, fino ad oggi, non ha mai fatto proselitismo o apostolato. Il cristianesimo fa proselitismo, San Paolo lo ha impostato in questo modo, ma ebrei e musulmani restano sempre fedeli all’idea, che è anche cristiana, che la religione non s’impone. L’Islam non impone la fede, ma chiede semplicemente ai popoli che vengono conquistati dai musulmani di riconoscere la superiorità civile dell’Islam e crea quindi un territorio che, letteralmente, si chiama Daar al Islam, cioè “la terra della pacificazione”, su cui l’Islam domina, ma all’interno del quale nessuno, se appartiene al popolo ebraico o al popolo cristiano, è obbligato a diventare musulmano. Diverso è effettivamente il discorso del rapporto dell’Islam con gli idolatri, che non sono ammessi. Solo che i dottori della legge musulmana gli idolatri non li trovano quasi mai. Quando i musulmani conquistano la Persia, nell’VIII secolo, trovano gli zoroastriani e dichiarano che anche loro sono monoteisti, che anche loro sono un popolo del Libro perché riconoscono una Scrittura; lo stesso fanno in India coi buddisti. Si fermano invece davanti agli induisti o agli animisti africani, perché per un monoteista di radice abramitica è difficile sostenere che un indù o un animista africano non sia un politeista o un idolatra. Davanti a questi c’è il dovere della guerra, dettato dal Corano. Però, in realtà, anche su questo si viene a patti, perché il Corano è un testo alquanto complesso, molto poco normativo.
(Per i musulmani non è stato scritto da Maometto, come noi ogni tanto diciamo per distrazione o per disinformazione, ma è la parola diretta di Dio, è la parola che esce da Dio, per cui, in un certo senso, il Corano è compartecipe della divinità) .Allora, succede che certo il Corano è la verità assoluta, perché esce dalla bocca di Dio, però, nello stesso tempo, queste parole non sono facilmente comprensibili, c’è bisogno dell’interpretazione, che dà origine ad accomodamenti, sistemazioni ad hoc eccetera. L’Islam -ma bisognerebbe dire gli Islam, al plurale-, infatti, non ha chiese, non ha grandi strutture gerarchiche, ma è organizzato in gruppi, in confraternite, in scuole che insegnano a interpretare la parola di Dio in una maniera che oserei definire molto democratica, molto diretta, molto libertaria. L’Islam è cioè organizzato in modo da favorire la proliferazione dei gruppi: quando un gruppo di musulmani non è d’accordo con quello che dice il suo imam se ne va e si sceglie un altro imam. La mancanza di una specifica gerarchia religiosa non significa che, invece, non ci siano gerarchie civili, distinte da quelle religiose.
Non è affatto vero che, come invece si continua a dire, l’Islam non riconosca una distinzione fra la sfera religiosa e l’assetto civile, il quale infatti esiste, eccome, anche se ha caratteristiche diverse dalla distinzione esistente nel Cristianesimo. Ma questa realtà molto libertaria, che si allarga, ad un certo punto si è incontrata con realtà gerarchiche sclerotizzate e questo incontro ha avuto non poche conseguenze.
Pensate all’impero bizantino nel VII secolo, in cui si deve essere cristiani secondo i dogmi della Chiesa gestita dall’imperatore, ed è quindi pieno di sette cristiane cosiddette eretiche, i cui aderenti, anche per motivi politici, vengono perseguitati ed ammazzati; ebbene arrivano i musulmani e dicono: “Non vi va bene il dogma della Chiesa ufficiale, che dice che il Cristo è vero Dio e al tempo stesso vero uomo, e volete parlare del Cristo come Dio che ha solamente l’aspetto esteriore dell’uomo? Va bene, fate pure. Volete parlare del Cristo come del figlio prediletto di Dio, ma non compartecipe della natura divina, l’imperatore ve lo vieta? Per noi invece va bene, è sufficiente che riconosciate che l’Islam vi ha in qualche modo soggiogato e vi dirige, che ci paghiate una piccola tassa, dopo di che siate cristiani come volete, siete liberi di pensare quello che vi pare”.
Questa, per gli standard della cultura occidentale del XXI secolo, è una tolleranza limitata, molto scarsa, ma per gli standard del mondo medioevale era una liberazione assoluta, che attirava non poco. Ed è proprio perché si è propagata questa voglia di libertà che l’Islam è cresciuto con un effetto-domino; è anche per questo che ha conquistato in pochi anni il bacino del Mediterraneo e ha fatto crollare l’impero persiano, che era altrettanto rigido di quello bizantino. L’Islam, fra l’altro, non ha creato una vera e propria civiltà, è stato piuttosto un metabolizzatore delle civiltà precedenti: ha metabolizzato la cultura bizantina, quella persiana, quella indiana, ha creato delle grandi sintesi. Di solito noi occidentali diciamo di essere figli della polis greca, mentre l’Islam non lo sarebbe, ma se avessero detto una frase del genere a Avicenna, il più grande filosofo dell’Islam -che era un tagiko, quindi un persiano del nord, ma che scriveva in arabo-, questi avrebbe sbarrato gli occhi e avrebbe chiesto perché mai, dal momento che lui era un ammiratore, e un traduttore, di Platone e di Aristotele, esattamente come gli occidentali e da prima degli occidentali. Si deve infatti all’Islam se la cultura greca è ritornata in Occidente, se le radici comuni, oltre a quelle abramitiche, sono anche quelle greco-classiche, che nell’Islam ci sono, eccome.
Dal possesso di un’altissima cultura filosofica, scientifica, tecnologica, medica, astronomica, l’Islam ha ricavato un senso di grande superiorità, che per molti secoli è stato giustificato. Poi però è successo che l’Occidente, a partire dal XII-XIII secolo, è stato l’oggetto di una grande mutazione di tipo antropologico che passa attraverso l’invenzione di nuovi metodi creditizi, di un nuovo volano dell’economia, in cui non è più la domanda a guidare l’offerta ma, al contrario, è l’offerta a guidare la domanda; inoltre viene abbandonata l’idea che le cose si debbano fare sempre come le hanno fatte i nostri avi, per giungere all’invenzione della nuova categoria del “progresso”, che indirizza tutto sulle innovazioni.
