“La Tav si farà punto e basta. Su questo non si discute”.
Lezione di democrazia del professor Romano Prodi, 13 febbraio 2006. Non c’è che dire, questo centrosinistra sta facendo il possibile per allontanare da sé quella parte di opinione pubblica che nella scala delle priorità sociali mette ai primi posti il rispetto della salute umana e dell’ambiente, la pari dignità delle persone e la conseguente necessità di costruire nuovi spazi di informazione e di partecipazione democratica al potere. Spazi capaci di indebolire le oligarchie politiche ed economiche che attualmente ci governano ponendo sistematicamente al vertice della loro attenzione le esigenze della classe imprenditoriale (e lasciando furbescamente intendere che da queste dipendano necessariamente quelle della generalità della popolazione). Il centrosinistra propone una classe dirigente in buona parte inguardabile, supponente, arrogante e irritante; più attenta a un lieve malumore del cardinale o del manager che alla gente che ormai soffoca per l’aria delle città, resa letale da decenni di politiche folli, o mangia prodotti spesso di dubbia origine e qualità. Politiche folli su traffico, produzione industriale, energia, rifiuti: si è dato corpo al consumismo sfrenato, senza il minimo intervento politico per cambiare rotta (si va dritti verso il baratro) e ora si fa finta di niente e si parla d’altro fra ambiguità e mistificazioni.
Purtroppo, però, è una classe politica che ci dovremo tenere almeno per un po’, per liberarci di una truppa ancora più indigesta: il padrone Berlusconi e gli altri destri, maneggioni, ipocriti, finto-bacchettoni, spesso volgari e ancora più arroganti degli altri. Ma poi?
Poi, sarà urgente sforzarsi finalmente di individuare una sintesi – certamente di perenne provvisorietà sperimentale – delle pulsioni radicali di rinnovamento di un sistema formalmente democratico nel quale un candidato premier, mentre migliaia di persone si mobilitano per gridare il loro no nel nome del buon senso, si permette di affermare che un’opera in realtà pressoché inutile (ma da risolvere in un enorme business per pochi) “si farà punto e basta”.
Il signor Prodi, anziché sparare slogan vagamente autoritari da far invidia a Lunardi o Berlusconi, ci dovrebbe spiegare come mai la Tav “si farà punto e basta”. Ci dovrebbe documentare l’improvvisa richiesta di mobilità di persone o di merci tra Lisbona e Kiev. Forse non ce lo spiega, perché sa benissimo, il professore, che il “corridoio 5” è una sorta di realtà virtuale spacciata, con la complicità dei soliti mass media genuflessi, come opera fondamentale e irrinunciabile per gli interessi generali italiani. Strano che siano sfuggiti alla memoria collettiva i cortei oceanici di cittadini che nei decenni scorsi chiedevano la Tav…
Prodi dovrebbe sapere che nessun treno potrà viaggiare da Lisbona a Kiev, semplicemente perché questo corridoio virtuale si snoda lungo una linea il cui scartamento non è omogeneo e richiederebbe, per percorrerla in continuità, materiale rotabile multistandard, nuovo e molto costoso (la larghezza dei binari varia dai 1435 millimetri italiani e francesi ai 1676 portoghesi passando per i 1524 dell’Ucraina. Paese, quest’ultimo cui, secondo gli sponsor del grande business Tav, sono evidentemente rivolti i desideri di vagabondaggio dei nostri concittadini).
Dunque, sarà comunque un corridoio nel quale si viaggerà a singhiozzo, con almeno tre cambi di convoglio.
