Silvio Berlusconi supera il grottesco e tenta di spiegarci che in Iraq ora c’è una svolta con l’Onu. Glielo ha confermato l’amico George W.
Mentre gli Stati Uniti si apprestano ad aumentare il loro contingente di occupazione nel nome della sovranità dell’Iraq, il trio Bush-Blair-Berlusconi non demorde e vende fumo all’opinione pubblica nel tentativo di trovare sostegni internazionali per aggiustare il disastro che ha fatto in Iraq. Le forze di occupazione – di una guerra fondata sulle bugie – non si ritirano, gli iracheni non sono chiamati alle urne, i bagni di sangue civile e militare si susseguono, un esecutivo provvisorio – frutto della consultazione tra l’Onu e la coalizione a guida Usa – sarà insediato ma avrà solo poteri limitati (e comunque rappresenterà solo se stesso e chi lo ha nominato, non certo la popolazione irachena).
Questa è la svolta, per meglio dire “la sòla”, che Berlusconi ha “consigliato” (?) a Bush e che cerca di vendere agli italiani perché teme un meritatissimo tracollo elettorale.
L’Onu in Iraq si piegherà, forse, alla linea americana del salviamo il salvabile (a cominciare da quel che resta delle facce di Bush-Blair-Berlusconi) e cerchiamo la foglia di fico di quell’organizzazione che un anno fa abbiamo calpestato e insultato. Una linea che potrebbe passare a colpi di nuove mistificazioni della realtà, ammesso che in consiglio di sicurezza Paesi come la Francia assecondino questo disegno che tende a perpetuare la follia (la Germania da par suo ha già escluso che si possa ricorrere a truppe Nato).
Sulla sovranità irachena dei prossimi anni un segnale chiaro lo dà, tra gli altri, accanto alla crescita del contingente Usa, il progetto di ambasciata americana a Baghdad: avrà quasi 2 mila dipendenti ufficiali e sarà guidata da John Negroponte, attuale ambasciatore Usa all’ONU, sospettato di aver coordinato per anni gli squadroni della morte del Centro America dalla sua sede diplomatica in Honduras (Noam Chomsky, Composite Interview, 21/09/2001).
Questa mega struttura “diplomatica” dovrà essere, nei piani dell’amministrazione Bush, il vero governo dell’Iraq “sovrano” e gestira, naturalmente, sia i fondi della ricostruzione sia i proventi dell’industria petrolifera (il greggio iracheno rappresenta circa il 10% della produzione mondiale). Un po’ presto per parlare di sovranità nazionale…
Bush-Blair-Berlusconi erano partiti per portare in Iraq la democrazia; ma le novità nel Paese uscito dalla sanguinosa dittatura di Saddam sono l’esplosione dell’integralismo islamico (legata anche al rientro di molti sciiti esuli in Iran) e la penetrazione del terrorismo.
Le torture c’erano prima, fatte in casa, e ci sono, d’importazione, dopo il crollo del regime. La barbarie generale è sicuramente peggiorata, in un Paese massacrato da oltre un anno di guerra della quale non si intravede una via di uscita credibile.
Anche perché le ipotesi credibili di via di uscita non vengono neanche prese in considerazione da B.B.B. che non parlano di sostituzione delle forze di occupazione con un contingente composto da truppe di Paesi estranei a quanto è accaduto finora in Iraq (comprese nazioni arabe), né ovviamente di reale cessione del comando militare all’Onu o al governo iracheno che dovrebbe insediarsi il 30 giugno in attesa di elezione che forse si terranno nel 2005.
Di questo passo non cambierà nulla, purtroppo. Berlusconi non ha nemmeno accennato a un mea culpa, neanche i suoi alleati americani e inglesi ammettono apertamente l’errore gravissimo (d’altra parte il passo successivo sarebbe abbandonare il potere) che ha trascinato il mondo (Italia compresa) in un’altra guerra sanguinosa e inquietante.
Con Berlusconi l’Italia continua a svolgere il suo ruolo di complice di questa follia che semina morte, orrore e promette un futuro da incubo a noi tutti. Nemmeno sulle torture il capo del governo italiano è riuscito a dire qualcosa di decente alla Casa Bianca, eppure anche suoi ministri avevano chiesto almeno le dimissioni dell’insopportabile Rumsfeld che non poteva non sapere (anzi, probabilmente ne è l’ispiratore) quanto accade nelel prigioni americane in Iraq, in Afghanistan, a Guantanamo.
Mentre in Iraq si assiste alla saldatura imprevedibile e per molti versi incredibile tra sciiti e sunniti, Berlusconi e i suoi continuano ad agitare lo spettro della guerra civile nel caso di ritiro delle forze di occupazione. Ma la guerra c’è ora e forse, per qualche verso è anche un conflitto civile (la cui responsabilità ricade su B. B. B.), oltre a essere una guerra dai tratti sempre più coloniali, ed è difficile immaginare che la situazione possa farsi molto peggiore di adesso. Una cosa certa, confermata da sondaggi sicuramente non antiamericani della Gallup, secondo i quali la maggioranza degli iracheni su una cosa è d’accordo: le truppe di occupazione se ne devono andare. Ma la democrazia ancora non c’è, dunque la volontà della maggioranza non conta nulla. D’altra parte, in Italia e in altri Paesi presenti in Iraq che cosa contava la volontà della maggioranza degli elettori contraria all’avventura bellica e postbellica?
Il ritiro delle forze di occupazione parallelamente a una mediazione tra le varie componenti irachene sotto egida Onu per la creazione di un vero percorso di transizione indipendente appare l’unica via di uscita coerente con una politica della riduzione del danno di fronte al bagno di sangue attuale. Se del caso, se le componenti irachene lo vorranno, si potrà affiancare all’attività diplomatica dell’Onu un contingente internazionale per tutelare la transizione. Questa è la svolta, non un timbro Onu su un governo burattino che non convince gli iracheni.
Chi ha causato la devastazione del diritto internazionale e il fiume di sangue che scorre in Iraq dovrebbe essere mandato a casa, espulso dai luoghi del potere che ha mostrato di frequentare con pericolosissima irresponsabilità che mette a rischio il futuro dell’umanità e del dialogo tra le diversità. Un giorno, forse, saranno anche i tribunali americani a giudicare questa classe politica che rappresenta solo una minoranza miope ed economicamente privilegiata dei cittadini statunitensi.
In Europa abbiamo una prima occasione con il voto di giugno per il Parlamento Ue: mandiamoli a casa.