[ Tratto da A Rivista anarchica, febbraio 2006, www.arivista.org ]
Spesso, in questi anni di governo Berlusconi, mi son trovato a raffigurarmi una scenetta su un canovaccio che, in qualche modo, mi pareva verosimile. Passata la giornata ad assumere faticosi atteggiamenti democratici, Fini rientra a casa stremato, si toglie giacca e cravatta e, in maniche di camicia, si siede a tavola e accende la televisione. Al telegiornale c’è Berlusconi che, tutto giulivo, dice a chiare lettere: “Il parlamento è una gran perdita di tempo. In realtà non conta nulla, tanto è vero che le decisioni le prendiamo altrove. Poi, purtroppo, bisogna passare dalle camere dove, per far vedere che qualcosa fanno per guadagnarsi lo stipendio, tutti i parlamentari si sentono in dovere di prendere la parola.
Lavorare così, credetemi, è una fatica improba!”. A Fini cade il cucchiaio nella minestra. Subito squilla il telefono, Daniela risponde, copre la cornetta e sussurra “Gianfranco, è Fisichella”; e lui, con la faccia sulla tovaglia: “Digli che non ci sono…”.
In una sua bella canzone, Francesco Guccini dice che per la battuta si farebbe spellare. Il problema di Berlusconi, o meglio dei suoi alleati, pare il medesimo: è che lui proprio non ce la fa a star zitto, dice tutto quello che gli passa per il cervello, che evidentemente è pieno zeppo di pensieri che altri troverebbero irriferibili.
E allora giù con la superiorità della civiltà occidentale su quella islamica (proprio a fagiolo, con le torri gemelle ancora fumanti), avanti con le segretarie italiane gnocche e compiacenti, con le corna in testa a un dignitario spagnolo e con la proposta di far spupazzare un po’ la moglie da un altro bel ministro estero (“Rasmussen è il primo ministro più bello d’Europa… Penso di presentarlo a mia moglie, perché è molto più bello di Cacciari… Secondo quello che si dice in giro…”).
E via continuando, tra un kapo e un branco di turisti della democrazia, fino alla madornale dichiarazione di essere riuscito a risolvere una controversia a livello di Unione Europea convincendo la presidentessa danese a favorire l’Italia grazie alle vecchie armi del playboy, povera donna. La battuta a tutti i costi, insomma, come quando durante un vertice internazionale e dopo che il presidente del Togo aveva appena finito di esporre la disperata situazione del Malawi, dicendosi certo che 13 milioni di persone moriranno di fame nel prossimo futuro, si rivolge alla platea battendo le dita sull’orologio e dicendo “Bisogna accorciare gli interventi perché la nostra non sarà una tragedia, ma anche noi abbiamo fame”.
Uno così, c’è poco da fare, ti imbarazza. Tanto più che quando prova a metterci una pezza vien da rimpiangere il buco: ho detto che i giudici sono dei disturbati mentali antropologicamente diversi dal resto della razza umana? Ma via: quando mi intervistavano ero ubriaco! Non fatela lunga e sentite piuttosto questa bella barzelletta sui finocchi…
In questi anni, dicevo, mi divertivo a immaginare le reazioni dei compagni di coalizione di fronte a queste sparate.
E li pensavo, di volta in volta, esterrefatti o scoraggiati nel vedere i loro sforzi per rendere presentabile un governo che, tra l’altro, ha il ministro dei lavori pubblici che “convive” con la mafia, puntualmente frustrati dalle dichiarazioni e dai comportamenti da mentecatto del loro capo.
Per intenderci, parliamo di uno che dichiara che con l’euro sentirà un po’ di nostalgia per la lira perché “ne ha fatta tanta”, o che se le tasse sono troppo alte è morale evaderle. Roba da farti cadere le braccia, insomma; tanto più che queste cose non le dice dopo cena ai suoi amici ricchi, ma le spiattella in faccia a milioni di persone, molte delle quali di “lira” – come dice lui – ne hanno sempre fatta poca, e magari sono lì intenti a far due conti per far tornare il pranzo con la cena. Costoro, per buon peso, si sentono adesso dire, anzi ripetere, che se lo voteranno, bene, e se non lo voteranno sapete che c’è di nuovo? Chi se ne frega. Lui prende, parte e va a Tahiti in barca. Bisogna ammetterlo: a modo suo è un grande.
