La pubblicazione agli inizi degli anni Ottanta del mio Rapporto dalla Scandinavia da parte dell’editore Vito Laterza suscitò curiosità e commenti alimentati, tra l’altro, da una copertina un poco ambigua, secondo alcuni. Non si capiva se l’illustrazione mostrasse un cigno, come pretendeva l’autore, oppure un’oca di ben nota stazza e pigrizia. Oggi, continuando su quella metafora, ci si potrebbe chiedere la stessa cosa. Oppure, forse, una aggiornameno di quel libro dovrebbe uscire di metafora, abbandonare il mondo animale, e ritrovare nella semplice diversità delle persone, delle comunità e dei paesi collocati in un questa piccolissima parte di mondo, all’estremità dell’Asia occidentale dove è situata l’Europa, le forme e le ragioni della loro esistenza.
Fornire un quadro sintetico della situazione attuale nei paesi scandinavi e del loro contesto nordico è possibile. Tentare una spiegazione dei molti come e perchè suscitati da questo quadro non è possibile in così breve spazio. Ma, forse, è meglio così. Il lettore avrà il tempo di riflettere sui fatti e questo può essere di arricchimento alle necessarie analisi.
Prima di addentrami in questo compito mi limito a suggerire un legame tra il presente e il passato, la politica e la storia, gli effetti e le cause. Ma, forse, queste correlazioni non sono così logiche e sequenziali come sembra. Un eccesso di storicismo nella mia generazione c’è stato e permane. Le cause, invece, sono spesso nel presente.
Così come c’è stato e permane anche un vizio di progettualità che rischia di svilire l’impegno sul presente e il suo valore spostandolo sul futuro. Il presente contiene la storia, è la storia, e prefigura il futuro.
È stato detto molto bene che la storia è la politica del passato e la politica la storia del futuro. Insomma, guardare il presente, guardarci bene dentro, e fare lo stesso con noi stessi, ci fornisce sufficienti informazioni per riflettere e, forse, capire.
Scandinavia e integrazione europea
L’integrazione europea o, meglio, l’adesione dei paesi scandinavi al processo di integrazione europea, è oggi in fase avanzata. Due paesi scandinavi fanno parte dell’Unione – la Danimarca e la Svezia – oltre alla Finlandia del gruppo dei paesi nordici. Restano fuori dell’Unione la Norvegia dei paesi scandinavi, e l’Islanda dei paesi nordici. Ma quattro paesi della mesoregione baltica sono entrati a far parte dei 25 paesi dell’Europa allargata (Lettonia, Estonia, Lituania e Polonia).
Vecchi problemi permangono e nuovi se ne sono aggiunti o, forse, in linea con quanto scrivevo all’inizio, è giusto dire che siamo in presenza di una nuova situazione. Le riserve ”tecniche” dei paesi scandinavi – sulla moneta unica, sul diritto comunitario, sull’unione fiscale – restano e difficilmente verranno rimosse sin quando la Gran Bretagna non toglierà le proprie riserve.
I primi a confrontarsi con un nuovo referendum sulla moneta unica saranno gli svedesi, seguiti dalla Gran Bretagna e dalla Danimarca. Un referendum sulla Costituzione europea potrebbe unificare queste decisioni, ma con il rischio di far saltare l’intera costruzione. Gli esiti restano incerti. Alle ragioni tecniche che portarono al primo rifiuto di adesione si aggiungono oggi quelli di tipo geopolitico e geoeconomico.
L’entrata dei paesi baltici e della Polonia, così fortemente voluta dagli scandinavi e dai danesi in particolare, avrebbe dovuto spostare il baricentro dell’Unione Europea ad est ridando alla Scandinavia una centralità geografica e economica nel quadro europeo. Un occidente europeo, fatto di ampie mesoregioni (oltre al Baltico, il Mediterraneo, l’Europa Centrale) con profili culturali, economici e istituzionali distinti. Questo era il pensiero dei dirigenti socialdemocratici e in parte condiviso anche negli schieramenti conservatori.
L’irruzione delle nuove politiche degli Stati Uniti, sul terreno preparato dalla globalizzazione capitalistica, con la destabilizzazione politica (”il crollo del muro”) e la marginalizzazione economica (liberalizzazione dei mercati e crisi finanziarie), ha imposto la centralità dell’Atlantico. La Scandinavia si ritrova così periferia, linea di frontiera dell’Occidente atlantico verso l’Asia.
Al cambio di situazione ha fatto seguito il cambio del quadro politico-istituzionale. Un dibattito politico praticamente inesistente e tutto concentrato nello scambiarsi accuse sulle colpe del passato per la collaborazione a questo (nazista) o quel regime (comunista).
