[È uscito la settimana scorsa il nuovo libro del nostro amico Roberto Carvelli. Un viaggio nell’Italia della campagna elettorale, Votare nel mucchio. Cronache da un Paese sprofondato nell’urna, Coniglio Editore.
Pubblichiamo il contributo di Zenone Sovilla, intitolato “Calcio, Scandinavia e bicicletta”].
Se penso al 9 aprile 2006 e mi sforzo di attribuire una cifra al mio stato d’animo, mi viene in mente il calcio, vecchia passione ormai in buona misura sopita e dismessa.
L’osservare, mio malgrado, le tristi evoluzioni dialettiche dei protagonisti della scena politica attuale ha risvegliato in me il ricordo di un fenomeno che credo sia familiare a chi segue le vicende sportive: il “tifo terzo”. Ne ho un vivido ricordo d’infanzia: la mia squadra era l’Inter. Un po’, perché era quella di mio padre e del mio migliore amico; un po’, perché avevo letto, mi pare sull’album Panini, che fu fondata da un gruppo di fuoriusciti dal Milan del quale contestavano i metodi un po’ autoritari; mi solleticava l’idea di quel manipolo di irregolari, che per giunta vollero sottolineare l’internazionalismo calcistico sia nel nome sia cooptando giocatori d’oltre confine. Ero rientrato da poco dall’estero con la mia famiglia e quella suggestione senza frontiere mi trasportava probabilmente in una dimensione rassicurante, attraverso le emozioni del pallone.
Avevo pure le mie antipatie e qui veniamo al punto: in special modo non sopportavo la Juventus, sarà per tutti quei discorsi che sentivo sulla Fiat – eravamo all’inizio inoltrato degli anni Settanta – e sui ricchi con la evve. La juve era un simbolo di potenza ma per me anche di protervia. Vinceva quasi tutto e comandava troppo, anche la fortuna.
Sotto casa, a Belluno, poi, c’era una sorta di circolo del Pci e sul grande prato lì accanto ogni estate spuntavano le bandiere rosse e i megafoni della festa dell’Unità del quartiere puntati verso la rosea parete rocciosa del Monte Schiara, zona di battaglie partigiane. Echeggiavano “Bella ciao” e qualche slogan sindacale sui padroni e gli operai: sentivo tutto dal giardino di casa mia ma qualche sera potevo viverlo in diretta: l’odore del fieno che si mescolava con quello delle patatine fritte. I libri sull’autogestione con la mazurka dell’orchestra spettacolo. E i “comunisti” ballavano. C’erano pure la parrucchiera di mia madre e il contadino che ogni mattiva ci lasciava la bottiglia del latte sul’uscio di casa. Comunisti? Forse sì; ma Berlusconi non lo sapeva.
Avevo su per giù dieci anni e mi resi conto di una cosa: non era possibile stare allo stesso tempo dalla parte dei padroni e degli operai. Per me i buoni erano i lavoratori e non vedevo proprio differenze fra un operaio e i miei genitori, piccoli commercianti che mandavano avanti da soli la baracca.
Non avevo dubbi: i cattivi stavano sull’altro lato del guado. E con loro la Juve, la squadra dei padroni; perciò speravo sempre che perdesse e tifavo per la squadra avversaria. A prescindere, o quasi. Salvo quando giocava contro il Milan: lì la scelta si faceva ardua e diventava determinante un’analisi della classifica in chiave nerazzurra.
Fu proprio grazie ai cuginastri rossoneri che molto più tardi, quando ormai seguivo solo distrattamente un calcio diventato un irritante showbusiness e un anestetico sociale, si celebrò tre le pareti domestiche la mia apoteosi del “tifo terzo”.
Stadio Meazza, 4 dicembre 1996: il Milan ospita i norvegesi del Rosenborg in una partita decisiva per l’accesso ai quarti di finale della Coppa dei campioni. A venti minuti dalla fine la situazione è incredibilmente di parità: i quasi dilettanti vichinghi dai piedi piombati sono riusciti a bucare lo squadrone di Arrigo Sacchi andando in vantaggio, ma facendosi raggiungere poco dopo. Però, non è finita: un improvviso colpo di testa di Vegard Heggem fa calare il polo Nord a San Siro; Rossi, in porta, è un pezzo di ghiaccio. Già mi stavo godendo l’inatteso pareggio, nel migliore spirito del “tifo contro” immaginandomi quanto doveva rodere a un padrone come Berlusconi. Un miracolo per i ragazzotti venuti da Trondheim: conoscevo alcuni di loro, perché proprio lassù, nella graziosa capitale storica della Norvegia, avevo trascorso alcuni anni. Ed eccoli, i pinguini magici, che vagano increduli per il campo mentre io sto a gattoni da quasi mezz’ora, da quando ero sceso dal divano per festeggiare il grande gol scandinavo zompettando sul pavimento.
