A sentire i tg di ieri, nel mondo politico e culturale italiano non ci sarebbero quasi crepe nel muro di condanna della sentenza di Tribunale che obbliga una scuola a togliere il crocefisso delle aule frequentate dai figli di un musulmano che era ricorso in giudizio.
In altre parole, i più sarebbero scandalizzati da una sentenza che sembra richiamarsi alla laicità della Repubblica e alla libertà di religione affermata dalla Carta costituzionale. Non scandalizzerebbe, invece, il triste paradosso che la tutela dall’invasività della religione (cattolica) sia affidata alle azioni legali di un islamico noto per il suo radicalismo. Sarà che i tg – come sempre – avranno oscurato molte voci di dissenso (siamo un Paese di 60 milioni di abitanti, ma a vedere dai mass media il diritto di parola spetta ai soliti quattro gatti); certo resta l’imbarazzo di sentire esponenti delle “sinistre” assecondare le logiche autoritarie di chi difende a spada tratta (e con scudo crociato) il decreto fascista del 1924, mai “abrogato”, che rende obbligatoria l’esposizione del crocefisso nelle scuole del Regno.
Pur impegnati nella domenica sportiva e nei successivi dibattiti che infiammano radio, tv e giornali (il calcio è l’unico tema per cui gli italiani auspicano la democrazia partecipativa, del resto chi se ne frega), i mass media farebbero bene, una volta tanto, ad andare fino in fondo in questa faccenda e dopo la sfilata delle facce di bronzo indignate e sbigottite, potrebbero darci l’opportunità di un dibattito serio su questa questione del crocefisso, che ha un grande significato simbolico ma anche sostanziale.
In un’epoca nella quale crescono e trovano accoglienza nello Stato laico le pulsioni revansciste delle gerarchie ecclesiastiche cattoliche (si pensi al sostegno alle scuole private o alle modalità dell’insagnamento della religione), il crocefisso nelle aule potrebbe essere un’occasione preziosa per mettere in moto le energie intellettuali del mondo della cultura e della politica, per capire se la Repubblica e le sue articolazioni territoriali vogliono e possono garantire i diritti affermati dalla Costituzione, come la libertà di credo.
In Francia, come noto, nelle aule della Repubblica il crocefisso è proibitto. Ci pare cosa ovvia e riteniamo che dovrebbe esserla anche per le schiere di indignati soloni capitanate dal cardinal Ruini e dai suoi referenti politici. A meno che costoro non ritengano normale, un domani, che nelle aule ci finisca, per esempio, la statuina del Buddha se quella religione fosse divenuta maggioritaria nel Paese.
Separare la sfera religiosa dall’esercizio delle funzioni pubbliche e istituzionali è un fondamento della democrazia; la pratica della commistione, più o meno strisciante, tra una Chiesa e lo Stato, è un insulto ai più elementari principî di uguaglianza dei cittadini. Che una religione tradizionalmente maggioritaria intenda sfruttare questa rendita di posizione per insinuarsi subdolamente nelle istituzioni repubblicane e perpetuare pratiche di persuasione collettiva cominciando dagli asili e dalle scuole, dovrebbe preoccupare ogni coscienza libera e onesta. Il bambino, quanto e più dell’adulto, ha diritto a una pedagogia scevra da condizionamenti dogmatici. Altri sono i territori in cui le religioni possono dispiegare la loro forza in assoluta autonomia, con il solo limite di rispettare le diversità e i diritti di chi ha un’altra visione del mondo.
Libere Chiese in libero Stato (e sue articolazioni locali). Questo semplice ragiomente avremmo desiderato ascoltare da chi, anche nel centrosinistra (in queste e molto altro sempre più tragicamente speculare al centrodestra…) ieri gridava invece scandalo per una sentenza che semplicemente afferma la libertà di ognuno secondo il dettato costituzionale. Le aule scolastiche sono di tutti. Dunque, delle due l’una: o sulle pareti non ci possono essere simboli religiosi e politici, oppure ci vanno il crocefisso, Maometto, la croce di David, il Buddha, Marx, Bakunin, la presa della Bastiglia, movimento per lo sbattezzo, Lutero, Gandhi, Confucio eccetera eccetera eccetera.
Che nella fattispecie l’iniziativa legale possa considerarsi una forma di provocazione non è affatto rilevante. Il problema, semmai, è che la presenza fuori luogo del crocefisso abbia consentito tale presunta provocazione.
Una delle argomentazioni utilizzate dal coro in difesa del crocefisso si richiama alle radici e all’identità nazionali. Si tratta di un altro preoccupante scivolone concettuale, se la premessa resta un quadro di tipo democratico. Identità e tradizioni, infatti, non sono condivise da ogni gruppo e individuo: la società è animata da pulsioni democratiche che mirano a modificare o a cancellare quei retaggi. Dunque, soltanto una parete nuda potrà rappresentare valori realmente unificanti, vale a dire, il patto sociale originario che lega i componenti di una comunità: la democrazia con la sua dialettica e con il rispetto delle minoranze. Una parete nuda oppure un semplice simbolo della democrazia repubblicana.
L’esposizione di simboli ritenuti a torto patrimonio “comune” (come il crocefisso) è, al contrario, un atto invasivo in un territorio pubblico, cioè di tutti, che deve rappresentare le aspirazioni democratiche di ognuno. La parete democratica è nuda e nessuno può avere la presunzione di imporvi alcunché; altrimenti sarebbe in contraddizione con la stessa idea democratica e con il rispetto delle diversità e delle minoranze di cui magari si riempiono la bocca gli stessi soggetti che si sono precipitati in una isterica, violenta e arrogante difesa del crocefisso “collettivo”.
Idem dicasi per lo stucchevole dibattito sulle radici cristiane da inserire nella Costituzione europea (che alla fine solo l’Italia di Berlusconi e la Polonia sostengano questo imbarazzante emendamento è eloquente e inquietante).
Speriamo che un giorno l’altro centrodestra italiano (l’Ulivo e dintorni) abbia un sussulto e si ricordi di alcuni principî democratici fondamentali, piuttosto di farsi scudo di una legge del 1924 per evitare una patata bollente.
Per ora, tuttavia, i segnali in proposito appaiono tutt’altro che confortanti: una proposta di legge, depositata il 15 maggio 2002 e firmata da esponenti cattolici di maggioranza e opposizione, prevede l’obbligo di esporre il crocifisso «in tutte le aule delle scuole di ogni ordine e grado e in tutte le università e accademie del sistema pubblico integrato di istruzione, negli uffici della pubblica amministrazione e degli enti locali territoriali, in tutte le aule nelle quali sono convocati i consigli regionali, provinciali, comunali, circoscrizionali e delle comunità montane, in tutti i seggi elettorali, in tutti gli stabilimenti di detenzione e pena, negli uffici giudiziari e nei reparti delle aziende sanitarie e ospedaliere, in tutte le stazioni e le autostazioni, i porti e gli aeroporti, in tutte le sedi diplomatiche e consolari italiane».
Si prevede l’arresto fino a sei mesi o un’ammenda da 500 a 1000 euro per chi rimuove il crocifisso.
E mentre gli ispettori procedono verso il giudice che ha osato affermare un diritto universale, c’è da temere che questo progetto di legge “bipartisan” ottenga una corsia preferenziale in Parlamento.
Da destra a sinistra, un grido attraversa l’Italia del 2003: “Liberté, fraternité, égalité”.
z. s.