di Enzo Ferrara
La tragedia del Vajont avvenne il 9 Ottobre 1963. La storia è nota, quella sera alle ore 22 e 39, mentre le televisioni trasmettevano le immagini del Milan in coppa dei campioni, 2000 persone furono semplicemente spazzate via coi loro paesi a Longarone e San Martino, nel nordest d’Italia. Ciò che più stupisce ancora oggi è che la diga, un capolavoro dell’ingegneria, la più alta al mondo a quel tempo, sta ancora li, superbamente incastonata nel terreno. Non fu la diga a cedere, infatti, ma l’ambiente attorno ad essa, a causa del bradisismo causato dalla massa d’acqua entro lo sbarramento.
Alla fine una fetta di montagna franò giù dal Monte Toc, piombò nel lago artificiale e creò un’immensa ondata d’acqua e fango che, superata la barriera, si riversò nella valle sottostante portando morte e distruzioni.
Un libro, uscito ormai da alcuni anni afferma, che questo genere di catastrofi non è inevitabile né imprevedibile. Semplicemente queste tragedie accadono con maggiore facilità quando sotto lo stimolo impellente delle motivazioni che inducono alla costruzione delle dighe, non si prendono in considerazione i rischi legati alla loro costruzione, né soluzioni alternative, sovente possibili e meno costose. Il libro si intitola “Silenced Rivers: The Ecology and Politics of Large Dams”, ed è stato scritto da Patrick McCully, per le edizioni Atlantic Highlands (New Jersey, Zed Books, 2001, ISBN 1-85649-9022). McCully ha lavorato in India e in America Latina come direttore delle campagne di lotta della rete International Rivers Network. Nel suo libro egli esplora ad ampio raggio l’impatto ecologico delle grandi dighe e le loro conseguenze sociali, proponendo in modo convincente scelte meno distruttive (anche solo sbarramenti meno massicci) particolarmente interessanti per affidabilità e competitività, capaci di garantire gli stessi servizi attesi dalle grandi dighe.
Al di fuori dell’Europa, una sistematica attività per la costruzione di dighe fu avviata originariamente nelle colonie britanniche, in India, Cina e Tailandia, per supportare la conversione delle piantagioni dai raccolti per il consumo alimentare locale a quello di prodotti agricoli a maggior valore commerciale, come il cotone, la canna da zucchero e l’oppio, da destinare al mercato britannico ed Europeo. Poi, dopo il colonialismo, politici e tecnocrati hanno continuato a costruire grandi dighe nel Sud Est asiatico, anche a simboleggiare la prosperità e lo sviluppo tecnologico locale. Grandi sbarramenti continuano ad essere progettati e innalzati, perfino mentre le variazioni idrogeologiche e le alluvioni si susseguono, certamente a causa del riscaldamento ambientale e della degradazione della terra, ma anche come conseguenza della costruzione di dighe e canali per il controllo delle risorse idriche. In questo momento in Asia sono in fase di conclusione almeno due progetti molto controversi: la gran diga Sardar Sarovar, nella valle del fiume Narvada, in India, e il gigantesco impianto idrico delle Tre Gole, sul fiume Yangtse, in Cina.
La diga delle Tre Gole, realizzata, sarà il più grande sbarramento idrico del mondo. Un serbatoio d’acqua lungo più di 400 chilometri, più vasto del territorio della Svizzera. Un’opera alta in media 185 metri, con costi di circa 25 miliardi di Euro e con 13 grandi città e 116 centri urbani allagati, almeno 725.000 persone trasformate in profughi. Queste sono le cifre della diga: il più gran bacino idroelettrico al mondo sarà proporzionato alla Cina, il paese che lo ha costruito. Una delle città che saranno cancellate, Fengdu la “città dei demoni”, vecchia di 2300 anni possiede un patrimonio archeologico eccezionale, un tesoro della mitologia taoista. Lo stesso era accaduto in Egitto, la diga di Assuan seppellì definitivamente un patrimonio artistico incommensurabilmente prezioso, costituito da pitture rupestri vecchie fino a 10.000 anni.