I sindacati, troppo occupati a trovare nelle nuove forme dell’organizzazione del lavoro le proprie nicchie di sopravvivenza, a totale rimorchio delle scelte imprenditoriali e di politica economica nazionale.
Un nuovo ”patto sociale” non scritto esiste. Favorire con tutti i mezzi il rafforzamento dell’economia nazionale, assecondando le linee di crescita economica della globalizzazione e delle politiche da questa espresse mediante la leadership statunitense. Sindacati e organizzazioni imprenditoriali nel ruolo di potenti lobbies economiche per favorire questo disegno di conservazione nazionale.
Le politiche fiscali e del lavoro sono state ritoccate per rendere più attrattivo l’investimento in questi paesi. Quello che resta del welfare state è mantenuto in vita con circuiti di reddito e di ricchezza che hanno poco a che fare con il welfare nazionale (per chi intende il welfare un modo giusto e solidale di produrre e dividere la ricchezza), e nulla con la costruzione di un ”welfare mondiale”.
La Svezia e la Danimarca, insieme alla Finlandia e ai paesi baltici, sono linee di frontiera tra est ed ovest. Le numerose ricchezze accumulate dalla nuova borghesia russa ed orientale, i traffici illeciti di armi, droga e prostituzione (le nuove correnti del traffico mondiale favorito dall’apertura dei mercati e delle frontiere promosse dalla globalizzazione capitalistica). trovano in queste sponde tranquille dell’Europa passaggi sicuri e forme di investimento ad alto reddito.
Naturalmente esiste anche l’economia reale. Il crescente affiancamento della Danimarca alle operazioni militari statunitensi garantisce al paese quote di produzione tecnologica avanzata nell’industria di guerra e la partecipazione alla gestione delle spoglie dei paesi occupati e devastati come nei casi recenti della Serbia, dellAfganistan e dell’Irak.
Sistema politico e società civile
La società civile, intesa come partecipazione spontanea ed autoorganizzata dei nuclei primari della società, è scomparsa da tempo nei paesi scandinavi, insieme alla società rurale, ai villaggi con le loro scuole e stazioni.
L’idea di socialismo e di comunitarismo scandinavo che vi ha fatto seguito era impregnata della modernizzazione borghese, era strutturata dentro le istituzioni dello stato, assunte a garanti del nuovo ordine e dei suoi valori. Di società civile si è così parlato durante mezzo secolo con riferimento alle istituzioni intermedie, come i partiti, i sindacati e le organizzazioni di massa, ma di diretta ispirazione e amministrazione del nuovo ”regime”.
Un sussulto si verificò negli anni Settanta sulla scia di quanto avveniva nei movimenti giovanili europei e di oltre oceano. Ma quello che poteva essere un risveglio della società civile e delle comunità si trasformò in una nuova spinta verso l’individualismo borghese e una più accelerata modernizzazione capitalistica.
Così è stato anche in Scandinavia. La società civile è oggi assente. Scomparsa nelle sue cellule primarie (famiglia e nuclei comunitari), stremata e avvilita nei corpi intermedi della società (sindacati e organizzazioni di volontariato) divenute agenzie di promozione e mediazione degli interessi nazionali nel contesto della globalizzzione. La totale assenza e apatia della ”società civile” scandinava difronte agli avvenimenti più drammatici come la guerre contro l’Europa e il mondo arabo confermano questa lettura.
Spezzoni esistono, ma fuori controllo, anche di se stessi. L’ala dura dei no-global che terrorizza il pacifismo italiano trasformando in violenza e scontro ogni incontro nelle piazze europee è fatta di giovani che vengono da queste città, da queste strade, dalla rabbia di chi può facilmente identificarsi con ”gli zeri del mondo”.
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“Il tempo è con la Socialdemocrazia. Certamente il passato e il futuro. È il presente che crea le maggiori difficoltà. Ma si tratta solo di una fase passeggera” ha scritto qualche settimana, non senza intenti ironici un osservatore politico sul settimanale Weekendavisen (31.10.2003) in un articolo dal titolo “Il presente maledetto”. L’analisi è rivolta in particolare alla socialdemocrazia danese che è doppiamente colpita dalla congiuntura attuale dovendo far fronte alle difficoltà del momento in un situazione di opposizione politica ad un governo liberal-conservatore molto dominante. Condividendo la sorte della consorella norvegese e contrariamente a quella svedese che riceve un po’ di calore ai guai presenti dalla guida del governo.
