Il premier socialista spagnolo Zapatero rispetta l’impegno e dà l’ordine di ritiro delle truppe spagnole dall’invivibile pantano iracheno. Lo aveva detto chiaramente prima e dopo il voto di marzo; prima e dopo le stragi di Madrid. Lo ha ripetuto ieri: la Spagna se ne va da una guerra illegittima e si impegna sul piano diplomatico, civile e umanitario per la transizione democratica in Iraq.
Il rientro sarà completo tra poco meno di due mesi, dunque a ridosso della data del 30 giugno indicata dagi Usa per il passaggio di consegne a un governo locale e da Madrid come il frangente della verifica dell’avvenuta cessione di potere agli iracheni e all’Onu. I fatti, da ultimo l’inconcludente summit Bush-Blair di tre giorni fa, indicano che la Casa Bianca, in realtà, non intende lasciare il comando politico e militare a una gestione nazionale e internazionale, ma cerca solo qualche aggiustamento formale per portare truppe straniere fresche nell’Iraq occupato.
Come noto, lo stesso governo iracheno cui dovrebbe passare una parte del potere politico dopo il 30 giugno non sarà il frutto di elezioni, come chiede un influente imam sciita moderato quale Al Sistani: i ministri saranno indicati da Washington e dall’amministratore dal pugno di ferro Paul Bremer. Questi fu chiamato a sostituire l’ex generale Garner il quale, più tardi, rivelerà alla stampa Usa che la sua rimozione a poche settimane dall’insediamento a Baghdad fu dovuta a una serie di divergenze di fondo con la Casa Bianca sulla gestione della transizione. In particolare, Garner ricorda di aver proposto fin da subito l’organizzazione di libere elezioni per tener fede all’impegno di democratizzazione che, nonostante gli orrori della guerra, sembrava raccogliere un certo consenso tra gli iracheni.
Ma Bush non era d’accordo e mentre si adoperava per insediare in Iraq le imprese degli amici e degli amici degli amici, rimuoveva lo scomodo ex generale e lo sostituiva con il fido Bremer, personaggio talmente monolitico e accentratore da suscitare l’irritazione degli stessi alleati britannici, figuriamoci degli iracheni.
In altre parole, dopo l’errore imperdonabile di aver scatenato una guerra di aggressione, illegale sul piano del diritto internazionale, nonché assurda e controproducente nell’ottica della strategia contro il terrorismo, l’amministrazione americana ha continuato tragicamente a sbagliare nella gestione della transizione in Iraq, puntellata e incoraggiata nello sfascio da alleati inaffidabili quali i governi inglese, italiano e spagnolo (precedente).
Il risultato è un Paese dilaniato da una spirale spaventosa di violenze che non risparmiano i civili iracheni (come i quindici uccisi dai soldati italiani durante una manifestazione di protesta a Nassiriya), i civili stranieri (come gli italiani e gli altri rapiti o uccisi) e i militari della coalizione (circa 700 americani cui se ne aggiungono molti altri di varie nazionalità, tra i quali i 19 morti italiani nell’attacco alla caserma di Nassiriya).
Uno dei processi in atto è la saldatura tra gran parte delle anime della guerriglia irachena, dagli storici oppositori del regime dispotico e sanguinario di Saddam ai suoi seguagi e carnefici. Milizie sciite di un ex perseguitato come Sadr sembrano ormai al fianco di gruppi paramilitari sunniti di ex agenti speciali del regime, per combattere le forze della coalizione, in un quadro infestato anche da bande di sbandati e quasi certamente infiltrato da fiancheggiatori di Al Qaida d’importazione (giunti in Iraq dopo l’occupazione e favoriti dalla disastrosa gestione americana del dopoguerra).
Davanti a questo fallimento su tutta la linea, ancora tre giorni fa il duo Bush e Blair non ha ritenuto di dover fare autocritica, di ammettere che bisogna ritrovare il filo di un dialogo concreto con la galassia irachena, complessa e imprevedibile, per costruire un ectoplasma di cammino di ricostruzione e riconciliazione sulle ceneri del regime, della guerra e di un dopoguerra che forse sta facendo più morti dei bombardamenti.
Davanti a questa catastrofe, anche umanitaria, come mostra tristemente la situazione di Falluja, e con quattro connazionali in mano a un gruppo non identificato ma certamente spietato, il capo del governo italiano non ha ritenuto di abbozzare una qualche frase di rivalutazione della strategia in Iraq: ha ripetuto che del ritiro delle truppe non si parla nemmeno.
Non dovrebbe stupire nessuno, dunque, che una persona, prima ancora che un politico, dotata di un minimo di buon senso si renda conto che con questi compagni di strada non si può andare avanti, perché vogliono percorrere testardamente lo stesso sentiero improvvidamente deciso in partenza, incuranti delle frane, degli scivoloni, delle alluvioni che stanno rendendo suicida e omicida quel percorso.