Di fronte a dichiarazioni di questo tenore, la prima reazione è pensare di aver di fronte un completo sprovveduto. La mia impressione, però, è che questa lettura non sia del tutto corretta. Berlusconi non è certo quest’aquila che qualcuno vuol farci credere, ma d’altra parte non credo sia neppure un salame, come si potrebbe definire con un giudizio frettoloso; non foss’altro, perché il presidente del consiglio dispone dell’assistenza di esperti di comunicazione che sono certamente attenti a quel che dice e a quel che fa, e che di continuo cercano di aggiustare il tiro della sua immagine pubblica, con in mente un obiettivo ben preciso.
Credo, così, che molte delle stupidaggini che Berlusconi quotidianamente sciorina non siano tutta farina del suo sacco, ma siano, invece, in larga parte una commedia messa in scena allo scopo di guadagnare la simpatia di determinate fasce dell’elettorato di destra, rubacchiando, in altri termini, i voti dei suoi stessi alleati. È il teatrino dell’impolitica, cioè lo stesso copione che Berlusconi va recitando dai tempi della sua “discesa in campo”, quella recita nella quale il caudillo di Villa San Martino impersona l’uomo comune che, a disagio con le pastoie del politichese, spiazza tutti col suo linguaggio semplice e diretto, anche se un po’ grossolano.
Una specie di Bertoldo in doppiopetto, che magari si pulisce le unghie con la forchetta, ma che è abituato a dire pane al pane e vino al vino, senza tutti quei giri di parole dei quali i “professionisti della politica” sembra non possano fare a meno.
Tutte balle, ma intanto…
Certo, un tempo i nostri politici erano anche troppo paludati, così come lo erano i loro linguaggi. Ma quando sento il presidente del consiglio presentare un proprio candidato che di mestiere fa il ginecologo come “uno che ha le mani in pasta” confesso di sentire nostalgia per le convergenze parallele. Si potrà obiettare che di stupidaggini se ne sentivano anche prima, come quando Carlo Donat-Cattin, ministro della sanità, dichiarava che l’AIDS è una malattia che riguarda solo chi se la va a cercare. Ma non si può negare che la situazione complessiva era radicalmente diversa, tant’è che su Donat-Cattin, oltre che sulle sue dichiarazioni, veniva spesso calato un velo pietoso.
Le cadute estetiche – se vogliamo chiamarle così – nei discorsi di Berlusconi non si contano, e certo non devono essere salutate con entusiasmo dai suoi alleati, che immaginano il gradimento del governo diminuire, magari anche solo un po’ alla volta, in coincidenza di ogni nuova facezia da avanspettacolo.
L’antico (1988) accostamento di papa Wojtyla al Milan (“sempre in giro per il mondo a portare un’idea vincente”), o le boutade sull’essere l’unto del Signore (cioè il Cristo, mica meno) per esempio, non faranno piacere a tanti elettori cattolici, né la barzelletta del medico che propone a un malato di AIDS le sabbiature (“così si abitua a stare sottoterra”) avrà rallegrato chi ha un amico o un familiare sieropositivo, persone che non necessariamente hanno votato a sinistra.
Accanto a questo, c’è un altro lato dell’atteggiamento pubblico di Berlusconi che promette di fare ancora più danno alla coalizione di governo.
L’entusiasmo, l’ottimismo, qualità che sono benefiche quando trovano un certo grado di corrispondenza nella realtà, ma che diventano malefiche e deleterie quando sono, come si dice, fuori dal mondo. Per capirsi, è cosa buona che se una mattina ci si sveglia con il raffreddore non gli si dia importanza e si confidi che passi da sé in un paio di giorni, ma è cosa pessima fare altrettanto se ci si rompe una gamba.