E’ una mutazione antropologica di portata incalcolabile, come non ne erano mai accadute prima, passando attraverso la quale gli occidentali hanno conquistato il mondo. I tre grandi imperi musulmani, quello turco-ottomano, quello persiano e l’impero dei Moghul (che parte dall’India nord-occidentale e prende gran parte dell’Asia Centrale) erano allineati proprio sulla fascia che ha come confine nord la via della seta e come confine sud la via monsonica dell’Oceano Indiano, cioè le due grandi direttrici commerciali dell’antichità. Nel XVI secolo, però, gli occidentali, che per secoli erano stati tributari dell’Islam e avevano contribuito a rafforzarlo economicamente e culturalmente, fanno la circumnavigazione del mondo, quindi non hanno più bisogno né della via della seta né della via dell’Oceano Indiano per avere le merci dall’Oriente, cosicché arrivano a superare il mondo islamico, anche se l’Islam non si rende subito conto di che cosa sta succedendo. D’altra parte gli occidentali, nella loro grande conquista colonialista, non conquistano immediatamente il mondo musulmano; si potrebbe quasi dire che lo lasciano per ultimo; ed infatti è solo verso il 1700 che comincia l’assalto sistematico all’impero turco, all’impero indiano ed infine all’impero persiano. Ma anche la conquista occidentale degli imperi islamici ha spesso avuto tratti particolari.
Quando, nel luglio del 1798, il generale Bonaparte sbarca ad Alessandria, fa un proclama agli egiziani in cui in sostanza dice: “Noi rivoluzionari francesi vi portiamo il vero Islam, perché il vero Islam è libertà, fratellanza ed uguaglianza”. E i musulmani ci credono, al punto tale che in tutto il mondo musulmano, al Cairo, ad Alessandria, a Damasco, a Isfahan, ad Istanbul, si aprono delle logge massoniche e si apprezza l’umanitarismo illuministico rileggendolo in chiave musulmana. Per tutto questo, chi ha detto che cristiani e musulmani non si sono mai conosciuti, e che si conoscono soltanto adesso che si stanno scontrando, ha detto una sciocchezza.
Per tutto l’Ottocento, anzi, nel mondo arabo musulmano c’è una parola-chiave, nada (che da noi diventa anche un nome proprio che viene da Livorno, che era un porto franco), che al tempo stesso significa “aurora”, “rinascimento”, “risorgimento”, “rinascita”. Questa parola prende a circolare perché il mondo musulmano non solo si rende conto del gap tecnologico e culturale che ormai lo distanzia dall’Occidente, ma rifiuta l’idea che la perdita del primato culturale dipenda da una sua inferiorità, auspicando che l’Occidente lo aiuterà con la sua tecnologia e con la sua società civile a ritrovarlo. I musulmani a queste cose ci hanno creduto sinceramente, sinceramente hanno accettato la penetrazione colonialista europea, ma con quali risultati?
Nella Prima Guerra Mondiale, inglesi e francesi sobillano gli arabi a ribellarsi contro il loro sultano -che è anche il loro califfo, ma che è un turco, quindi uno straniero-, insegnano agli arabi il nazionalismo, addirittura si conia la parola watan, “patria”, che il mondo islamico non conosceva perché per i musulmani tutti i fedeli sono nella stessa umma (cioè nella stessa “matria”, perché umma vuol dire “madre”), che è la società che congloba tutti i credenti. Siamo quindi stati noi ad insegnare agli arabi il nazionalismo, perché ci serviva che combattessero contro i turchi, ed in cambio cosa avrebbero avuto? Gli si era promessa la grande Arabia -dal Caucaso fino al Corno d’Africa, dal Tigri fino al Nilo-, ma poi la grande Arabia non gliel’abbiamo data. Gli inglesi li hanno costretti a fare dei regni più o meno simili al regno britannico. I francesi li hanno costretti a fare piccole repubbliche più o meno sul modello francese. Nel frattempo abbiamo soccorso il movimento sionista -che aveva, in fondo, molti diritti storici per fare il focolare domestico in Palestina che gli si prometteva- e abbiamo permesso che ritagliasse tale focolare dal mondo arabo, che comunque non è tutto il mondo musulmano. Nel frattempo, infatti, altri mondi musulmani accettavano a loro volta l’Occidente: in Turchia, Mustafà Kemal ‘Ataturk’ faceva una grande rivoluzione nazionalista un po’ autoritaria, però occidentalizzante, progressista, ed imponeva un codice civile di tipo svizzero, un codice penale di tipo italiano, un parlamento all’occidentale sul modello francese, in cui era perfino proibito che si pronunziasse il nome di Dio, perché bisognava insegnare ai turchi a essere laici.
Dov’è quindi questo odio che i musulmani avrebbero per l’Occidente? I musulmani sono stati innamorati dell’Occidente, certo con le loro colpe, con i loro errori, ma come sono stati ricambiati? Nei primi decenni del ‘900 nell’Islam si cerca la via liberale, ma, come abbiamo visto, questa non funziona. Negli anni Trenta, forse anche per gli effetti del sionismo, il mondo arabo-islamico subisce una fascinazione nei confronti del fascismo e del nazismo -il mondo islamico ha senza dubbio grandi responsabilità in questo senso- e va a finire come tutti sanno.
Passata la Seconda Guerra Mondiale hanno provato anche l’adesione al socialismo, ma anche in questo caso è andata male.