Tutte e tre i partiti sono oggi impegnati a rideclinare le buone e gloriose tradizioni del passato al presente, esercizio quanto mai complesso. Questo avviene in una situazione di difesa poiché costrette a farlo su modalità e tempi dettati dall’offensiva culturale delle destre che, in Danimarca e in Norvegia, guidano da mesi un ampio dibattito pubblico sui temi della “cultura” e dei “valori” che devono ispirare il paese nelle proprie scelte politiche, e in tutti e tre i paesi spinti da temi complessi e controversi come quello delle migrazioni, dell’interculturalità e dell’integrazione europea. Il tentativo di reagire a ciò accusando il governo e gli avversari politici di nascondere dietro il polverone dei valori e delle identità nazionali la mancanza di iniziative e di risultati per risolvere i problemi quotidiani dei cittadini come quello dell’occupazione suona poco convinvente, poiché viene da una parte politica che dei valori e di grandi temi (la solidarietà) ha da sempre fatto la propria bandiera.
Infatti, al di la delle scaramucce verbali, le socialdemocrazie stanno cercando affannosamente di rileggere, limare e rinnovare i propri valori di riferimento in vista dei nuovi programmi politici con cui tornare a presentarsi presto agli elettori. Pensare di abbandonarsi alla deriva blairiana del Labour in Inghilterra non è pensabile, almeno per il momento. Bisogna però dimostrare l’attualità di obiettivi come quello della Solidarietà, dell’Eguaglianza e della Libertà. La solidarietà tra i lavoratori in una società dove questi costituivano la maggioranza della popolazione era un obiettivo che univa e si poteva facilmente tradurre in obiettivi parziali e misure di politica economica che venivano immediatamente percepite in modo positivo dalla maggior parte delle famiglie. Ma la situazione attuale è diversa. Esiste un forte gruppo di classi medie e di gruppi privilegiati di lavoratori che percepiscono con sempre crescente fastidio il bisogno di sostenere le spese (fiscali) a favore di una ristretta minoranza di marginalizzati e di persone che spesso provengono da aree lontane del pianeta.
A questo punto il discorso si articola all’interno delle socialdemocrazie nordiche dove nessuno sembra disposto a rinunciare all’obiettivo della solidarietà ma diversi significati si affacciano sulla scena. Mogens Lykkertorf, l’attuale segretario del partito socialdemocratico danese, sostiene che va spiegato anche ai gruppi privilegiati che il mantenimento di una società solidale è anche a loro vantaggio. Altri gli fanno eco modificando il messaggio con l’affermazione che il principio di eguaglianza non significa auspicare una società di eguali, ma una nella quale tutti hanno le stesse possibilità di accesso ai beni necessari e di potersi liberamente esprimere. Questo cocktail concettuale tra uguaglianza e libertà non è di difficile combinazione e può facilmente divenire esplosivo. Le politiche socialdemocratiche hanno ottenuto importanti risultati in questa direzione nel passato, ma ciò è avvenuto introducendo forme di controllo sociale e amministrativo che, anche se rispettate, sono state vissute in modo crescente negli ultimi decenni come costrizioni amministrative e sempre meno come scelte di una “vita migliore”.
A queste difficoltà di declinare al presente i temi classici della socialdemocrazia, un presente complicato anche dall’integrazione europea che limita le scelte di politica economica nazionale (ed ancor più lo sarebbe se questi paesi accettassero l’Euro) e dai recenti fenomeni migratori e di militarizzazione dell’Occidente, si cerca una via di uscita rompendo tutti gli indugi nazionali e cercando in una più rapida integrazione e partecipazione alle vicende europee e internazionali una via di uscita, almeno sul piano delle parole e dei concetti, da queste difficoltà. Per i non scandinavi pensare che il quadro internazionale ed europeo attuale permetta o anche solo aiuti la ricerca di risposte positive ai dilemmi ricordati sembra almeno azzardato. Tuttavia l’ex leader della socialdemocrazia danese, Poul Nyrup Rasmussen, si è posto alla testa di questo indirizzo di pensiero ribadito di recente in un articolo scritto insieme al leader socialista francese Francois Hollande e pubblicato da Le Monde (13 novembre 2003) con il titolo “Mondialisation: du débat à l’action politique”. Le possibilità di riciclare a livello mondiale le idee della socialdemocrazia vengono considerate ottime e viste anche come un modo per superare i limiti angusti di un dibattito attuale che resti vincolato dentro i limiti dello stato nazionale.
Qui sta forse la forza e i limiti del messaggio delle socialdemocrazie che immaginano che sforzi di governo a livello mondiale, ancorché utili e possibili, possano risolvere contraddizioni e problemi di cultura che hanno le loro radici nella vita delle comunità, degli stati nazionali e delle società europee in generale.
* Articoli pubblicati da APRILE – mensile del giugno e dicembre 2003 e qui tratti dal sito del gruppo di Lugano [ www.ilgruppodilugano.it ] di cui fa parte l’autore, docente di economia internazionale all’Università di Roskilde (Danimarca), già allievo e amico del compianto Federico Caffè e presidente del Centro Federico Caffè dell’ateneo scandinavo.