di Fabio Massimo Parenti
Che relazione c’è tra il petrolio e il grano? In generale possiamo rispondere affermando che essa riguarda sia i processi produttivi che la geopolitica. Le due questioni energetiche del petrolio e degli alimenti s’intrecciano, infatti, nell’evoluzione dei processi produttivi (basti pensare al fatto che l’aumento globale del consumo dei derivati del greggio, in relazione alla crescente metropolinizzazione, ha determinato nel tempo un incremento della domanda d’alimenti trasformati industrialmente) e nel rapporto con la geopolitica statunitense (rapporto rintracciabile negli scambi commerciali internazionali). In particolare, il cambiamento delle ragioni di scambio petrolio/grano ci permette d’analizzare, seppure in modo parziale, i rapporti geografico economici e politici strutturali fra Arabia Saudita, leader del gruppo Opec, nonché detentore di ¼ delle riserve di petrolio conosciute al mondo, e gli Usa, sempre più dipendenti dagli approvvigionamenti esteri da cui deriva il 60% del loro fabbisogno petrolifero (quota che si stima aumenti al 70% nel 2025).
La formula oil for food è infatti una delle forme in cui s’intrattengono ancor oggi i rapporti geopolitici tra gli Usa e i Paesi del Medio Oriente. Di conseguenza i cambiamenti dei termini di scambio petrolio/cibo non possono che avere ripercussioni economiche e politiche. Se negli anni ’70 uno stàio di grano era scambiato sul mercato mondiale con un barile di petrolio, all’inizio del 2004 ci volevano circa 9 stàia per barile. In contesto del genere, gli Usa, che sono il più grande importatore di petrolio ed esportatore di grano allo stesso tempo, stanno scontando un ampliamento del proprio debito anche a causa di ciò: nel 2003 solo l’11% della crescente spesa per il petrolio è stato coperto dall’export di grano. Per contro l’Arabia Saudita, che è invece il più grande importatore di grano ed esportatore di petrolio, ne trae maggiore beneficio (si veda L. Brown, Saudis Have US Over a Barrel. The Shifting Terms of Trade Between Grain and Oil, Earth Policy 14 aprile 2004, www.earth-policy.org/).
La monarchia Saudita, tuttavia, è in profonda crisi a causa dell’effetto combinato delle tensioni interne e delle guerre regionali. Ma non solo per questo. Come ci ricorda l’ex presidente della Shell in Venezuela, Alberto Quiros, gli studi dimostrano un significativo depauperamento dei principali giacimenti sauditi nella parte centro-orientale del Paese. E per risolvere almeno in parte questo problema, sarebbero necessari, sempre secondo Quiro, molti più investimenti di quelli programmati dall’Aramco (la compagnia di Stato saudita), che non si trova nelle condizioni per stare al passo con le richieste degli Usa. L’atteggiamento pro Usa, tra l’altro, non farebbe che aumentare il rischio di attentati, che sempre più spesso sono rivolti verso l’establishment petrolifero. Il risultato è che la credibilità di questo Paese verso il mondo, e in particolare verso gli Stati Uniti d’America, va sempre più indebolendosi. Con un prezzo del petrolio costantemente oltre i 40 $ al barile e con dei prezzi futuri sul greggio americano che non hanno mai smesso di salire negli ultimi anni, si può tranquillamente sostenere che è mutato in modo strutturale il rapporto dinamico fra domanda e offerta di greggio, mentre i meccanismi di fissazione del prezzo sono sempre gli stessi (si veda Economist, A U-turn in the desert, 10 maggio 2004, www.economist.com/ e MEES, What Has Changed in The Oil Markets?, www.mees.com/.).
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