Insomma, il mondo islamico ha provato tutte le ricette occidentali, ma alla fine, tra il ’67 e il ’73, dopo le continue frustrazioni, ha iniziato a cedere alla propaganda di alcuni gruppi che si presentano come rigorosamente religiosi (quelli che noi oggi chiamiamo gruppi fondamentalisti, nati negli anni Venti in Egitto e in Afghanistan, ma poi diffusisi un po’ dappertutto) che dicono che con gli occidentali non c’è nulla da fare, perché badano solo al loro interesse. Dicono anche che, siccome gli occidentali sono cristiani, come tali sono tendenzialmente atei, perché il cristianesimo è l’idea dell’uomo-dio, quindi è tendenzialmente aperto all’ateismo, perché quando si comincia a divinizzare l’uomo poi si finisce atei. Allora, aggiungono, liberiamoci da queste superfetazioni occidentali, non aspettiamo la liberazione né dall’Occidente liberale né da quello socialista, perché tutti ci hanno tradito e ingannato: dobbiamo riconquistare una nostra cifra intellettuale, culturale e politica e possiamo farlo solo attingendo al puro Islam. Questa, in sintesi, è l’ideologia -poi scandita in infinite sotto ideologie, magari in lotta fra loro- che anima anche gruppi come Al Qaeda, all’interno della quale nasce anche il terrorismo.
Questa è la situazione in cui siamo, in cui prendiamo per buona una versione semplificata dell’incontro fra Occidente e Islam che parla di scontro di civiltà. Già i fondamentalisti musulmani hanno parlato alla loro gente di scontro di civiltà, ed anche noi abbiamo avuto ultimamente la sfortuna di imbatterci in una serie di autori, anche illustri, che hanno stilato il loro verbo fondamentalista: il professor Samuel P. Huntington è uno di questi.
Io non credo assolutamente che Lo scontro delle civiltà di Huntington, questo brutto remake de Il tramonto dell’Occidente di Spengler, sia un libro che si limita a ipotizzare uno scenario futuro. Quello che il professor Huntington sta proponendo è una delle tante versioni dell’ideologia che propugna l’egemonia degli Stati Uniti sul resto del mondo, una concezione che oggi va per la maggiore, soprattutto nella scuola cosiddetta “realista”, cui appartengono sia Kissinger che Berszinskji.
Uno dei punti in cui mi trovo meno d’accordo con la tesi di Huntington è il suo vedere l’Occidente e l’Islam come fossero gruppi compatti, coerenti al loro interno (come ho detto, l’Islam certamente non lo è, e nemmeno l’Occidente) e separati fra loro. Per esempio, credo sia una semplificazione dire che molti paesi musulmani magari hanno anche adottato istituzioni sul modello occidentale, ma in fondo è solo un fatto esteriore perché dentro sono restati del tutto altri dall’Occidente.
In realtà, quello che noi chiamiamo Occidente è ormai diventato una sorta di koiné diàlektos di tutta l’umanità; le istituzioni democratiche, o comunque moderne, stanno entrando sotto la pelle di tutti, casomai in forme autoritarie, tant’è che, spesso, quando un governo musulmano affronta il problema della religione cosa fa? Prende l’imam di una confraternita, magari quella più vicina al partito al potere, e lo nomina ministro del culto, cosicché il modo di intendere l’Islam di quella particolare confraternita diventa il modo d’intendere l’Islam come religione di stato. Ma questa idea di mettere un freno al libertarismo musulmano, stabilendo che quella particolare confraternita diventa il modello secondo cui gli abitanti di un certo stato devono essere musulmani, è un’idea ispirata all’Occidente. Anche se non siamo alla “chiesa di stato”, e non lo saremo mai perché l’Islam è un’altra cosa, però certamente l’elemento occidentale c’è ed è forte.
Ormai quella che chiamiamo “cultura occidentale” e quella che chiamiamo “cultura islamica” sono, a diversi livelli, fortemente compenetrate. In Giordania, in Egitto, in Algeria o in Tunisia senza dubbio più che in Nigeria o in Indonesia. Da una ventina d’anni a questa parte, a chi va in un paese musulmano e ha modo di parlare con persone abbastanza colte, spesso capita di doversi sorbire la reprimenda sulle colpe dell’Occidente, le Crociate, il colonialismo, eccetera, però, poi, si scopre che, in realtà nei paesi musulmani si vogliono i prodotti, i beni e le tecnologie occidentali. E non si può considerare questo fatto un semplice portato del desiderio ingenuo di possedere delle cose, perché attraverso le cose (si pensi soltanto ai prodotti dei mass media, della telematica, dell’informatica) passa una modificazione profonda della mentalità. Da un certo punto di vista, quindi, l’Occidente ha già vinto la battaglia nei confronti delle culture altre. Io non credo affatto al pericolo che, come dicono gli esponenti di alcuni gruppi politici italiani o europei, altre culture, a cominciare da quella musulmana, ci portino via la nostra identità occidentale.
Al contrario io credo che, consci del fatto che la diversità culturale è una ricchezza, dovremmo essere noi occidentali ad aiutare i portatori di culture diverse dalla nostra a non perderle e a non trasformarle in qualche cosa a uso dei turisti, come succede nelle riserve indiane. Rispetto ai musulmani che vogliono mantenere la loro identità pur restando fra noi, il problema è conoscerci reciprocamente, è stabilire i confini della convivenza, quindi magari approfondire, recuperare, alcune delle nostre radici e confrontarle con le loro. Non vedo perché si dovrebbe cedere a uno degli opposti estremismi, alla volontà di cancellare le culture altre da noi oppure alla volontà di diventare tutti omologati, tutti clienti degli stessi McDonalds, delle stesse Coca Cola, delle stesse marche di telefonini o di televisioni.
