Il 3 luglio 1995 Alex Langer ci lasciava. Da anni molti politici e intellettuali ci offrono i loro pensieri su questo straordinario interprete della sua epoca, un attivista innovatore, aperto, impegnato nel segno della nonviolenza per la libertà e per relazioni di giustizia nel genere umano e verso il mondo naturale. L’attualità delle sue visioni viene ora riassunta con chiarezza dal suo amico Marco Boato, che ha da poco dato alle stampe il volumetto «Alexander Langer. Costruttore di ponti».
Langer si può considerare il più profondo e sottovalutato pensatore e atttivista politico della sua regione di nascita, il Trentino Alto Adige, dove a ricordarlo è in particolare la fondazione a lui intitolata.
Oggi, è importante far parlare Alex Langer stesso, per consentire a tutti, specie ai giovani, di incontrare il pensatore sudtirolese.
Potere, rapporti di produzione, nuova sinistra rossoverde, conflitti (etnici e non, compreso quello in Alto Adige), ecologia, lo squilibrio Nord-Sud del mondo, il debito da cancellare dei Paesi poveri, la relazione irrisolta fra il pane (il lavoro) e la libertà (il rispetto della natura e della salute, la partecipazione democratica alle leggi dell’economia), la casa comune europea, sono alcuni dei territori nei quali il suo pensiero ci ha accompagnato.
Personalmente ebbi modo di parlare con Alex Langer l’ultima volta nel febbraio 1995, pochi mesi prima che decidesse di lasciarci, il 3 luglio 1995 sulle colline sopra Firenze.
Questa intervista, scritta allora per un libretto sull’euroscetticismo scandinavo, fu il risultato di una giornata trascorsa a Strasburgo con Langer, che all’epoca era europarlamentare e capogruppo dei Verdi.
In basso, il lettore troverà poi una selezione di materiali audio, frutto di una ricerca svolta nel ricco e prezioso archivio messo a disposizione da Radio Radicale nel quale si possono trovare molti altri contributi con la partecipazione del politico sudtirolese, che in molti casi, dalla crisi europea all’involuzione micronazionalista, aveva mostrato una capacità di analisi prospettica fuori del comune.
Di seguito l’intervista del 1995, che a sua volta presenta alcuni passaggi interessanti sul senso e sulla fatica del cammino comune in Europa.
Qui, invece, la puntata di Voci dalle Dolomiti a Radio Cooperativa dedicata a Langer nel settembre 2015.
È una giornata quasi primaverile a Strasburgo, anche se siamo appena alla metà di febbraio. Nel palazzo del parlamento europeo siedono da un paio di mesi anche i rappresentanti della Svezia e della Finlandia, ne incontro alcuni lungo un corridoio interminabile.
In un aula poco affollata c’è una seduta dell’intergruppo “lingue minoritarie”, uno degli abituali incontri tra rappresentanti della società civile e membri dell’assemblea comunitaria. Si discute dei problemi nell’applicazione della Carta delle lingue regionali e minoritarie, non ancora controfirmata e ratificata da tutti gli Stati. I parlamentari ascoltano, tra gli altri, il presidente dell’Unione federalista delle comunità etniche europee, un sudtirolese, Christoph Pan, il quale illustra un documento sulla protezione delle minoranze, preparato per la conferenza intergovernativa europea sulla revisione del trattato di Maastricht.
Nel corso dei lavori si fa viva Elisabeth Rehn, la donna che nel 1994 fu sconfitta al ballottaggio delle elezioni presidenziali in Finlandia: ora, come parlamentare europeo ed esponente a Helsinki del partito della minoranza svedese, porta il suo contributo a questo laboratorio che tesse la tela del dialogo tra l’Unione europea e la vita quotidiana nel vecchio continente. Ascolto la Rehn, vedo i volti interessati dei suoi interlocutori, spagnoli, italiani, tedeschi, francesi, inglesi, catalani, sudtirolesi, gallesi, valloni. E penso ai lapponi norvegesi e al loro rifiuto europeo. E ai norvegesi in genere, alla loro assenza, che significa innanzitutto sconfitta del dialogo, perdita di un’occasione inimitabile di confronto con gli altri.
In quest’aula, una babele del “diverso-insieme è bello”, siedo accanto a un parlamentare italiano, il bolzanino Alex Langer, da sempre impegnato sul fronte della convivenza interetnica e dei rischi di un’Europa tutto mercato e superstato. Nel suo lavoro parlamentare, anche come capogruppo dei Verdi, Langer ha incontrato i dissensi, i sospetti, le diffidenze, le chiusure dei suoi colleghi scandinavi. E forse proprio quelli come lui, tra federalismo e ambientalismo, partecipazione democratica e decentramento, potranno, prima o poi, rivelarsi gli interlocutori capaci di sedurre anche il Nord recalcitrante e un pò snob, di aprire nuovi varchi nel muro di gomma antieuropeista del quale la Norvegia è un’emblematica rappresentazione.