La propaganda personale del presidente del consiglio, soprattutto quando si toccano temi economici, sotto questo aspetto è sconcertante: va tutto bene. Ma non nel senso di complicati ragionamenti di macroeconomia; no, proprio nel senso che gli italiani, i singoli italiani, sono ricchi: hanno tutti due automobili, qualche telefonino (“in classe di mio figlio, la maggior parte dei bambini ne ha addirittura due”), vanno in vacanza in luoghi esotici e non usano i mezzi pubblici.
Se l’economia va male è solo perché gli italiani non comprano abbastanza, il che mi pare francamente una contraddizione perché non credo che le due macchine di prima gliele abbiano regalate.
Ora, questo tipo di propaganda potrà forse, anche se lo dubito, sembrare verosimile a chi tutte queste cose le ha davvero. Ma certo non se la beve chi l’automobile non ce l’ha perché non saprebbe con che soldi comprarla, né chi in vacanza non può andare perché ha due figli e uno stipendio, né le centinaia di migliaia di pendolari che ogni mattina si alzano alle sei per arrivare, in treno, al lavoro alle otto e mezza.
Tutti questi, come minimo, si sentiranno presi in giro, e non credo che sia una buona premessa per il momento in cui la Casa della Libertà tornerà a chiedere il loro voto. Poi ci ripensa, il Berlusconi, e viene fuori che sì, è vero, in effetti ci sono tante famiglie che non arrivano alla fine del mese. Ma questo è perché le massaie, come dice lui, non sanno fare la spesa. Pronti, ecco qui che ve lo spiega lui come si fa. Prima di tutto, le cose non si comprano nei negozi (e così son serviti i bottegai, che non vedranno l’ora di rivotarlo) ma al mercato, scegliendo il banco che, a parità di qualità, pratica i prezzi più bassi, “come fa mia mamma”.
Insomma, se i soldi non ti bastano, è perché tua moglie non ha criterio.
Nei primi tempi, l’entusiasmo ostentato aveva dato i suoi frutti. In molti ricorderanno Emilio Fede che annunciava ogni sera l’apertura di decine di nuove sezioni – pardon, nuovi club – di Forza Italia nei luoghi più disparati.
Venne fuori che erano tutte balle, ma nel frattempo il partito di Berlusconi e dei suoi ragazzi era riuscito a guadagnare ampia notorietà presso le persone che non si interessano di politica: proprio quella fascia dell’elettorato che gli strateghi di Arcore intendevano raggiungere.
Adesso, però, la questione non è più tanto semplice. Anche chi non si interessa di politica o chi, con incomprensibile compiacimento, dice che la politica “non la capisce” non può non essersi accorto che le cose non vanno bene per niente. Se, infatti, per capire come funziona una riforma elettorale ci vogliono dieci minuti di attenzione, accorgersi di non potersi permettere di cambiare, non dico la macchina, ma le gomme è un lampo.
Chi “non capisce” la politica potrà anche rimanere impressionato dallo sbandierato record di durata del governo, ma se la Casa della Libertà ha perso tutte le elezioni dal 2001 a oggi significa senza ombra di dubbio che in molti, anche tra costoro, non l’hanno più votata, e forse vedono questo record non come un motivo di giubilo ma di doglianza.
Mamma, li comunisti!
Sarebbe semplice, quindi, leggere gli atteggiamenti di Berlusconi come puri e semplici sintomi di inossidabili manie di grandezza e di protagonismo a oltranza. Sospetto che l’uomo – lui dico – sia proprio così: un traffichino di bassa o punta cultura che, come scriveva Luigi Pintor, conosce come unico modello di successo il “cumènda” brianzolo che, infagottato nel doppiopetto, va fiero dei propri denari e della propria ignoranza; del resto, lo stesso Berlusconi si è pubblicamente vantato di non aver letto un libro da più di vent’anni perché “troppo impegnato con il lavoro”.