La modernizzazione -a differenza di quello che ha sostenuto il presidente Bush nel discorso del primo anniversario dell’11 settembre- non è stato un processo in cui l’Occidente in genere, e gli Stati Uniti in particolare, hanno sempre sostenuto le democrazie e combattuto le dittature. Due casi in proposito. Nel 1918 noi occidentali, nella fattispecie gli inglesi, potevamo consegnare l’Arabia allo sceriffo Hussein della Mecca, che era hascemita, aveva studiato a Oxford ed aveva delle grandi aspirazioni liberali; purtroppo questo signore aveva anche delle pretese riguardo royalties sul petrolio, così abbiamo preferito consegnare l’Arabia ai Saud wahabiti, cioè alla setta più retriva, più antimoderna e feroce di tutto l’Islam. L’altro caso è quello dell’iraniano Mossadeq, buon musulmano moderato e persona aperta, di sicura laicità e liberalità. Ebbene, noi abbiamo fatto eliminare Mossadeq dallo Shah e abbiamo detto a tutti che era un comunista, che non era affatto vero.
Il risultato qual è stato? Che l’Occidente ha favorito la dittatura progressista occidentalizzante dello Shah e ha finito per consegnare l’Iran ai fondamentalisti khomeinisti. Se infatti l’esperimento di Mossadeq fosse riuscito, i fondamentalisti non avrebbero avuto spazio, però c’era un costo, perché l’Anglo-Iranian Petroleum Company avrebbe dovuto pagare all’Iran royalties più alte e con queste royalties l’Iran si sarebbe forse sviluppato come democrazia moderna. Non parlo poi dei talebani, una storia dolorosa che ormai tutti conoscono, e nemmeno di Saddam Hussein,. E’ ridicolo indignarsi e fare la faccia stupita se Saddam Hussein, nel ’91, è arrivato a un passo dalla bomba atomica. Sappiamo benissimo che a vendergli le tecnologie sono stati soprattutto gli Stati Uniti e la Francia, sappiamo chi lo ha mantenuto, per chi ha fatto la guerra per procura contro l’Iran. Sappiamo tutte queste cose, però l’opinione pubblica sembra avere la memoria corta: non ricorda più nulla e si lascia abbindolare dalla signora Rice che ripete che Saddam ha gasato i curdi. Certo che li ha gasati: col gas e le tecnologie che gli abbiamo fornito noi, quand’era ancora nostro alleato, nel 1988. Queste cose bisogna pur ricordarsele, altrimenti poi si diventa incapaci di esprimere un giudizio sereno su quanto succede.
A mio modo di vedere noi siamo oggi stretti fra due opposti fondamentalismi. C’è un fondamentalismo musulmano, che sta partorendo anche il terrorismo, ma è minoritario, e tuttavia sta crescendo sugli errori che facciamo nella misura in cui cediamo, nella nostra pratica politica, alle lusinghe dell’altro fondamentalismo. Perché l’altro fondamentalismo è quello occidentalista, che non è soltanto degli Stati Uniti d’America, ma di cui gli Stati Uniti d’America sono, per così dire, la punta di lancia.
In altri termini, io non credo che nessun’altra civiltà potrà mai battere la civiltà occidentale, ma temo invece che la cultura, la civiltà, occidentale abbia in se stessa le potenzialità negative che potrebbero praticamente portarla all’autodistruzione. Credo che se continuiamo sulla strada dei bombardamenti a tappeto, faremo crescere il fondamentalismo e il terrorismo, questo sì, ma alla fine quella battaglia la vinceremo, mentre la vera battaglia che l’Occidente deve vincere è ritrovare all’interno di se stesso quello che un tempo si chiamava la cultura del limite, cioè liberarsi dalla schiavitù delle cose. E’ questa la battaglia difficile che l’Occidente avrà difficoltà a vincere.
Gianni Sofri
Sono innanzitutto d’accordo con Cardini su un approccio alla storia che cerchi di far vedere come essa sia sempre più complicata di quanto noi pensiamo, magari sulla base delle conoscenze che abbiamo appreso al liceo. Una delle cose che, infatti, entrano subito in crisi quando si studia un argomento storico in maniera più approfondita sono i pregiudizi: per esempio, la convinzione che le culture in passato non comunicassero. E’ vero che, sulla via della seta, i cinesi non arrivavano fino a Roma, ma si fermavano nell’attuale Xinjiang, poi la seta passava ad altre popolazioni, come i Parti, dopodiché c’erano gli arabi e alla fine dei mercanti, cittadini dell’impero romano, che portavano le sete alle signore romane, che gradivano molto indossarle. Le comunicazioni, quindi, in qualche modo c’erano. Negli annali dell’impero cinese (non nelle cronache dell’impero romano), si trovano persino tracce di una ambasceria romana in Cina, probabilmente dei tempi di Antonino Pio. In ogni caso è certo che, in ogni momento storico, le culture hanno comunicato tra loro molto di più di quanto normalmente pensiamo. Per secoli, in alcuni stati del Nordest dell’India (forse ancora prima dell’arrivo dei Portoghesi) si commerciava del corallo pescato nel golfo di Napoli, portato lì da mercanti armeni, che percorrevano tutto il mondo conosciuto. Ma ci sono tanti altri pregiudizi storici. La schiavitù, per esempio, non è una prerogativa europea: nel mondo arabo era molto diffusa, ed è durata più a lungo che in Europa. Grazie al francese Lombard, un medievista che ricorda un po’ Cardini, perché era un medievista che studiava anche il mondo arabo, sappiamo che, nel corso di quello che noi chiamiamo Medioevo, poteva succedere che un europeo orientale, quindi di pelle bianchissima e spesso molto biondo, venisse preso prigioniero e, attraverso successivi passaggi, arrivasse nella Spagna musulmana, da dove veniva poi venduto a dei sovrani arabi del Nord Africa, i quali sovrani del Nord Africa lo vendevano, sempre come schiavo, a dei sovrani neri, di religione musulmana, che governavano gli imperi di Ghana, Mali, Songhai eccetera: imperi che si estendevano non nei luoghi oggi occupati dagli Stati che ne portano il nome, ma in quella che chiamiamo fascia del Sahel.
