Per commentare le recenti polemiche bolognesi alcuni quotidiani hanno intervistato degli “intellettuali”, figura sempre più indefinita, sempre più spesso schiacciata dai tempi e dai modi della comunicazione di massa. Non voglio polemizzare con nessuno, ma le prese di posizione che si sono sentite finora sembrano timide, esitanti, quando non tristemente complici con il potere. Gli intellettuali italiani non si sono mai distinti per coraggio civico. Quando Mussolini chiese ai professori universitari il giuramento di fedeltà al fascismo e particolarmente alle leggi razziali, quanti furono gli accademici che si rifiutarono di piegare la testa al regime? Scommetto che non lo sapete, perché a scuola nessuno ve lo ha detto e all’università neppure. Furono undici in tutt’Italia. Undici, lo ripeto, non uno di più. Abbastanza deprimente fu il comportamento degli intellettuali italiani nel ’77. Durante la primavera di quell’anno la magistratura, su insistente pressione del Pci e della Dc, scatenò un’ondata di arresti contro la cultura di movimento: decine di librerie perquisite, radio libere chiuse, poeti, editori, musicisti finirono in carcere. Io avevo fiutato l’aria ed ero fuggito a Parigi, e insieme al mio amico Felix Guattari scrissi un appello contro la repressione, contro il governo di solidarietà nazionale e la politica di compromesso storico. In Francia l’appello fu firmato da gente il cui nome è destinato a rimanere a lungo nella memoria: Sartre, Barthes, Foucault, Deleuze, Sollers, Kristeva si espressero contro la brutalità di un regime che colpiva la cultura, la comunicazione libera, che chiudeva le librerie e perquisiva le case editrici. In Italia no. A parte un piccolo gruppo di persone coraggiose (come il grande psicoanalista Fachinelli, il poeta Balestrini, Dario Fo, Franca Rame e pochi altri) la grande maggioranza degli intellettuali (sit venia verbis) reagì stizzosamente. «Ma cosa vogliono questi francesi», chiesero sbuffando personcine che avevano a cuore la propria carriera personale assai più che la libertà della cultura. Io mi meravigliai, ma poco, perché sapevo che nella storia italiana gli intellettuali si piegano facilmente a qualsiasi padrone.
Paragonando gli intellettuali italiani ai loro colleghi francesi, ma anche a quelli inglesi spesso mi sono chiesto perché costoro hanno un sentimento così esile della dignità? Perché sono sempre così preoccupati di non offendere i potenti al governo e anche quelli che potrebbero essere al governo domani? Non ho naturalmente, una risposta definitiva a questa domanda, ma certamente occorre tener conto della debolezza strutturale di una cultura che nel corso dell’epoca moderna ha tardato molto a trovarsi un pubblico di massa, e ancor oggi continua a dipendere dal potere statale o dal capitale privato. Nei paesi in cui la borghesia tradizionalmente legge e consuma cultura, gli scrittori gli artisti o gli editori rendono conto prima di tutto al loro pubblico, non ai monarchi di turno o ai magnati che li comprano con qualche palanca d’oro. Ludovico Ariosto si rivolgeva a Ippolito D’Este con le parole «Piacciavi generosa Erculea prole, ornamento e splendor del secol nostro, Ippolito, aggradir questo che vuole e darvi sol può l’umile servo vostro». Da quell’epoca gli intellettuali italiani si rivolgono essenzialmente a chi gli paga lo stipendio. Vincenzo Monti scoprì di avere sentimenti rivoluzionari quando Napoleone giunse vittorioso a Milano, ma poi si convertì nuovamente ai valori della reazione aristocratica non appena Napoleone fu sconfitto e gli austriaci tornarono. Non così Foscolo, invece, che, pur odiando il condottiero francese che a Campoformio aveva venduto Venezia agli austriaci, assai più odiava gli austriaci stessi, e quando Napoleone fu sconfitto respinse una proposta conciliante dei vincitori. Nel 1814, al loro rientro a Milano dopo la fine della sfortunata Repubblica cisalpina, gli austriaci proposero al poeta di rimanere sulla cattedra di Pavia, e gli proposero anche di finanziargli una rivista. Non occorreva un’abiura, bastava mostrarsi consenziente col nuovo potere. Foscolo ne fu turbato, ma alla fine, non essendo Adornato, decise di andarsene per sempre dall’Italia. Adornato? E che c’entra Adornato? Conobbi questo signore nel 1977 quando dirigeva una rivistina dei giovani comunisti aspramente nemica del movimento autonomo. Era l’intellettuale emergente del comunismo italiano, leggevo con interesse i suoi articoli su L’Espresso. Poi però, quando le sorti del comunismo sovietico cominciarono a declinare, Adornato divenne liberale. Liberale e naturalmente liberista. Fece infatti una rivista che si chiamava Liberal. La leggevano sei o sette amici di Adornato medesimo, oltre Romiti che gliela finanziava. Ma quando in seguito la destra ha vinto dove lo ritroviamo Adornato? Siede al Parlamento come rappresentante (ma guarda) di Forza Italia. Si accettano scommesse sulle prossime evoluzioni (intellettuali) del prode Adornato. Si dovrebbe essere forse più tolleranti nei confronti della debolezza d’animo di coloro che si fanno chiamare intellettuali? Io voglio essere tollerante, ma mi dispiace per loro. La verità è che costoro mancano completamente di rispetto verso di sé. Andate a vedere il bellissimo “Viva Zapatero”, il film di Sabina Guzzanti (perché se ne è parlato così poco? E’ un film che tutti dovrebbero vedere, andrebbe proiettato nelle scuole e nei centri sociali). Gli uomini del regime questo film li mostra nudi, nudissimi, o perlomeno in mutande. Il povero Gasparri, il povero Lainati, e tutti gli altri di cui non si riesce sempre a ricordare il nome. Gente che si disprezza, gente che non ha il minimo rispetto per se stessa. Quando sono uscito dalla sala in cui ho visto “Viva Zapatero” ero di pessimo umore. Il film mi aveva divertito, ma soprattutto mi aveva provocato un sentimento di vergogna. Vergogna per avere vissuto quattro anni in questo paese senza ribellarmi ogni giorno, senza gridare ogni giorno, senza riuscire a battermi efficacemente contro il regime dell’indegnità. E mentre mi vergognavo ho pensato che gli intellettuali italiani dovrebbero per lo meno vergognarsi.