Sarebbe semplice, certo, ma probabilmente sarebbe sbagliato: sebbene Berlusconi ci metta spesso e volentieri del suo, credo che in generale il modo in cui si presenta e il tenore delle sue esternazioni non siano soltanto frutto di abissale dabbenaggine, ma siano invece ritagliati su di uno schema attentamente messo a punto dai suoi consigliori, un modello che rappresenta una declinazione inedita del populismo e che mira a fidelizzare o a convincere determinate categorie di elettori o di potenziali tali.
Se presentare la presidentessa uscente della provincia di Milano Ombretta Colli – giusto per fare un altro esempio – come “una bela tùsa” che “ha ancora una bella voce e presto, mi dicono, tornerà a cantare” (tra parentesi: ci è tornata) è chiaramente farina del suo sacco, il canovaccio delle tante esternazioni e dei tanti atteggiamenti del presidente del consiglio è però costruito a tavolino, scientemente e ponderando i pro e i contro.
Per rendersi conto di questo, basta riflettere sul fatto che, sebbene forse con minor frequenza, cose del genere Berlusconi le diceva e le faceva anche in campagna elettorale quando, cioè, i voti non doveva conservarli ma, soprattutto, doveva guadagnarli. È quindi interessante capire dove questi voti sono stati cercati allora, per capire quale sia la funzione degli atteggiamenti di adesso.
Il semplicistico messaggio che, fin dalla sua comparsa sulla scena politica, la propaganda di Forza Italia è andata martellando è che esiste un’entità sommamente malvagia chiamata “i comunisti”, nella quale rientra l’intera porzione dell’arco costituzionale non alleata con Berlusconi, da Bertinotti a Mastella (per quest’ultimo, almeno mentre sto scrivendo).
Con ciò, a mio parere, si può escludere che Berlusconi abbia mai cercato di sottrarre voti al centrosinistra; piuttosto, la campagna elettorale di Forza Italia è invece stata orientata fin dal principio a raccogliere le preferenze di persone che avevano già deciso di votare a destra, o che non avevano ancora deciso se votare o no ma che, in caso affermativo, avrebbero votato senz’altro a destra.
In occasione delle ultime elezioni politiche, si è cercato di raggiungere questo obiettivo scuotendo i potenziali elettori dormienti, quelle persone, cioè, che pur condividendo una generica preferenza per la destra (o un’avversione per la sinistra) non sarebbero andate a votare.
Sebbene l’astensionismo sia in Italia un fenomeno piuttosto diffuso tanto a destra che a sinistra (almeno per gli standard europei), questo è più marcato tra i potenziali elettori di destra, presso i quali è più frequente un considerevole grado di disaffezione politica che finisce per far loro percepire l’esercizio del diritto di voto come un fastidio.
Il populismo di Berlusconi è ritagliato su misura del qualunquismo caratteristico di questi elettori potenziali che, indifferenti verso la comunicazione politica tradizionale sono proprio per questo attratti da una propaganda elementare che evita fino al dettaglio ogni riferimento a temi politici ma che, in compenso, sfrutta in abbondanza il vocabolario del discorso da bar e da scompartimento ferroviario.
Non ci sarebbe nulla da dire se manifesti sui quali si legge “Un buon lavoro anche per te”, “Città più sicure”, e, più di recente, “Voto Forza Italia perché non leggo ‘Repubblica’ e me ne vanto” oppure “Voto Forza Italia perché è guidata da un uomo che per me è un esempio: Silvio Berlusconi”, pubblicizzassero, per esempio, un’agenzia di collocamento, un antifurto o un quotidiano, ma se sono strumenti di propaganda politica diventano ipso facto grevi e volgari, perché elevano la mancanza di contenuto a contenuto in sé, pretendendo il diritto della vacuità di farsi sostanza.