Senza contare che immaginare un ulteriore boom dei trasporti tra Europa occidentale e orientale significa, da un lato, enfatizzare il significato di una tendenza (maligna) in corso e dall’altro incoraggiarla: oggi, al contrario, una politica seria (di sinistra) dovrebbe essere orientata alla riduzione dei trasporti irrazionali di merci (come il latte dello Schleswig-Holstein consumato in Grecia e simili amenità) e di prodotti semilavorati (come gli abiti “tagliati” in Italia o Germania, cuciti in Portogallo o dintorni e riportati da noi per confezionarli) in Europa con danni gravi (ma non computati dalle agenzie pubbliche né addebitati ai responsabili) sia alla salute umana sia all’ambiente. Queste e molte altre risultanze analitiche sulla Tav dovrebbero essere note a chi si candida a governare (che brutta parola) il Paese. Dovrebbe sapere, tra l’altro, che è una bufala la presunta riduzione del traffico merci su gomma grazie alla Tav: altre esperienze dimostrano che non si produce questo effetto, senza contestuali misure che scoraggino l’uso indiscriminato dei Tir come magazzini viaggianti, cioè in assenza di una serie di deterrenti (pedaggi, tasse, divieti eccetera) che addebitino agli autotreni il costo reale del trasporto che conducono. Finora i governi italiani, al contrario, senza eccezioni di centrosinistra, hanno alimentato questo business ignorandone gli effetti negativi che le imprese di mercato trasferiscono sulla pelle e sul portafogli dei cittadini (l’impatto sul territorio di un autotreno viene paragonato in uno studio dell’Ufficio svizzero per l’ambiente a quello di mille autovetture).
D’altra parte, forse è troppo sperare che bazzecole come i 3500 morti e gli oltre 60 mila malati causati ogni anno nelle città italiani dalle emissioni dei motori, secondo il Rapporto 2002 dell’Agenzia nazionale per l’ambiente e l’Oms, ridestino l’attenzione di chi ha avuto la brillante pensata di farsi la campagna elettorale girando per l’Italia su un gigantesco Tir giallo. Senza contare, ovviamente, morti, feriti e invalidi da incidenti stradali (anche qui, ardua convivenza fra automobili e bisonti a venti ruote).
Un politico “moderato”, oggi, sulla Tav potrebbe dire qualcosa del genere: siamo di fronte a una diffusa opposizione popolare e va da sé che non possiamo prescinderne (siamo democratici); l’argomento andrà approfondito e valutato; così si potrà esaminare l’alternativa proposta dalle comunità interessate, cioè il potenziamento della ferrovia esistente la cui capacità è già oggi abbondantemente inutilizzata (si stima che sia sfruttata solo al 40%). L’enorme investimento (almeno 17 miliardi di euro) potrebbe essere in parte dirottato al miglioramento della rete ferroviaria nazionale e del preoccupante materiale rotabile: un intervento essenziale, se davvero si intende invertire la tendenza drammatica di espansione del traffico su gomma di merci e persone. Dovremo ripensare in buona parte la mobilità nel Paese, disegnare un progetto complessivo coinvolgendo tutti gli enti territoriali, investire concretamente sulla riduzione dei mezzi privati; rilanciare e incentivare (anche mediante la leva fiscale) ferrovia e trasporto pubblico, ma anche l’intermodabilità nella quale un ruolo importante può avere anche la bicicletta (ma Prodi non era un ciclista?).
Senza dimenticare la questione cruciale degli orari di lavoro che si intreccia con il problema della mobilità. Purtroppo in questi decenni l’opinione pubblica ha subito una sorta di lavaggio del cervello a colpi di spot con automobili che si muovono dentro scenari iuncontaminati e quasi onirici; quasi assenti, invece, i progetti politici e i messaggi promozionali sui mezzi collettivi e sulla bicicletta: dobbiamo invertire questa tendenza.
Fin qui, il buon senso; il resto non ha senso e diventa sospetto, se la premessa è il perseguimento degli interessi generali.
Naturalmente, discorsi di tenore simile si potrebbero fare anche per numerose altre dimensioni della vita individuale e collettiva: i consumi, la produzione, i mercati. Si può assecondare il modello dei mega centri acquisti e dei pomodori cinesi oppure mettere in piedi un percorso serio di razionalizzazione nel segno dello scambio territoriale, della valorizzazione delle produzioni locali, della riduzione del trasporto di merci e di conseguenza degli inquinanti che, per esempio, degradano la qualità degli alimenti di cui ci cibiamo. Dell’umanizzazione del lavoro e della qualità della vita.
Le linee di approfondimento in materia sono innumerevoli; stupisce che il tema, invece, sia sostanzialmente assente dall’agenda declamata nelle insistenti apparizioni televisive dai leader e leaderini del centrosinistra (tristi emuli del videoberlusconismo).