Già, la Scandinavia. Forse è stato lì che si è solidificata, fossilizzandosi definitivamente, la mia idiosincrasia per la classe politica italiana: parolaia, elitaria, arrogante, gerarchica, vuota. Lassù, almeno, sentivo discorsi chiari che andavano direttamente al nocciolo delle questioni. Avevo la sensazione che la politica non fosse stabilmente rinchiusa nella sua torre d’avorio e non vivesse di rissosi riflessi condizionati come accadeva da noi. Intendiamoci, nulla di speciale: non che avessi scambiato la socialdemocrazia (e le sue inquietanti tentazioni dirigistiche) per un esperimento compiuto di socialismo autogestionario. No, semplicemente avevo la sensazione che a ogni individuo fosse riconosciuto un peso specifico maggiore che in Italia. Un po’ di rispetto in più per il mandato elettorale. In altre parole, una quota ragguardevole di potere sostanziale rimaneva nella disponibilità del legittimo detentore (il popolo sovrano) nel nome di un principio di pari dignità di ognuno. La piramide della rappresentanza politica era più bassa, più tozza, con il vertice più vicino alla base; ma pure meno opaca, un po’ più trasparente.
Quante volte, ascoltando alla radio o in tv qualche leader del nostro centrosinistra balbettare tragicamente su temi fondamentali, gli ho sussurrato a denti stretti di dire almeno qualcosa di socialdemocratico! Ma niente: anziché pronunciare qualche intendimento preciso (per esempio contrastare la distribuzione socialmente irregolare della sfiga: i dati empirici dimostrano che chi guadagna di meno si ammala di più e muore prima), i nostri ci ammorbano con le loro elucubrazioni da azzeccacarbugli oppure rincorrono Berlusconi sul terreno del non-sense politico.
Si tratta di una prassi che consente anche ai nostri sinistri figuri di occultare i loro stessi fallimenti, le linee brusche di perdita sociale derivanti anche dalle loro scelte politiche passate e presenti.
Un esempio? Nel profluvio di parole di centrosinistra che saturano l’agenda politica non c’è quasi spazio per un ragionamento serio su un problemino che attanaglia i cittadini ma che viene evidentemente considerato secondario: l’aria avvelenata che siamo costretti a respirare sapendo che ci fa male (3500 morti e oltre 60 mila malati l’anno, per l’inquinamento nelle città italiane, secondo il Rapporto 2002 dell’Agenzia nazionale per l’ambiente e dell’Oms). Ma loro, i nostri rappresentanti, bofonchiano frasi più o meno banali o evasive, avessero almeno uno slogan chiaro (tipo: “meno auto, più salute”); danno corso a provvedimenti cosmetici (come i vari piani d’emergenza sulle polveri sottili), perché in realtà non hanno il coraggio di ammettere che paghiamo oggi la follia della programmazione passata e che porvi rimedio in tempi ragionevoli, ormai, è impossibile. Ciò vale per i trasporti come per altre sfere essenziali della convivenza (a cominciare da produzione, lavoro e consumi).
Dunque, non si ammette una sconfitta epocale, si evita di finire spalle al muro a confessare l’impotenza provocata da decenni nei quali si è pensato prevalentemente ad assecondare le esigenze delle imprese di mercato, sempre più agguerrite, che veicolano il modello consumista passando anche sui cadaveri, se serve alla lotta per il profitto. Inutile illudersi: la classe dirigente (di centrosinistra) corresponsabile di questo stato di cose non confesserà i suoi fallimenti né, dunque, l’urgenza di un salto di paradigma: continuerà ad arrampicarsi sugli specchi, sprofondando nell’alibi e additando i modelli luminosi dell’ex laburista di guerra Tony Blair che piace tanto al’ex ministro Fassino e al cardinal Rutelli.
Un tempo, a insistere sulle distorsioni mortali del mercato, sforzandosi di individuare correttivi immediati nel nome della qualità della vita di tutti, erano le socialdemocrazie nordeuropee. E sappiamo come la sinistra italiana dell’epoca considerava i socialdemocratici. Ora a dire queste cose sono rimaste solo rare forze parlamentari e (molto di più e meglio) l’arcipelago dei movimenti antiliberisti. E sappiamo come il nucleo del centrosinistra considera, oggi, le ali radicali dello schieramento politico e i cosiddetti “no global” (categoria mediatica, quest’ultima, utilizzata prevalentemente dal potere per criminalizzare chi ha la lucidità di gridare che il re è nudo e di indicare prospettive di cambiamento per salvare il salvabile e andare oltre).