Strizzate d’occhio e gomitatine
Queste considerazioni valgono sia per la fase della campagna elettorale vera e propria sia per quella in cui il partito di Berlusconi ha governato. In effetti, non sembra che dal punto di vista del tenore dei messaggi né da quello del loro contenuto (o meglio, della sua assenza) si possano registrare dei significativi cambiamenti tra prima e dopo l’insediamento del governo. Come si dice, la campagna elettorale, per Berlusconi, non è mai terminata; semmai, ha guadagnato mezzi, soprattutto come conseguenza del controllo sulle reti televisive statali, che ha consentito alla maggioranza di governo in generale – e a Forza Italia in particolare – di imprimere forza soverchiante alla propaganda attraverso una radicale modifica del palinsesto.
Da un lato, infatti, sono state rimosse tutte le voci critiche: i casi di Santoro, Biagi e Luttazzi sono i più noti, ma lo stesso discorso vale anche per il bel RaiOt di Sabina Guzzanti e per la soppressione dell’Elmo di Scipio di Enrico Deaglio, un programma di approfondimento che andava in onda in seconda serata su Rai 3, chiuso senza colpo ferire (e nel disinteresse quasi totale dell’opposizione) dopo una puntata dedicata alle infami giornate del G8 genovese. Dall’altro lato, l’offerta culturale delle reti Rai è andata progressivamente assottigliandosi, fino a scomparire pressoché del tutto in favore di fiction, reality show, varietà e film d’azione, oltretutto di un livello spesso così infimo che alla nostalgia per le convergenze parallele si aggiunge quella per Alberto Lupo, per La Cittadella e per A come Andromeda.
I due aspetti, si badi, non sono indipendenti; sono anzi legati con nodo stretto ed entrambi funzionali alla propaganda di governo.
Tanto la critica quanto la cultura sono rimosse perché, sia l’una che l’altra, presentano modelli alternativi a quello che i consigliori di Berlusconi vanno pazientemente imponendo. Se una trasmissione sulle violenze di Bolzaneto stride con gli attestati di stima incondizionata che Buttiglione, Fini, Castelli e Scajola (detto Sciaboletta) indirizzano alle forze dell’ordine nei giorni immediatamente successivi ai massacri, un documentario sulla musica barocca, per esempio, fa addirittura a pugni con un servizio del telegiornale dove il presidente del consiglio incita a gran voce una belloccia candidata alle amministrative con un impagabile: “Dài, Viviana: fagliela vedere!”, con tanto di strizzate d’occhio e gomitatine a destra e a manca per chiarire che non c’è doppio senso, ma soltanto uno. Il deserto di argomenti e la profonda incultura, non solo politica, sui quali Forza Italia si fonda – una caratteristica comune a ogni esperimento populista – diventerebbero eclatanti se le stesse persone alle quali la propaganda di Berlusconi si rivolge avessero a disposizione un’offerta culturale, non dico variegata e profonda ma perlomeno sufficiente.
Si potrà obiettare che ci sono le librerie e le edicole (oltre che le biblioteche), dove l’offerta culturale indubbiamente esiste, e dove è anche possibile incontrare numerose voci critiche rispetto al mainstream governativo. Questa obiezione, però, non tiene conto di quale sia l’idealtipo di elettorato che la propaganda berlusconista prende realmente di mira, cioè quello formato da persone con la capacità critica di “bambini di seconda media” che “per di più non siedono nemmeno nei primi banchi”, come lo stesso “premier” ebbe a dichiarare durante vari incontri con i suoi candidati.
Come ragazzini un po’ somari che siedono in terza o quarta fila a leggere l’Intrepido mentre la professoressa spiega il Leopardi, questi elettori che Berlusconi assume come obiettivi da raggiungere si informano esclusivamente dalla televisione, magari se nelle pause pubblicitarie dell’Isola dei famosi incappano in qualche telegiornale, sono entrati in libreria solo per fare un regalo per la comunione del figlio di qualche conoscente (per quelli degli amici, il libro è surclassato dalla racchetta da tennis o dal videogioco) e in edicola ci vanno, tutti i giorni, per comprare il giornale locale e la Gazzetta dello sport. Sembra, questo, un punto chiaro nella strategia di Berlusconi, come in più occasioni egli stesso puntualizzò: bisogna stare sempre attenti a parlar semplice, dato che l’elettore ha l’intelligenza media di un bambino di anni undici.