Un’altra curiosità riguarda una citazione da un libro di uno studioso arabo, Saìd ibn Ahmad, che scriveva nel 1068 della nostra era e viveva a Toledo. Saìd ibn Ahmad scrisse un libro di descrizione delle varie razze e culture che conosceva, cioè un libro che oggi definiremmo di antropologia culturale applicata. La prima distinzione che fa nel suo libro è quella fra nazioni civili e nazioni barbare. Nel gruppo delle nazioni civili (cito da un libro di Bernard Lewis, che è un grande arabista e islamologo vivente), tali per essersi dedicate alla scienza e all’erudizione, Saìd Ahmad mette indiani, persiani, caldei, egiziani, greci, romani, arabi, musulmani in genere ed ebrei.
Un gradino sotto mette cinesi e turchi, che definisce “i più nobili tra i popoli incolti”, e in fondo alla scala, “più simili a bestie che a uomini”, gli abitanti dell’estremo settentrione, cioè (per noi oggi) i norvegesi, gli inglesi, i tedeschi, che descrive dotati di “animo insensibile, indole rozza, ventre pingue, colorito pallido, chioma lunga e snerbata”. Questi, continuava Said Ahmad, erano “uomini preda dell’ignoranza, dell’apatia e della stupidità, a causa soprattutto dell’aria fredda e del cielo denso di nubi per l’eccessiva distanza del sole dallo zenit”. Trovo curioso che la definizione degli antenati dei moderni nord-europei abbia, come si nota, molti punti in comune con lo stereotipo che molti europei riservavano fino a non molto tempo fa (alcuni lo fanno ancora oggi) agli abitanti del sud del mondo, che sarebbero ignoranti e apatici, questa volta, per l’eccessiva insolazione. Come si nota, che sia questione di troppo o poco sole, sta di fatto che i pregiudizi, gli stereotipi, sono presenti un po’ dappertutto.
Queste sono alcune delle cose su cui sono d’accordo con Cardini, che ci ha esposto una ricostruzione storica sulla quale non è facile essere in disaccordo.
Trovo che sia molto importante e interessante studiare la storia dell’immagine che gli europei di volta in volta si sono fatti degli Orienti: perché non c’è un solo Oriente, ce ne sono tantissimi, e questo non solo perché l’Islam è molto diverso dalla Cina confuciana, dal Giappone o da tante altre culture di quello che noi chiamiamo Estremo Oriente. (Ecco un bell’esempio di etnocentrismo -perdonate la divagazione- che si nasconde sotto l’apparente neutralità delle denominazioni geografiche: “estremo” è tale rispetto a noi; nessun giapponese direbbe di sé: “Io sono estremo orientale”, al massimo ha accettato di essere un orientale, perché questo è già più “oggettivo”…). Comunque, gli europei hanno sempre guardato agli Orienti attraverso proiezioni dei propri desideri, aspirazioni, delusioni. Gli illuministi, per esempio, vedevano nella Cina -in una Cina che non era la Cina reale, ma la Cina da loro idealizzata- la realizzazione di un proprio sogno, e cioè un paese sì dispotico (“dispotismo orientale” è un’espressione che non a caso nasce allora), e cioè governato da un sovrano assoluto, ma nel quale il sovrano aveva intorno a sé i “mandarini”, vale a dire degli intellettuali incaricati di aiutarlo e consigliarlo: l’aspirazione massima di buona parte degli illuministi, per l’appunto. Quasi sempre, quando gli europei hanno guardato agli Orienti, hanno fatto prevalere questa ricerca della materializzazione di un sogno qui ritenuto irrealizzabile, e questo atteggiamento vale anche per il modo in cui una certa sinistra ha guardato alla Rivoluzione culturale cinese, vista (giudizi etico-politici a parte) come l’altrui capacità di realizzare ciò che qui era precluso.
Detto tutto questo, quel che vorrei fare è mettere sul tappeto altri problemi, forse più schematicamente di quanto abbia dovuto fare Cardini.
Il primo di questi problemi è se l’Islam abbia qualche responsabilità in ciò che sta succedendo nel mondo. Può darsi che Cardini, dicendo che i conflitti sono stati pochi, limitati, eccetera, adesso esageri un po’ in senso contrario, però non c’è dubbio che, per lungo tempo, fra europei e musulmani ci sia stata anche convivenza, collaborazione. Non ho alcun dubbio nemmeno sul fatto che all’interno del mondo musulmano, specialmente nell’impero ottomano, ci fossero una tolleranza e un’accoglienza -per esempio nei confronti degli ebrei cacciati dalla Spagna ricristianizzata- decisamente superiori a quelle che si potevano trovare nel mondo cristiano. Ma questo vale fino a un certo momento della storia, mentre oggi non possiamo non fare i conti con il problema rappresentato dal radicalismo o integralismo o fondamentalismo che dir si voglia (tutti questi termini sono discutibili, ma servono per intendersi), e anche dal terrorismo islamico. In un libro che a me piace moltissimo -La malattia dell’islam, scritto da Abdelwahab Meddeb, uno studioso arabo che vive in Francia- a un certo punto si parla dell’integralismo islamico proprio come della malattia dell’Islam contemporaneo. Certo Meddeb sottolinea che non va confuso l’Islam con la sua malattia, ma aggiunge anche che crede di vedere la parte che innegabilmente, all’interno dell’Islam, predispone alla malattia, la qual cosa mi porta a chiedermi se c’è qualcosa nell’Islam che predisponga