Ma tant’è. Questo passa il convento Italia e il 9 aprile dovremo scegliere per forza dentro questa triste Unione. Evitiamo, almeno, i partiti che maggiormente si connotano come epigoni del pensiero unico: certamente meglio una croce sulle forze minori, le cosiddette ali “radicali” rossoverdi oppure la nuova Rosa nel pugno, che sui simboloni dell’ala conservatrice, la culla dell’inquietante partitone futuro, rappresentata dai Ds (ma il Correntone che dice?), dalla Margherita (il grande contenitore in odor di santità) o dell’Udeur mastelliana (che ci fa nel centrosinistra?)…
Al momento, purtroppo, è questa l’alternativa all’orrendo centrodestra, alla coalizione che ha dato l’assalto alla diligenza costituzionale. Urge lasciarsi alle spalle cinque anni di governo che hanno reso i ricchi più ricchi e i poveri più poveri, agitando lo spettro dello straniero e altri allarmi buoni per il controllo sociale.
A proposito di politiche redistributive, è interessante notare che le linee di perdita legate alle attività di mercato (i costi, anche mortali, trasferiti dalle aziende alla collettività) continuano a crescere così come si accentua la loro distribuzione irregolare (chi ha meno soldi si ammala più facilmente e cessa di vivere prima, a causa di una serie di fattori, tutti empiricamente rilevabili nelle statistiche su morbilità e mortalità relative).
Tuttavia, se questa classe politica di centrosinistra (per meglio dire, di destra moderata) dobbiamo tenerci, ciò non toglie che sia necessaria una presa di coscienza sulla sua caducità, sul vuoto che rappresenta tragicamente. In poche parole, rispetto all’altra conventicola che ora ci governa, ci basta qualcuno che almeno stia un po’ fermo (ché se si muove troppo son dolori) e almeno non si appropri indebitamente del bene pubblico (oppure lo svenda agli amici) e non pretenda di imporre ai cittadini i suoi precetti morali con toni da guardiano della rivoluzione.
Il fatto è che pure qui ai nostri prodi tende a sfuggire di mano l’abc: come quando ci si attorciglia sul nulla per finire col negare anche l’elementare diritto civico rappresentato dal riconoscimento delle unioni di fatto oppure la necessità che l’Italia (probabilmente l’unico Paese al mondo oltre all’Iran in cui la tv pubblica racconta quotidianamente con dovizia di dettagli ogni sbadiglio di un leader religioso) si dia una regolata in termini di laicità, cioè di separazione fra organizzazione istituzionale pubblica e Chiesa cattolica, a tutela di tutti i cittadini, credenti e non. Elementare? Non per il cardinal Rutelli e altri volti ormai veramente vecchi di questa politica insopportabile e da ricostruire; da ricostruire con calma, certo, mentre questi qui proveranno un’altra volta l’ebbrezza del potere cui sono fin troppo protesi in una ubriacatura infinita delle personalità al posto delle idee, di faccione in tv e sui manifesti, di marketing sfacciato, come se la crescita collettiva fosse un dentifricio o uno shampo. Mentre tutt’attorno si consumano vere emergenze quotidiane sistematicamente ignorate.
Ma ricostruire, come? Per esempio, proponendo una semplice riforma del mandato elettorale: lo si trasformi a termine ed eventualmente pure revocabile dagli elettori. Un piccolo correttivo che, forse, potrebbe quantomeno invertire la tendenza di espansione dell’arroganza politica nella nostra epoca di manipolazione e mortificazione della massa.
Si può ragionare su un’architettura che abbia l’obiettivo di restituire al popolo la sovranità sottratta, spesso con l’inganno, da classi dirigenti che mirano principalmente a perpeturare se stesse. Prodi, forse, ritiene di avere ricevuto un mandato in bianco perché è risultato il più votato alle primarie? Pensa, forse, per esempio, che i tre milioni che lo hanno indicato siano tutti a favore della Tav? E se anche fosse? Che cosa dire degli altri quaranta milioni di elettori italiani? Servono meccanismi di verifica costante dell’operato del potere esecutivo, con possibilità di interferenza decisiva.
Dovremmo dedicarci un po’ di più alla confederazione elvetica e ai suoi continui referendum, non perché sia un modello ideale, ma perché almeno – pur con tutti i suoi enormi limiti – risveglia una certa attenzione alla partecipazione popolare.