Ora, non è vero che tutti quelli che hanno votato Berlusconi sono così, ma è vero però che il messaggio pubblicitario del partito del “premier” è orientato per catturare l’attenzione e le simpatie di persone che corrispondono proprio a questo modello.
Dato il ruolo preponderante svolto dalla televisione nella formazione della coscienza critica di queste persone, l’abbattimento dell’offerta culturale televisiva svolge nei loro riguardi la stessa funzione della censura delle voci dissenzienti: se non vi sono argomenti, appare rassicurante chi non ne propone, e barboso, inconcludente e sospetto diviene chi mostra di averne. Viene così data voce al risentimento che il tifoso del bar sport nutre verso l’avventore che prende il caffè leggendo il giornale e non associandosi alla diatriba su Del Piero, al muto disprezzo del rissoso per chi non accetta la provocazione e mette a tacere il prossimo senza parole grevi: questo modello, questo comportamento, sono diventati fuori dal mondo.
“Se solo avessi il 51% dei voti…”
Se, in passato, vittime di questa strategia a lungo termine sono stati soprattutto gli avversari del centrosinistra, in questi ultimi tempi anche gli alleati di governo ne fanno le spese, e rischiano di vedersi azzannare dalla stessa tigre che hanno cavalcato e nutrito per un decennio. Follini avanza pesanti critiche alla leadership della coalizione? Bene, prima Berlusconi lo definisce “una metastasi”, poi rilascia un’intervista dove racconta una vecchia barzelletta sui democristiani mangiatutto. Lega e AN litigano sulla c.d. devolution? Lui lascia passare qualche giorno e, quando le acque si sono calmate, dichiara ai giornali di aver lasciato “che i ragazzi si sfogassero un po’”, così che gli argomenti politici vengono zittiti dal vuoto argomentativo, cioè dal nessun argomento che si è fatto discorso.
Del resto, come si è visto, la propaganda di Berlusconi non è mai stata orientata a guadagnare voti dal centro sinistra ma, al contrario, a prendere i voti delle persone che avrebbero comunque votato a destra.
In questo frangente ciò si traduce nel fatto che, piuttosto che a sottrarre elettori agli avversari, la strategia di Forza Italia mira a sottrarli agli alleati. Sapendo che mai e poi mai si potrà registrare un esodo significativo di voti dal centrosinistra al centrodestra e, tantomeno, dal centrosinistra a Forza Italia – ché forse qualcosina si potrebbe muovere tra Margherita e UDC –, Berlusconi mira a raccattare voti dagli altri partiti della CdL, che perciò divengono, più che Prodi e le sue armate, rivali, dunque nemici da combattere con la sola arma che Berlusconi possegga: la mancanza di argomenti travisata in sfottò, dileggio, sufficiente benevolenza. “Se solo avessi il 51 percento dei voti, allora sì che saprei ben io cosa fare…”: tutti i problemi, da quelli di politica internazionale a quelli di chi, ci dicono le indagini di mercato, non può permettersi di comprare il latte l’ultima settimana del mese, dipendono dal fatto che Berlusconi è circondato da un branco di coglioni, che bisogna sopportare solo perché altrimenti la maggioranza la avrebbero i comunisti, e allora sarebbe terrore, miseria e morte.
L’elettore che Berlusconi ha in mente quando inscena questa propaganda, quindi, è una figura tutto sommato abbastanza precisa. Collocato a destra più con la pancia che con la ragione, non ha però una precisa preferenza per nessuno dei partiti della Casa della Libertà.