Di fronte alla prospettiva di un nuovo tentativo di imbonire l’opinione pubblica riempiendola di frottole e di ottenere un nuovo lasciapassare Onu per continuare a sguazzare penosamente nel pantano iracheno, che cosa avrebbe dovuto fare il governo spagnolo eletto sulla parola d’ordine “via dall’Iraq”?
Ha piena dignità il tentativo di impegnarsi con strumenti non militari per azzerare la situazione sul terreno, allentare la morsa militare d’occupazione per attivare dinamiche di reale coinvolgimento delle forze democratiche locali, certo in una dialettica con le fazioni più intransigenti che potrà rivelarsi insostenibile; ma insostenibile è già la condizione attuale. Dunque, è urgente e necessario sperimentare altre soluzioni che possano mobilitare in positivo gli iracheni e, sperabilmente, almeno una parte di loro vicini. E questa strada è meglio prenderla prima di esservi costretti dalla stessa guerriglia irachena o da esponenti moderati come il filo-americano e controverso Chalabi, che pochi giorni fa ha denunciato, a sua volta, l’occupazione militare e l’autoritaria gestione politica Usa.
Sconcerta che in questo quadro analisti politici italiani, anche collocabili a sinistra, anziché cogliere la portata della scossa spagnola nell’immobile – ma mortale – pantano di sangue iracheno, muovano al premier socialista una serie di accuse direi surreali, tra le quali:
1) aver spaccato il tentativo di ritrovare un’unità europea, come se le manovre di questi giorni e l’insistenza anglobritannica sulla fallimentare linea bellica non confermassero l’inconciliabilità delle posizioni, come se a monte il guasto irreparabile non fosse la tragica adesione di Londra e Roma alla dottrina della guerra preventiva dei repubblicani Usa; o si vuole dire che sull’altare dell’unità europea va sacrificato anche il principio di opposizione alla guerra, per compiacere e assisitere chi un anno fa ha calpestato Ue e Onu nel nome delle armi e degli affari senza interrogarsi sulle conseguenze devastanti della macchina mostruosa che stava mettendo in moto?
2) ostacolare il tentativo di coinvolgere direttamente le Nazioni unite dopo il 30 giugno in Iraq, come se a mettere fuori discussione quella speranza non fosse l’amministrazione americana che non ha mai accennato a un possibile passaggio a una guida internazionale della catena di comando militare e politico;
3) di aver tenuto fede in modo pedissequo a un impegno elettorale che invece andava mediato con l’evolvere della situazione in Iraq, come se il mandato politico di Zapatero non fosse strettamente connesso con l’orientamento maggioritario degli spagnoli – accentuatosi dopo gli attentati di Madrid – contro questa guerra e tanto più contro una partecipazione militare diretta, come se anche a sinistra si avesse una visione alquanto distorta dell’interpretazione della volontà collettiva in un sistema rappresentativo; ma che cos’è, per costoro, la democrazia?
4) di essere politicamente inesperto e dunque di farsi prendere la mano dall’emotività dell’opinione pubblica, magari anche per calcolo pre-elettorale europeo; come se i nostri soloni dell’intellighenzia potessero calarsi nelle menti di una popolazione esposta alle ritorsioni del terrorismo e traumatizzata dal bagno di sangue di Madrid, come se la crema benpensante dei salotti romani politicamente corretti avesse indicato qualche piano concreto e realistico (cioè non esposto ai ricorrenti veti americani) di azione per uscire dal campo minato iracheno, come se politici esperti e affidabili, nel panorama attuale (quel che passa il convento…), fossero i Blair, i Bush, magari anche i Berlusconi che saggiamente non ritirano le truppe, come se a oltre due anni dal tragico 11 settembre 2001 le mosse di questra classe dirigente, la sua strategia contro il terrorismo internazionale, non avessero reso il mondo (Italia compresa) un luogo sempre più a rischio anziché proteggerci.
Come mai, allora, quelle reazioni stizzite e quelle analisi di corto raggio, che naufragaheranno non appena sarà chiaro che il 1° luglio l’Iraq sarà come o peggio di oggi? Perché questa acredine da sinistra di fronte a un politico riformista e socialista (che a questo termine evidentemente attribuisce ancora un significato preciso) che s’interroga pragmaticamente su quali altre strade siano possibili per raddrizzare un quadro inquietante e per ottenere risultati utili per la popolazione irachena e per la comunità internazionale?
Ma di fronte alla catastrofe causata in Iraq dai Bush, Blair e Berlusconi, dovete prendervela con Zapatero? Suvvia, siamo seri, per favore.
Il fatto è che, diversamente dai presunti riformisti italiani, Zapatero possiede un po’ di idee e la capacità di tradurle nella prassi politica, nel rispetto della volontà popolare.
Quella stessa volontà popolare che il governo italiano ha calpestato partecipando a un’impresa militare cui la maggioranza dei cittadini – nonostante i potenti mezzi mediatici utilizzati per narcotizzarla – era contraria.
z. s.