all’integralismo. Credo che non ci si possa facilmente liberare di questa questione, benché anch’io mi proclami -questo va da sé, mi pare perfino sciocco dirlo- contrario allo scontro di civiltà e all’uso ideologico dell’idea di uno scontro di civiltà, salvo poi chiedermi se, invece, non ci siano già talmente tante persone che hanno dichiarato una guerra di questo tipo che se ne debba in qualche modo tener conto. In ogni caso -ripeto- vale la pena di chiedersi che cosa nell’Islam predisponga all’integralismo, e su questo non posso che citare quanto è detto in maniera molto brillante, ancorché rapida, ne Il suicidio dell’Islam, l’ultimo libro di Bernard Lewis. Lewis segnala come, fin dall’origine, ci siano delle differenze fra le grandi religioni monoteiste, delle differenze oggettive che non determinano necessariamente la storia successiva, tant’è vero che nella storia dell’Islam, ci sono indubbiamente secoli di grande gloria, di assoluta superiorità culturale nei confronti dell’Occidente, e all’Islam deve anzi andare la gratitudine dell’Occidente per avergli ritrasmesso i grandi pensatori greci dell’antichità. Tuttavia, un fatto innegabile è che, mentre il cristianesimo nasce sulla base di una potenziale distinzione tra politica e religione -una distinzione che sta nel famoso “Date a Cesare quel che è di Cesare”, da tutti citato, pur con interpretazioni molto diverse fra di loro-, l’Islam invece nasce ad opera di un profeta che è ad un tempo il destinatario della Parola di Dio, quindi il fondatore di una religione, ma anche un capo militare, che inizia le grandi conquiste arabe, e un capo politico, creatore di uno Stato. Questa differenza a me pare debba pur significare qualcosa. Sul tema c’è una vastissima letteratura di filosofi, storici e pensatori musulmani di oggi, fra i quali Abu Zayd Nasr, un egiziano che qualche anno fa fu condannato come apostata, con la conseguenza (fra le altre) che sua moglie sarebbe stata obbligata a lasciarlo perché non poteva stare con un apostata (la moglie non lo ha lasciato, ma i due hanno dovuto andare esuli, attualmente vivono in Olanda). Nasr ha scritto un libro, Islam e storia. Critica del discorso religioso, tradotto da Bollati Boringhieri l’anno scorso, in cui denuncia come pericolosissima proprio la commistione tra religione e politica all’interno del mondo musulmano. Analoghe idee vengono sostenute, spesso con grave rischio personale, da tanti altri pensatori musulmani, che denunciano la crescita fortissima di un Islam “politico”, aggressivo, intollerante, fondamentalista, che non accetta nessuna forma di separazione tra il politico e il religioso, cioè di quella che noi chiamiamo laicizzazione.
Io trovo che una prima cosa da dire sulle nostre responsabilità di europei e occidentali al riguardo è che spesso abbiamo avuto un atteggiamento opportunistico nei confronti di questi paesi, popoli, culture. Un atteggiamento che, dando per scontato che i gruppi che vogliono la modernizzazione, la laicizzazione, eccetera, siano minoritari e privi di possibilità di successo, li ha abbandonati, non li ha aiutati, non li ha protetti e, per ragioni opportunistiche, a destra come a sinistra, ha invece seguito e aiutato i peggiori, che fossero di destra o di sinistra, e così facendo ha assunto su di sé responsabilità gravi. Sottolineo che quando dico “sinistra” nel mondo islamico, intendo dei gruppi che alcuni non esitano a chiamare nazional-socialisti o nazional-fascisti, anche se ammantati di una retorica di sinistra, cioè gente come, per esempio, Saddam Hussein, che nasce, si fa per dire, come uomo di sinistra e finisce con gli esiti che conosciamo. Anche se sono d’accordo nel dire che non c’entra il Medioevo (come diceva Marx, in una frase che certamente può continuare ad essere citata anche in epoca di crisi del marxismo, “E’ facile essere liberali a spese del Medioevo”), è certo che, invece, la “destra” nel mondo islamico è rappresentata da regimi come l’Arabia Saudita, cioè regimi che sono quanto di più retrivo si possa immaginare.
Rispetto a questi regimi c’è una forte responsabilità nostra, dell’Occidente, dell’Europa, che dovremmo invece prendere attivamente le parti di chi, all’interno di tali regimi e del mondo musulmano in generale, si batte per cambiare. Un altro nostro compito è quello che riguarda i nostri rapporti con i musulmani che sono fra noi, e qui il discorso è molto complesso, implicherebbe un’intera serata perché abbiamo a che fare, da un lato, con posizioni di tipo leghista o con un cattolicesimo alla Baget Bozzo, mentre, dall’altro lato, ci troviamo anche di fronte a problemi reali di sicurezza. Parlando di sicurezza non alludo ai piccoli commerci che avvengono in certi quartieri degradati delle grandi città, ma penso piuttosto, per esempio, a quanto emerge dall’inchiesta molto seria fatta da Magdi Allam, un giornalista della “Repubblica”, pubblicata col titolo Bin Laden in Italia, da cui risulta che all’interno del mondo musulmano italiano, come di quello francese, tedesco, olandese, inglese, sono presenti e pronte a entrare in azione cellule legate ad Al Qaeda, o ad altri centri del terrorismo internazionale.