Di bassa o bassissima cultura, si nutre della morale del risentimento per mascherare il senso di inadeguatezza che avverte, a torto o ragione, nei confronti di chi ne sa più di lui. Non si intende di politica, prima di tutto perché non la segue per il timore di non comprenderla, e accoglie perciò con simpatia gli slogan facili perché, ripetendoli, prova la sensazione di partecipare, anche lui, al dibattito pubblico.
Per capirsi: se discutere di proporzionale e maggioritario richiede qualche nozione di educazione civica che non tutti posseggono, per dire che Bandiera Rossa (anzi, Avanti popolo) è una “canzone di odio” basta avere la lingua in bocca.
Il persistente leitmotiv delle “massaie”, inoltre, fornisce di questo elettore anche una collocazione geografica ed economica: Berlusconi, così sembra, ha in mente famiglie di tipo tradizionale dove il marito lavora e la moglie si occupa della casa e della spesa, un modello famigliare oggigiorno diffuso prevalentemente nei piccoli centri, nelle campagne.
Non a caso, il TG4 di Emilio Fede – il bollettino berlusconista che più dà risonanza a ogni sortita del “premier” – va in onda in un orario che cade a ridosso del momento in cui, per tradizione e abitudine, nelle campagne e nei paesini ci si siede a tavola e, cenando, si accende la televisione.
Il punto, infatti, che gli esperti di comunicazione di Forza Italia hanno ben chiaro, è che, a scapito del fatto che la scienza politica abbia definito un modello di democrazia al cui centro sta il ruolo che elettori informati e consapevoli svolgono nella vita pubblica, le cose non stanno nella realtà esattamente così.
Infatti, tra gli elettori (o tra i potenziali tali) vi sono migliaia, forse milioni di persone che le cose che Berlusconi dice le hanno dette, o hanno sognato di dirle, per anni: che “i politici” rubano gli stipendi, che per scrittori, artisti e intellettuali ci vorrebbe un po’ di miniera, “così lo vedono che cos’è la fatica”, che chi non ha soldi non ha voglia di lavorare o, se lavora, spende talmente tanto in stupidaggini che poi, per forza che lo stipendio non gli basta; e poi tutta questa cultura che serve soltanto a giustificare gli stipendi dei “professori”, “mentre io lavoro da quando ho quattordici anni”, e i giornalisti che pur di far notizia scriverebbero qualunque cosa, o che vanno in Iraq a farsi rapire “tanto il riscatto glielo paghiamo noi, coi soldi delle nostre tasse”.
Queste e altre considerazioni non vengono più soltanto pensate o recitate a qualche malcapitato incontrato sul treno, ma si possono sentire ogni giorno in televisione, e con toni neppure troppo diversi. E non è uno qualunque a dirle, ma il presidente del consiglio in persona che, finalmente, dichiara a gran voce: le cose sono così come voi avete sempre pensato; per di più, si possono dire proprio con le stesse parole che usate voi. E così lo votano, o lo rivotano.
Quei livorosi qualunquisti
A meno che tutti i sondaggi siano stati fatti coi piedi – il che è sempre possibile –, la Casa della Libertà perderà le prossime elezioni politiche, nonostante la legge elettorale da poco approvata potrà in qualche misura mitigare la sua sconfitta.
Credo che questo, al di là delle dichiarazioni fiduciose per onor di bandiera, gli esponenti dei partiti della CdL lo abbiano ben presente. Il problema che essi adesso si trovano ad affrontare, quindi, non è tanto quello – che riguarderebbe l’intera coalizione – di cercare di vincere le elezioni, quanto quello – particolare, proprio di ogni singolo partito – di perdere meno degli altri.
Da questo punto di vista, l’alleanza è già sciolta, perché i diretti avversari di ciascuna formazione politica che compone la CdL non sono da ricercarsi nello schieramento di parte avversa, ma all’interno dell’attuale maggioranza.