Urge adoperarsi per l’introduzione di queste e altre riforme che tendano a rianimare la democrazia restituendole così anche la forza di farsi carico di una serie di correttivi forti necessari per contenere (se non evitare) i micidiali effetti collaterali del mercato che ormai tendono a essere predominanti sui benefici. E invece Prodi e i suoi ci ammorbano tutti i giorni con parole d’ordine noleggiate a destra, fra “competitività” e “concorrenza”, “liberalizzazioni” e “flessibilità”, come se non sapessero che si tratta di fenomeni con precise conseguenze sociali in termini di aumento della sofferenza umana, delle malattie, delle morti, delle diseguaglianze di reddito (con anenssi e connessi).
C’è un problema se gli interessi generali proclamati da Fassino e Rutelli non coincidono, nella realtà empirica, con il benessere delle persone ma con quello delle aziende (e forse dello stato emotivo dei cardinali).
C’è un problema se, per esempio, di fronte all’emergenza produzione, lavoro, consumi, inquinamento e traffico (che fa sistematicamente vittime sul campo), non si dicono parole precise, se questo e altri temi di quotidiana gravità non sono il fulcro, il baricentro della proposta di chi si candida a governare “da sinistra”.
Perciò bisogna inventare meccanismi capaci di indurre costoro a riportare al centro dell’azione queste cose, non le scalate bancarie, le riforme del tfr, la Tav, la riduzione delle tasse alle imprese (che già non sono chiamate a risarcire i costi sociali che producono) o altri argomenti di scarsa urgenza sociale.
Cercano insistentemente di convincere l’opinione pubblica che dalla salute del libero mercato deriva il benessere di tutti; mentre il risultato – visibile anche a occhio nudo – è in larga parte esattamente l’opposto e dunque la classe politica dovrebbe perlomeno esprimere qualche preoccupazione di socialdemocratica memoria; invece è diventata la fanfara del capitalista. Punto e basta e non si discute.
Perciò urgono nuovi strumenti di controllo di questa politica impazzita. Però, bisogna pure cercare di darsi una prospettiva più profonda: tendere a depotenziare e a svuotare i punti di elevata concentrazione di potere/dominio (politico ed economico); immaginare un vero federalismo/municipalismo democratico che consenta di attenuare/cancellare il centralismo, di catalizzare la partecipazione popolare alle decisioni che ricadono su ognuno, di conservare però – ma in un contesto reticolare, non più gerarchico – un’architettura volta alla solidarietà generale e al coordinamento delle azioni.
Sarebbe opportuno, nel segno del bene comune, decostruire le torri d’avorio ovattate del potere politico ed economico, sorrette da intrecci di interessi e dai loro pseudoconflitti. E poi distribuirlo, questo potere, a tutti i cittadini nella misura massima possibile (che di certo non è quella odierna, anzi…).
Un lavoro che naturalmente deve coinvolgere anche le sfere sovrannazionali, a cominciare dall’Unione europea la cui deriva dogmaticamente liberista appare sempre più evidente (rimarchevole, in questo senso, il contributo della presidenza Prodi).
Utopia? In parte sì: quella cui tendono le comunità che hanno l’ambizione di migliorare lo stato delle cose e di ridurre il livello di sofferenza individuale e collettiva.
Si tratta di un tema complesso e assai stimolante sul quale ora non mi dilungherò. Si veda, in proposito, tra l’altro, il sito dell’associazione Rete del Nuovo Municipio [ www.nuovomunicipio.org ] che offre una corposa dotazione di materiali di approfondimento e di informazioni per riflettere su un orizzonte politico che ci porta fuori dall’asfittica arena nazionale.
Facciamo pure il possibile per mandare a casa chi ha occupato il potere in questi cinque anni; ma a chi quel potere prenderà in mano per fare “meno peggio” ricordiamo incessantemente la necessità di destrutturarlo e restituirlo alla sovranità popolare nel nome, innanzitutto, della tutela della salute e della pari dignità di ogni persona: principio elementare ma disatteso quasi sistematicamente da chi, come il cardinal Rutelli, si preoccupa più degli embrioni congelati che dei bambini soffocati dallo smog; più dei profitti delle aziende che dei dolori di chi ci lavora da subordinato. Brutto segno, quando la sinistra smemorata dimentica di essere l’erede del movimento operaio e di oltre un secolo di lotte avvenute nel nome, innanzitutto, della pari dignità delle persone e della tutela della loro salute fisica e psichica. Del riequilibrio del rapporto iniquo fra capitale e lavoro (ma anche del suo definitivo superamento).
Altro che i pranzetti con i direttori di banca.
(zenone sovilla)