“La Tav si farà punto e basta. Su questo non si discute”, ha sentenziato il professor Romano Prodi, 13 febbraio 2006. Altro che democrazia partecipativa, pari dignità di ogni essere umano, eguali diritti alla salute, distribuzione del potere reale a tutti i cittadini nella misura massima possibile e conseguente svuotamento dai grandi centri di concentrazione del dominio politico e economico. D’altra parte, che cosa c’era da aspettarsi da chi ha avuto la bella pensata di farsi la campagna elettorale girando il Paese con un enorme Tir?
Il problema è che se l’inguardabile centrodestra del padrone arraffa quel che può, fra leggi private fatte su misura e varie amenità, anche il centrosinistra non fa che porre sistematicamente al centro della sua attenzione le richieste della classe imprenditoriale (lasciando beffardamente intendere che da queste dipendano quelle della generalità della popolazione). L’impressione è che il fallimento dell’esperienza di socialismo reale in Europa abbia accelerato la crisi di contenuti della sinistra occidentale favorendo l’appiattimento su posizioni neoliberali di gran parte degli eredi del movimento operaio e delle sue idealità. Sbiadiscono in questa deriva anche elementi acquisiti e incontrovertibili, come la necessità di un intervento pubblico per mitigare gli effetti collaterali dell’attività d’impresa, che altrimenti rischiano di prevalere sui benefici per la collettività. I costi sociali del mercato, infatti, sono un fenomeno empiricamente misurato sia in termini di morbilità e mortalità sia di danni (reversibili e non) all’ecosistema. Si tratta di costi che le imprese, per accrescere i profitti, tendono a trasferire all’esterno nella misura massima consentita (dalle leggi o dalla loro applicazione): una dinamica maligna che tende a accentuarsi in regimi a elevata concorrenza, perché la lotta si fa sempre più dura e senza esclusione di colpi (per abbassare i prezzi si peggiorano le condizioni dei lavoratori, la qualità dei prodotti, i rischi ambientali).
Tuttavia, ai nostri eredi del movimento operaio – abbagliati dal mito liberista – sembrano sfuggire questa e altre ovvietà, supportate da una notevole letteratura economica in gran parte espulsa dalle università del pensiero unico neoclassico.
Ecco, dunque, che le parole d’ordine di questo centrosinistra tanto ossequioso al cospetto di manager e cardinali, sono mutuate tout-court dal mondo dei padroni del vapore: gli impegni per il paese vengono presi nel segno della privatizzazione di tutto e del trasferimento della sovranità sul lavoro a chi detiene il capitale e ne fa un uso socialmente ricattatorio. Il lessico quotidiano, in politica, a scuola, all’università, nei media, usato per veicolare questo dogma, contempla frasi dense di “sviluppo, concorrenza, competitività, moderno, razionalizzare, liberalizzare, privatizzare, crescita, mercato, flessibilità, libertà, globalizzazione”. Marginali o assenti – anche nella cosiddetta sinistra moderata, che oggi più propriamente si potrebbe definire destra moderata – vocaboli quali “licenziamenti, malattie, giustizia sociale, equità distributiva, riequilibrio, padroni, ricchi, poveri, sfruttamento, socializzazione, mezzi di produzione, collettivo, autogestione, riduzione dell’orario di lavoro, mercati e produzioni locali”.
A ciò si aggiunga che molti nostri prodi della destra moderata (Rutelli, Mastella ma anche Fassino e chissà chi altri), compresa gente che una volta agitava il grottesco libretto rosso dei pensieri, sono stati folgorati dal cardinal Ruini sulla via della Riconciliazione e non riescono più neppure a considerare la religione e la (loro) politica due sfere separate: rapimenti mistici e Opa bancarie a braccetto.
Insomma, questa Unione è una una zuppa indigesta caratterizzata da ambiguità, omissioni gravissime, complicità in meccanismi che generano sofferenza sociale soprattutto per le classi meno abbienti. Tuttavia, la scheda elettorale non ci offre un’alternativa e per la legge del “tifo terzo”, data la situazione di emergenza sociale e democratica vissuta dall’Italia, non rimane che sostenere quest’armata Brancaleone per mandare a casa chi ha occupato il potere cinque anni rendendo i poveri più poveri e i ricchi più ricchi. Ma è un voto da dare criticamente, accompagnandolo, per quanto possibile, con iniziative per sollecitare una trasformazione. Bisogna affermare chiaramente che abbiamo un problema serio, se gli interessi generali proclamati da Fassino e Rutelli non coincidono, nella realtà empirica, con il benessere delle persone ma con quello delle aziende (e forse dello stato emotivo dei cardinali).