Della credibilità del governo, in definitiva, non importa più niente a nessuno: ciascuno, anzi, ha interesse a sottolineare che, se l’esperienza di questo lustro è stata un disastro, ciò è accaduto per l’insipienza o la malafede degli alleati, nonostante il proprio partito abbia cercato in tutti i modi di farvi fronte.
Si è visto che Berlusconi, questa corsa, l’ha cominciata prima degli altri (“ah, se avessi il 51 percento…”), e bisogna ammettere che è stato aiutato molto spesso da quelle dichiarazioni dei suoi alleati che ribadivano in lui “il solo leader possibile per la Casa della Libertà”, conferendogli così il titolo di “Miglior fico del bigoncio” da spendere alla prima occasione.
Soprattutto, però, Berlusconi ha cominciato fin dall’inizio della sua avventura politica a fare tutto il possibile per guadagnarsi la simpatia, se non la fiducia, di quella categoria di elettori che prima ho descritto: i disinteressati e livorosi qualunquisti che non si riconoscono in nessuno dei partiti di entrambe le coalizioni, e che Berlusconi attira a sé con il teatrino dell’antipolitica che, ogni giorno, mette in scena.
Che poi le cose siano in realtà diverse, va da sé – Berlusconi fa politica proprio come tutti gli altri – ma l’importante è che non si dica, che non sfugga detto cadesse il mondo. Non si dirà, per esempio, “rimpasto di governo”, ma “registrazione della squadra”, non “crisi” ma “verifica”, non “candidature civetta” ma “candidatura di bandiera” e così via: il qualunquista, per definizione, non approfondisce; come si diceva una volta, gli basta la parola.
La scenetta che immaginavo in questi anni, quindi, non è verosimile come credevo. Anzi, sbagliavo del tutto. Se Fini e compagnia cantante hanno capito il gioco per tempo, non l’imbarazzo, ma l’apprensione è lo stato d’animo appropriato di fronte alle quotidiane bestialità che Berlusconi, giulivo, snocciola.
Che il governo recuperi credibilità, infatti, è fuor di discussione: il consenso è in caduta libera, e di recuperarlo non se ne parla nemmeno. Ma, se è vero che molti elettori non voterebbero mai a sinistra, è pur vero che costoro dispongono però di diverse opzioni per dare il proprio voto a destra, così che l’esito delle elezioni, oltre all’auspicata sonora sconfitta dell’attuale maggioranza, potrebbe ridisegnare gli equilibri interni alla Casa della Libertà fino al punto di farla deflagrare.
Certi di non poter mai e poi mai deviare il voto di quegli elettori che votano altri partiti della coalizione con convinzione o consapevolezza, gli strateghi di Arcore hanno calibrato la propaganda nella direzione che sappiamo, così da riuscire a guadagnare nei tanti voti, a cuor leggero e mente sgombra, che costituiscono una risorsa numericamente notevole per ogni partito dell’arco costituzionale. Canis reversus vomitum suum.
Per la Casa della Libertà, certo, questo è un gioco a somma zero: quello che guadagna uno lo perde qualcun’altro, e il totale non cambia. Ma la CdL, una volta chiaro che Berlusconi al governo non ci andrà, non serve più a niente: a questo punto, allora, è meglio sciogliere di fatto l’alleanza e cercare di essere il partito di gran lunga più votato dell’opposizione. Anche perché, se la storia recente insegna qualcosa, da quella posizione si può comunque recuperare o, male che vada, raggiungere accordi vantaggiosi con chi governa. Che so, una bicamerale o un patto di non aggressione sul conflitto di interessi, tanto per fare qualche esempio di scuola.
E gli altri, intesi come gli antichi alleati? Gli altri si arrangino. Del resto, la storia avrebbe dovuto insegnar loro che Berlusconi avrà anche tutti i difetti del mondo, ma certo non è un tram dal quale si possa salire e scendere a piacimento.
Persio Tincani
[ Tratto da A Rivista anarchica, febbraio 2006, www.arivista.org ]