Allora, Alex, che dire di questo arrancare europeista?
“Dico che mi preoccupa questa incomprensione con gli scandinavi nel mio tentativo di conciliare l’idea eurofederalista e regionalista con una critica profonda all’attuale forma istituzionale dell’Unione europea. Mi delude che non si senta il forte bisogno d’Europa che attraversa questo continente scosso da nuove tensioni nazionaliste. Mi delude che, nel loro metro di paragone con gli altri europei, gli scandinavi tendano a dimenticare che loro sono così pochi, che tutto è più difficile nella complessità continentale. Ma la vera sfida è proprio affrontare questo cammino difficile verso la costruzione di un’Europa che sia unione rispettosa delle diversità locali, non semplice allineamento di Stati nazionali sotto un gigantesco ombrello burocratico e omologatore. Il grande mercato unico, con i suoi effetti standardizzanti e incontrollati, accentua la necessità di camminare speditamente sul sentiero di un’integrazione politica che guardi alle regioni come un soggetto centrale. Le regioni come baluardo contro il centralismo istituzionale ed economico tutto sbilanciato nello sforzo competitivo con americani e giapponesi”.
Non è un caso che proprio molte minoranze regionali siano la culla del più fervente federalismo europeo…
“Si tratta di un atteggiamento saggio, dell’aspirazione a uscire dal sottoscala buio e sporco cui queste etnie minoritarie o piccole nazioni sono state costrette da gran parte degli attuali sedicenti ‘stati nazionalì, spesso fondati, almeno ideologicamente, proprio sulla negazione delle diversità etniche al loro interno. Oggi queste realtà cercano un appartamento nella casa comune europea, si rendono conto che molti di questi Stati nazionali riflettono standardizzazioni forzate, non i soggetti veri, non le comunità unitè da una comune percezione di sè, non i ‘noì storicamente cresciuti o vissuti, bensì i risultati di processi spesso forzosi e violenti frutto di lotte di potere.
Nella stessa Francia, “Grande Nation”, che per paura di mescolarsi in un calderone indistinto e senz’anima aveva quasi respinto il trattato di Maastricht, le piccole etnie la pensano diversamente. Occitani e bretoni, baschi e provenzali, corsi e alsaziani sono assai più europeisti della media francese e molti dei loro leader sono pure convinti federalisti europei. Certo, l’Europa di Maastricht, con i suoi dogmi economico-finanziari, non è il meglio in materia di rispetto delle diversita e di decentramento, al contrario. Tuttavia, guardando un pò oltre quell’ideogramma, si può senza dubbio affermare che le etnie minoritarie della Francia vedono nell’integrazione europea una speranza di affrancamento dallo stato nazionale che a lungo le ha negate e quasi cancellate. Le cose stanno più o meno allo stesso modo in altri Paesi europei. Gli indipendentisti scozzesi, che aspirano alla secessione dalla Gran Bretagna, si sono già detti favorevoli all’Unione europea. Anche i baschi più separatisti (dallo stato spagnolo) non desiderano uscire dalla Comunità. E in Italia le formazioni politiche più legate alle etnie minoritarie manifestano una propensione europeista ancor più spiccata (e forse meno superficialmente parolaia) della media nazionale, mentre le stesse Leghe si proclamano a gran voce favorevoli all’integrazione e critiche nei riguardi dello stato nazionale”.
Come si può disegnare un processo europeo che assicurare pari dignità alle tradizioni, alle culture, alle lingue di tutti i cittadini?
“Innanzitutto, con un progressivo superamento della tradizionale forma-stato nazionale. E questo è forse l’obiettivo che le comunità etniche minoritarie più avvedute cercano con il loro inserimento visibile nell’integrazione europea. Un obiettivo raffinato e innovativo, l’abbandono dell’ossessione della ricerca di un’autorealizzazione sotto forma di sovranità statalizzata e la preferenza a altri modi nella proiezione di sè. Da qui la necessità di un disarmo della statualità, per evitare che le identità etniche minoritarie non rischino la sopraffazione per mano delle più forti identità che si sono già fatte Stato. Bisogna, in altre parole, creare un ordinamento comune che comprenda, valorizzi e protegga parimenti le comunità maggiori e minori. Un ordinamento, cioè, nel quale essere uno stato non sia la condizione essenziale per esistere e valere sulla scena dei soggetti collettivi storici. L’alternativa può significare aumento della conflittualità continentale”.