Si può immaginare che un governo di centrosinistra attenui gli attuali indirizzi politici orientati a consolidare il predominio economico e culturale della classe agiata; così come ci si può attendere qualche vergogna di meno in materie come lavoro, welfare, ambiente, giustizia, immigrazione, politica estera, libertà civili (anche se la stucchevole tragicommedia cattolicista sulle unioni di fatto lascia senza parole). Piccoli spostamenti che hanno un senso quando si cammina sull’orlo del baratro. Allontanarsi dal precipizio può voler dire, forse, anche trovare un terreno più fertile per cercare una sintesi – certamente di perenne provvisorietà sperimentale – delle pulsioni radicali di rinnovamento di un sistema formalmente democratico. Un sistema nel quale un candidato premier si permette di affermare “si farà punto e basta”, mentre migliaia di persone si mobilitano e prendono le manganellate per gridare il loro no a un’opera-business, in realtà socialmente inutile e dannosa.
Prendiamo atto che questo passa il convento Italia e che l’aderenza identitaria nel voto è una remota utopia; ma il 9 aprile evitiamo, almeno, i partiti che maggiormente si connotano come epigoni del pensiero unico: meglio una croce sulle forze minori, le cosiddette ali “radicali” rossoverdi oppure la nuova Rosa nel pugno dall’anima libertaria ma così maledettamente omologata in economia. Meglio sostenere questi guastatori che i simboloni dell’ala conservatrice, la culla dell’inquietante partitone futuro, rappresentata dai Ds (ma il Correntone che dice?), dalla Margherita (il grande contenitore in odor di santità) o dell’Udeur mastelliana (che ci fa nel centrosinistra?).
Nel futuro dell’Italia si aggira uno spettro: il partito democratico o del controllo sociale cattoliberista. Il 9 aprile si vota anche per scongiurare questo nuovo schiaffo “sinistro” alla memoria dei socialisti, dei comunisti e degli anarchici che si consumarono nelle lotte per conquistare le otto ore, il diritto di sciopero e molto altro, nel nome di principi universali oggi rimessi in discussione dai capitalisti a briglia sciolta e dai loro supporter politici.
Come si può riprendere il filo di quel cammino?
Il mio “tifo terzo” questo mi suggerisce: una vittoria del centrosinistra costretta, però, a far germogliare il seme del bene comune e del recupero della massima sovranità popolare sulle cose della vita: bisogni, produzione, consumi. Il potere di tutti, come diceva Aldo Capitini, il padre della nonviolenza italiana. Si potrebbe anche adoperarsi per una riforma che renda a termine e magari pure revocabile il mandato elettorale: una legislatura e poi via…
Altro che privatizzare l’acqua, cementificare il territorio o andare a pranzo col banchiere di turno. Altro che mediare tutto con le lenti del business e l’arroganza dell’eletto.
Zenone Sovilla [ da Votare nel mucchio di Roberto Carvelli (Coniglio Editore, 192 pagine, 13,50 euro) www.carvelli.it ]
IL COMUNICATO STAMPA
Comunicato stampa
Votare nel mucchio
Cronache da un Paese sprofondato nell’urna
di Roberto Carvelli
Coniglio Editore
Si profilano le prossime elezioni. Uno scrittore si muove come un curioso, fingendosi un indeciso qualsiasi, per sezioni di partito, assemblee e cene elettorali, raccoglie impressioni, annota, fotografa se stesso, fotografa simboli, con l’ausilio del telefonino, mentre fa anticamera in qualche sede di partito. L’imperativo è decidere su chi apporre l’indicazione – una volta “sprofondato nell’urna”, come recita il sottotitolo –, del proprio voto. Per informarsi domanderà a un’astrologa di divinare l’oroscopo dei due contendenti, chiederà lumi a un fotografo: affinché gli siano più chiare le posizioni che i due antagonisti via via assumono, ma non nella politica, bensì davanti agli obiettivi delle telecamere. Si produrrà in improbabili sondaggi testando un campione estremamente rappresentativo: telefonate a numeri a caso. Chiarirà i suoi dubbi dialogando con filosofi, portaborse, attivisti e spontaneisti? Il voto torna al suo valore primario e riacquista il senso di un segno tangibile, un dovere civico, un rito comune. Cambiano, intanto, modi e modalità operative, in un’Italia sempre più automatizzata e “televisizzata”. Ne nasce un insolito diario-reportage.
L’autore: Roberto Carvelli è nato a Roma nel 1968. Per la Coniglio Editore ha pubblicato La comunità porno (2004) e Kamasutra in smart (2005). Per la casa editrice Edizioni Interculturali, è uscito Perdersi a Roma (2004) . Con la Electa ha pubblicato AmoRomaPerché . Con Nonluoghi Libere Edizioni, Bebo e altri ribelli. La rivoluzione spiegata alle commesse . Con Voland, Letti (2004).