La costruzione di una diga è sempre causa di un disastro ambientale e frequentemente è accompagnata da tragedie umane. L’allagamento dell’invaso obbliga ad esodi forzati masse di genti, la cui migrazione porta con sé perdita delle identità e dei beni di sussistenza. Le dighe sono la ragione principale di estinzione di numerose specie di pesci d’acqua dolce. Nei paesi meridionali caldi, le zone allagate costituiscono un bacino di macerazione delle piante e del suolo, fenomeno che fornisce un contributo sostanzioso all’effetto serra e allo sviluppo di parassiti portatori di malattie infettive.
In quest’ultima edizione, ampliata, McCully enfatizza che la costruzione di dighe è ormai diventata tanto nel mondo industrializzato che nei paesi in via di sviluppo una tecnologia controversa. Nell’introduzione, intitolata “Un nuovo ordine” (A new order), viene sottolineate la grande attenzione che oggi si presta alla questione delle dighe da parte dell’opinione pubblica internazionale, per esempio dalla Commissione Mondiale sulle Dighe. Si nota inoltre che mentre i benefici della costruzione delle grandi dighe sono distribuiti in modo dubbio, le loro conseguenze negative ricadono invece sicuramente su un gran numero di persone, tra le più inermi e povere del mondo.
Il testo tratta in modo esauriente l’intreccio di temi politici e ideologici che a metà dello scorso secolo identificavano il progresso con la capacità di controllo della natura, soprattutto. In quest’ottica si include simbolicamente la costruzione delle grandi dighe (Non va dimenticato che la costruzione della diga del Vajont servì anche come banco di prova per l’appalto alle industrie italiane della realizzazione della diga di Assuan, sul Nilo).
L’analisi di McCully dapprima tratta le conseguenze ambientali dei grandi progetti di sbarramento idrico, successivamente l’attenzione si sposta verso le conseguenze antropologiche ed economiche. Le traumatiche esperienze delle popolazioni coinvolte nella resistenza alla eradicazione dalla loro terra e la cieca reazione dei governi sono descritte, assieme al riconoscimento della perdita definitiva di preziose terre agricole, a causa dell’inondazione, della salinizzazione, dell’interramento e delle frane causate dagli sbarramenti.
Infine, la storia della nascita dei grandi movimenti internazionali anti dighe nel libro dimostra come buone capacità di comunicazione democratica siano in grado di mobilitare migliaia di persone. Nella lunga lista di esempi del dissenso organizzato contro i grandi progetti di sbarramento idrico si erge il movimento ‘Narmada Bachao Andolan’ (Salvate il Narmada). Il coraggio e la determinazione delle popolazioni indiane in opposizione a ciascuna delle 30 dighe pianificate sopra il fiume hanno portato notorietà e rispetto, a livello internazionale, alla loro lotta. Raramente si è visto un processo di opposizione democratica funzionare in modo così efficiente e concreto come per la crescente mobilizzazione delle genti del Narmada in difesa delle loro case e delle loro terre.
Silenced Rivers appare come una pietra miliare fra le pubblicazioni che recentemente hanno portato alla luce le questioni di ecologia politica e illustrato la complessità degli intrecci economici, sociali, tecnologici e ambientali legati alla costruzione delle grandi dighe. Questo libro sarebbe da raccomandare a chiunque, alle biblioteche pubbliche, agli insegnanti, ai politici, agli ecologisti, agli economisti etc … La sua forza sta nell’abilità di estrarre le questioni ambientali legate alle grandi dighe basandosi su un’analisi tecnica facilmente accessibile a chiunque. Speriamo in una traduzione, presto.
Nel frattempo, per approfondimenti, si può vedere quanto ha scritto G. Ciuffreda su:
(http://www.ilmanifesto.it/g8/archivio/movimenti_antiglobalizzazione-resistenze_e_alternative/movimenti_indigeni_e_marcos/3b337b4a0ffa6.html)
Oppure il sito dell’International Rivers Network (http://www.irn.org/), così come il pezzo “del diritto alla buona acqua”, su: http://www.fondfranceschi.it/hdoc/pubblicazioni/acqua/txa18.htm.
Per questioni di ecologia e politica internazionale http://www.ecologiapolitica.it
Enzo Ferrara (ferrara.ien.it@katamail.com)
Ecologia Politica: Ricerche per l’alternativa