Il progetto eurofederalista, dunque, per frenare una deriva destabilizzante più probabile in un’Europa delle patrie…
“La dolorosa disgregazione degli Stati e delle società dell’Est mostra chiaramente quale sarebbe il prezzo della ricerca di una sovranità statale o di confini nazionali soddisfacenti per tutti. In questa sanguinosa disseminazione di conflitti ed esplosione di intolleranza etnica, si staglia come un monito di valore inestimabile la lezione di coloro che cercano di coniugare l’affermazione dell’identità etnica con un processo di superamento degli attuali stati nazionali, in una prospettiva di integrazione europea. Ma per non deludere queste speranze e queste lotte per una casa comune europea è necessaria una decisa correzione di rotta rispetto al trattato di Maastricht. Solo un’Europa aperta, a forte tasso di decentramento regionale, con una larga valorizzazione delle diversità etno-culturali e con una pari dignità tra nazioni ed etnie potrà porsi come alternativa credibile alla disgregazione selvaggia o alla ricerca di esclusivismo etnico. L’Europa di Maastricht potrà convincere, forse, le borse e in futuro i mercati dei cambi; per convincere i popoli, piccoli e grandi, dovrà darsi un’anima e un nuovo ordinamento federalista”.
Di federalismo si parla tanto, anche in Italia. Trasferimento di potere dai governi centrali contemporaneamente verso il basso, le realtà locali, e verso l’alto, gli organi europei, per affrontare i temi di più ampio respiro. Quali benefici avrebbe tutto questo per le genti d’Europa, rispetto alla situazione attuale?
“Una crescita del potere delle realtà locali consentirebbe, se del caso, una soluzione autonoma dei problemi ma contemporaneamente anche una strategia sovrannazionale più efficace con le regioni confinanti protagoniste nella soluzione di questioni che attraversano le frontiere tradizionali. Penso, ad esempio, in tema ambientale, alla tutela delle Alpi o al disinquinamento dell’Adriatico. Il che, inoltre, significa stimolare l’incontro, il dialogo, la collaborazione, la fiducia reciproca: più si ha a che fare gli uni con gli altri, meglio ci si comprende. Questa filosofia dell’incontro è la regola fondamentale non solo per la costruzione della casa comune europea ma anche per la convivenza interetnica nelle regioni, nelle città dove saranno sempre più frequenti situazioni di compresenza di comunità di diverse tradizioni, lingua, cultura, religione, etnia. Ognuno dovrebbe sentirsi di casa, conoscere e accettare gli altri e la loro diversità”.
Tra i molti antieuropei norvegesi ce n’erano alcuni fortemente critici proprio sul rischio che si costruisca un omologante macronazionalismo europeo, che si emargini ulteriormente il Terzo mondo con nuove barriere doganali, che il mercato unico travolga le aspettative di chi si batte per un continente più rispettoso della natura. A loro che cosa diresti?
“Certo, l’Unione europea resta troppo asservita ai potentati economico-finanziari, troppo schiacciata sul grande mercato dei consumi, troppo dominata da governi e burocrazie, troppo poco regionalista. Ma l’alternativa è la difesa degli stati nazionali come se potessero garantire (e non lo fanno) livelli più alti di democrazia, di tutela ambientale, di giustizia sociale, di pace e di disarmo. Non ci resta, invece, che lavorare per un integrazione federalista paneuropea, da Ovest a Est, politica più che economica, culla di mercati locali differenziati, rigorosa nelle garanzie sociali e nelle legislazioni ambientali, protagonista nel decentramento e nella democrazia del pluralismo linguistico e culturale. Un’Europa capace di offrirsi come polo autonomo sulla scena internazionale e quindi come partner utile al sud del mondo. Un’Europa che possa progressivamente aprire la strada a quell’autolimitazione anche consumistica e produttiva che resta la condizione affinchè il nostro pianeta possa avere un futuro”.
Sul treno che lascia la stazione di Strasburgo rileggo un articolo di Langer: bisogno d’Europa, nazionalismi, diversità, aspettative regionali, ecologia, produzione, disoccupazione, consumismo, conflitti latenti, tensioni, rischi di destabilizzazione. Penso che la risposta eurofederalista a tutto ciò sia un atto di coraggio disincantato. Poi, mi sfrecciano nella mente bagliori elettrizzanti dei comizi antieuropei norvegesi. Che sia proprio quel dimenarsi isterico contro progetti diversi il segnale della crisi dello stato nazionale? Sarà mai possibile camminare insieme? E che cosa accadrà, nel frattempo?
— Lunedì 3 luglio 1995 Alex Langer si è tolto la vita, era sulle colline sopra Firenze, al Pian de’ Giullari. Langer era oppresso anche dalla fatica di chi sperava realmente nella forza del Dialogo ma vedeva i progetti ambiziosi e l’impegno quotidiano naufragare nel mare dell’incomprensione, dell’indifferenza, delle alchimie politiche, dei veti incrociati, degli interessi costituiti.
Tristemente esemplificativo e doloroso il fallimento dei suoi sforzi enormi per fermare il genocidio nella ex Iugoslavia. Ma anche il suo reiterato rifiuto del censimento etnico in Sudtirolo, un moto di disobbedienza civile contro una società separata, pagato con l’esclusione dalle elezioni amministrative di Bolzano del maggio 1995. Alex Langer ha lasciato una testimonianza indelebile nel nome del dialogo.
LA VOCE DI ALEX LANGER DALL’ARCHIVIO DI RADIO RADICALE
– I movimenti ambientalisti, Roma 20 febbraio 1985