Un’altra cosa che volevo dire riguarda la nuova geopolitica e si collega alla domanda se l’11 settembre sia stata o no una data epocale. Il problema dei problemi, per gli storici, è quello della datazione, perché datare vuol dire interpretare, e implica un giudizio su cosa sia più rilevante nella storia, se le fratture o le continuità. Un medievista come Cardini sa bene che alcuni considerano che il Medioevo finisca nel Trecento, altri a metà del Quattrocento, altri ancora alla fine del Settecento, mentre per alcuni addirittura le sue sopravvivenze sarebbero ancora visibili accanto a noi. Un problema di questo tipo emerge, per esempio, dalla storia dell’India e riguarda la sanguinosa rivolta dei Sepoys, del 1856-’57, cui parteciparono anche dei principi, dei maharaja, e cui seguì una sanguinosissima repressione da parte degli inglesi. La storiografia prevalente, di origine coloniale, ha definito questa grande insurrezione come l’ultimo sussulto della vecchia India, che in qualche modo avrebbe reagito all’invasione coloniale, partita nel Settecento ad opera degli inglesi. In questa ottica, i principi, cioè i rappresentanti della vecchia India, in qualche modo morivano con quest’ultimo sussulto, dopo il quale si preparava il terreno per una nuova India, che sarebbe stata quella dei Gandhi, dei Nehru, della nascente borghesia. All’inizio del Novecento, però, alcuni nazionalisti estremisti -per esempio uno che si chiamava Savarkar, che scrisse un libro intitolato La prima guerra indiana per l’indipendenza- hanno invece interpretato questo episodio come una guerra per l’indipendenza, fra l’altro usando un linguaggio volutamente tratto dall’esperienza italiana, che serviva loro da modello. Nel caso dell’11 settembre ci sono queste stesse diversità interpretative: c’è chi privilegia la continuità, cioè dice che, in realtà, quasi tutto quello che è successo dopo era già cominciato prima, e che, per esempio, gli Stati Uniti avevano già molti interessi sull’Afghanistan. In generale, questa tesi viene avanzata da quelli che chiamerei i “petrolofili”, cioè da coloro che, nell’interpretazione della storia contemporanea, privilegiano tutto ciò che ha a che vedere con il petrolio. Altri invece dicono che con l’11 settembre è successo qualcosa di molto grosso, e in particolare c’è stato un rovesciamento delle alleanze. Secondo questa tesi, è come se, da sempre, si stesse giocando una grande partita, un torneo, con protagonisti le squadre, pardon, le potenze: Stati Uniti, Russia, Cina. In questo torneo, a un certo punto c’è stata un’invasione di campo, per cui, momentaneamente, tutti si sono fermati e hanno capito che innanzitutto dovevano risolvere il problema di questa invasione, e cioè combattere il terrorismo islamico, nemico comune. Io non voglio suggerire delle interpretazioni favorevoli a questa o a quella posizione (anche se personalmente propendo per la seconda). Penso però che non si possa non prendere atto che sono accadute, l’11 settembre e dopo, cose molto importanti. Per riprendere la metafora, in effetti la partita è stata interrotta, almeno temporaneamente, anche se questo non vuol dire che la storia precedente sia stata cancellata, che siano scomparse le rivalità fra Stati, ecc.: in generale, continuità e fratture possono coesistere, le prime possono essere modificate in alcuni tratti dalle seconde, ma è raro che scompaiano. Ma per tornare a noi, dopo l’11 settembre, per fare un esempio, c’è stata una riunione a Shanghai in cui si sono ritrovati Putin, Bush, Jiang Zemin (ma nessun europeo, e anche questa è una cosa significativa), e questo è stato sicuramente un evento nuovo e importante. Dopo quell’incontro sono infatti iniziate delle attività che erano inimmaginabili ancora pochissimi anni prima, per esempio gli americani sono arrivati con le loro truppe nell’Uzbekistan e nel Kirghizistan, vale a dire in aree che Russia e Cina (la prima soprattutto) hanno sempre considerato “il cortile di casa”; mentre ora russi e cinesi hanno dovuto fare in una certa misura buon viso a cattivo gioco. Già questo esempio significa che non si può assolutamente sottovalutare ciò che è successo con l’11 settembre.
L’11 settembre, per esempio, è stato un giorno di sconfitta terribile per tutte le problematiche relative ai diritti umani nel mondo, è stato una sconfitta per i ceceni in Russia, per i turchi uiguri in Cina e per le minoranze di ogni tipo in tutto il mondo. Ma l’11 settembre è stata anche una giornata di sconfitta per tutte le tematiche ecologiche, ed è stata, ahimé, una giornata di sconfitta anche per tutte le tematiche relative all’aiuto ai paesi sottosviluppati, mentre, all’opposto, è stata una giornata di grande vittoria per le spese militari -per la “sicurezza”- nel mondo. Tutto questo, però, non vuol dire che la rottura col passato sia definitiva, non vi è nulla di definitivo nella storia. Il politologo americano Francis Fukuyama, pochi anni fa, quando ancora prevaleva l’ottimismo di cui parlava Cardini all’inizio, fu autore di un libro intitolato La fine della storia e l’ultimo uomo, in cui sosteneva che ormai nella storia c’era solo da rappezzare qualche piccolo particolare, ma per il resto ormai avevano vinto la libertà, la democrazia, la civiltà. In realtà non è così, è anzi possibile che, entro un tempo relativamente breve, riardano dei conflitti secolari, come è possibile che comincino delle cose che non siamo in grado di prevedere. Riguardo ancora al problema del rapporto fra le religioni va detto che siamo abituati a un’idea delle religioni che, fra l’altro, si trova in un libro di uno di quei pensatori arabi, egiziano nel caso specifico, che amo molto perché amanti della democrazia e della laicità. Questo pensatore si chiama Fuad Zakariya e comincia il suo libro dicendo: “L’Islam è ciò che ne fanno i musulmani”. Naturalmente, si potrebbe anche dire che il cristianesimo è ciò che ne fanno i cristiani, il buddismo è ciò che ne fanno i buddisti, e così via. In un altro libro recente, di Olivier Roy, si dice che “l’Islam è il modo in cui i musulmani intendono il Corano”. Mi sembra innegabile, in effetti, che l’Islam sclerotizzato che oggi ci viene offerto dal fondamentalismo islamico -e che ovviamente non è il solo Islam possibile-, un Islam ridotto a codice di proibizioni, affondi le sue radici in una lettura, scusate il bisticcio, letterale e astorica del Libro sacro. Una visione detta “essenzialista” delle religioni le valuta e le misura su una pura e semplice lettura del loro Libro sacro originario (quando c’è: questo non vale, naturalmente, per religioni come induismo, buddismo, ecc.). Questo è del tutto insufficiente perché non tiene conto della storia. Penso si possa dire che le origini aprano un ventaglio di possibilità che poi la storia sviluppa, quale più, quale meno. In altre parole, l’ “essenza” esiste e conta, ma non da sola: non contano meno le realtà effettive che poi ne derivano.
Questo problema si collega a quello dei diritti umani e della loro universalità. Sono problemi assai complessi. I diritti umani sono nati all’interno della nostra cultura, ma questo non impedisce loro di riferirsi a tutti gli uomini. Io trovo, per esempio, che la violenza fisica sia una cosa che vada espunta dalla storia del mondo e che diritti come quelli di non farsi tagliare le mani, di non essere lapidate per adulterio, in generale di non essere condannati a morte -naturalmente questo vale anche per gli Stati Uniti, anche se le esecuzioni negli Stati Uniti sono un trentesimo di quelle che si verificano in Cina- siano essenziali e irrinunciabili ovunque. Non è accettabile che i diritti umani siano considerati un’imposizione di particolari credenze culturali (nel caso specifico, dell’Occidente). Io penso di essere assolutamente rispettoso delle altre culture, però non riesco a spingere il mio relativismo culturale -definizione che, peraltro, non amo- fino ad accettare la violenza perché giustificata, così si suppone, da altre culture (cosa che spesso non è neppure vera). Quando, molti anni fa, in Arabia Saudita, ci fu l’orrenda esecuzione di un’adultera secondo le regole (cioè con l’adultera in un sacco, contro cui vengono lanciati sassi sufficientemente piccoli da non dare la morte immediata, ma anche sufficientemente grandi da ucciderla entro un certo periodo), io ne provai veramente orrore, che si accentuò quando lessi insigni islamologi e islamologhe che in qualche modo giustificavano, in nome del relativismo culturale, quella barbarie. Per questo trovo che bisogna porsi dei limiti anche nel rispetto delle altre culture; trovo veramente inqualificabile un tipo di relativismo culturale che significhi resa totale anche di fronte a fenomeni orrendi. Penso anche che il colonialismo europeo sia stato il risultato del declino delle società islamiche (o che comunque ne sia stato favorito): non il loro promotore.
Il colonialismo europeo ha approfittato di questo declino, e ha probabilmente contribuito a peggiorare la situazione di queste società, però non si può attribuire solo al colonialismo la colpa del declino, che è di molto precedente e le cui ragioni, anche all’interno del mondo arabo, non sono ancora ben chiarite. Io credo che, come dice giustamente Lewis nel libro che prima citavo, all’interno del mondo arabo e islamico ci sia un vittimismo che consiste sia nel trovare sempre dei colpevoli esterni del proprio declino, sia in un’assoluta e totale incapacità di autoanalisi e autocritica. Questo accentua ulteriormente il declino del mondo arabo e islamico e favorisce una reazione di tipo irrazionale e fanatica, che è quella rappresentata dall’integralismo, dall’Islam politico. Sul problema dei molti islam, invece, a quanto Cardini ha detto vorrei aggiungere che, così come il mondo occidentale penetra nelle varie culture del mondo e tende a una sorta di omogeneizzazione nei cui confronti ci sono spesso anche delle reazioni, altrettanto fa l’Islam fondamentalista, che tende a distruggere la ricchezza e la varietà delle culture musulmane per appiattirle su una versione dell’Islam schematizzata, sclerotizzata, ferma a otto-nove secoli fa, se non di più. Un problema diverso è quello dell’interlocutore. Soheib Bencheikh, il muftì di Marsiglia, che è anche persona molto aperta alla modernità e al laicismo, in un’intervista ha detto che l’Islam ha due vantaggi rispetto alla modernità. Il primo è l’assenza di un clero, cioè di un intermediario tra Dio e il credente, per cui ogni credente fa i conti personalmente con Dio; il secondo è, per usare le sue parole, “l’eterna giovinezza dell’Islam nell’interpretazione del Libro”. Ma Bencheikh aggiunge anche: “Sfortunatamente questo è troppo bello”. Ho trovato questa frase straordinaria, perché lui stesso riconosce amaramente che quel che dice non funziona.
Non solo, infatti, l’eterna giovinezza nell’interpretazione del Libro non è oggi realizzata, perché quella che prevale è un’interpretazione antica, sclerotizzante e schematizzante, ma, soprattutto, mi chiedo se questo vantaggio sia davvero un vantaggio. Non saprei dare una risposta sicura. Da un lato, il fatto che non ci sia un clero e che ci sia questo rapporto diretto con la divinità mi pare una cosa bellissima, una cosa sognata anche nell’Europa cristiana; dall’altro lato, questo rapporto diretto non vuol dire solo che il singolo fedele non ha bisogno di intermediari con Dio. Il fatto che ogni musulmano possa dare l’interpretazione che vuole comporta anche che, all’interno del mondo musulmano, ci siano tantissime persone legittimate, in pratica, ad emettere una fatwa. Anche il muftì di Marsiglia, proprio perché tale, può emettere una fatwa, cioè potrebbe dire, come Khomeini con Rushdie: “Andate dal tale e ammazzatelo, così andrete in paradiso”. Fortunatamente, le fatwa non sono tutte delle condanne a morte e possono parlare anche (nella maggioranza dei casi è così) di cose più normali. Ma qual è il problema? Possiamo tutti apprezzare che l’Islam conservi questa libertà di interpretazione, questa grande flessibilità, questo contatto diretto con la divinità che lo differenzia da altre religioni che invece richiedono sempre l’intermediario: purché sappia privarsi del potere di imporre idee, sentimenti, conformismi con la violenza, con la forza. E’ su questo che si gioca il problema del rapporto con l’Islam: al quale si chiede, cioè, di essere capace di vincere coloro (e oggi, ahimé, sono molti, e in crescita) che, al suo interno, vogliono mantenere questo potere impositivo, in nome di un “vero Islam” che ognuno di essi sostiene di impersonare.
Tratto dall rivista Una Città – www.unacitta.it