Ho chiesto a Giancarlo Salmini, sociologo e giornalista, di raccontarci la sua esperienza nel movimento studentesco del ’68 e successivamente di protagonista dell’attività di Lotta continua, in particolare a Trento.
Ho chiesto a “Carlos”, che è un amico e anche un collega di scrivania, di raccontare il percorso che lo ha portato dalla sua cittadina natale in Piemonte a Trento e alla facoltà di sociologia.
Ecco la sintesi del suo racconto.
L’intervista fu raccolta il 28 giugno 2001 e fu pubblicata all’epoca da Nonluoghi.
Zenone Sovilla
Come fu il primo impatto con il movimento studentesco a sociologia di Trento, nel ’68?
Era il 5 novembre del ’68, il Movimento studentesco qui era nato molto prima. L’anno più importante per la sua formazione e crescita è stato proprio il 1967 con una lunga serie di iniziative, assemblee, corsi, seminari di approfondimento sui temi dell’internazionalismo, della riforma universitaria e con incontri con rappresentanti politici e sindacali di altre realtà. Il 1968 era iniziato con una lunga occupazione, da gennaio a marzo, (in corrispondenza con l’offensiva vietcong del ), con discussioni interne, corsi, assemblee, interventi dei membri delle Black Panthers americane o con i tedeschi dell’Sds. Al mio arrivo, dunque, dopo questa prima fase, diciamo, internazionalista, il movimento aveva cominciato a mettere radici nel territorio, a Trento ma anche nella vicina Rovereto con un’azione puntuale e continua in fabbrica e davanti alle scuole.
Che tipo di azione?
Si puntava soprattutto sui temi della nocività del lavoro (nella fabbriche chimiche tipo Sloi e Prada, o alle Ferriere di via Brennero ma anche nella stessa Michelin di via Sanseverino), della tutela della salute degli operai, dell’orario di lavoro, del lavoro notturno, dei trasporti, della casa e così via. Non mancavano certo riferimenti alla situazione nazionale e internazionale, sempre presenti in ogni circostanza come per ogni intervento. Dopo i primi momenti di sconcerto e sorpresa, gli operai mostravano interesse per le cose che venivano dette sui volantini. Non tutti, ovviamente, la diffidenza era ancora molto diffusa, la cautela d’obbligo. Anche il sindacato – che legittimamente poteva sentirsi in qualche modo scavalcato – non mostrò ostracismo ma seppe far tesoro di quegli stimoli per rilanciare l’iniziativa in fabbrica su temi particolari e scottanti.
Facciamo un passo indietro: al punto di partenza del movimento…
L’elemento scatenante la cosiddetta “contestazione” fu la condizione di studente in quel particolare periodo storico con tutto quello che ne conseguiva: corsi, materie di studio, metodi di studio, corpo docente, sbocchi professionali. In poche parole l’antagonismo nei riguardi della struttura accademica come tale. Trento, tra l’altro, non era ancora libera università bensì un istituto che ancora doveva essere parificato a livello statale (questo avvenne in seguito).
Dunque, tutta una serie di temi prettamente universitari, scolastici, studenteschi che toccavano da vicino ogni iscritto. Ma la preparazione culturale di molti leader e in generale quella complessiva di gran parte degli studenti che vantavano periodi più o meno lunghi di militanza nei partiti della sinistra, introdussero ben presto nel dibattito generale la dimensione dell’internazionalismo e dell’antimperialismo sulla scia degli avvenimenti che in quegli anni sconvolgevano il pianeta. In agosto c’era poi stata la fine della cosiddetta “Primavera di Praga” con l’onta dell’intervento armato sovietico e la morte di Jan Palach cui il neonato Movimento studentesco dedicò numerose iniziative a ricordo. L’antagonismo nei confronti dell’apparato universitario si veniva così a saldare con temi politico-ideologici ispirati alla libertà, alla fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, alla necessità dell’uguaglianza, della dignità dei popoli.Con una condanna sia dell’Imperialismo americano che dello stalinismo sovietico e dei suoi “satelliti”. Una linea abbastanza innovativa rispetto ai partiti della sinistra e al Pci di allora, una linea che cominciava a scavare fossati tra noi e la sinistra istituzionale.
Dunque, rapidamente la lotta si espande dall’università alla fabbrica.
Alla fine del ’68 si cominciava già a ragionare in termini di intervento locale per far crescere la sensibilità e la coscienza operaia e contadina in una provincia che vedeva un partito, la Democrazia cristiana, che sfiorava il 60 per cento nelle campagne e poco meno in città e nei centri maggiori. Una provincia in cui si sentiva la presenza soffocante (anche se, a ben vedere, con imprevedibili ampie aperture al nuovo e ai messaggi conciliari) di una apparato cattolico fortemente radicato. Per il Movimento studentesco la fabbrica era vista come la prima tappa di questo percorso che ci portava fuori dall’università e verso il tessuto sociale. Quando arrivammo, all’inizio di novembre, c’era appena stata l’adunata degli alpini con scontri in cui erano stati malmenato degli studenti (uno di questi aveva in tasca il tesserino da tenente degli alpini ma non lo estrasse per orgoglio!).
Come fu l’accoglienza che riceveste dal movimento al vostro arrivo in università?
Fummo accolti da una specie di “comitato di ricevimento”, cioè da alcuni studenti “anziani” che praticamente ci presero “in consegna” (dopo le formalità di rito: da dove venite, perchè avete scelto Trento, come vi chiamate, ecc.) e che ci accompagnarono in mensa. E lì c’erano tutti, da Rostagno, Curcio, Padova, Berio, Di Pietra, Mulinaris, Chiais, Camuffo e tanti altri. E così entrammo subito nel movimento, senza neanche una minima mediazione, quasi una predestinazione, un percorso naturale, congeniale; già il giorno dopo facevamo parte di commissioni, gruppi vari (comunicazione, fabbriche, scuola, università…) e pronti ad affrontare la nuova vita di militanti a tempo pieno tra fabbriche, scuole, riunioni, lettura collettiva dei giornali, ma anche momenti ludici coinvolgenti e creativi. Una autentica catarsi.
Questo lavoro reticolare, rispecchiava ciò che succedeva anche altrove in Italia?
Sì, più o meno sì anche se a Trento la peculiarità era particolamente accentuata sia per il tipo di facoltà che per la natura della popolazione studentesca. Gli studi più o meno erano gli stessi in più c’erano approfondimenti sulla realtà locale.
L’idea di andare fuori nel territorio c’era un po’ dappertutto, era stato un processo complessivo nel percorso del movimento?
No, è stata una specificità locale. E’ successo – in parte e in misura limitata, almeno all’inizio e temporalmente più tardi – anche da altre parti, ma successivamente, quando si passò dal Movimento studentesco, ormai giunto al lumicino, alla formazione dei gruppi cosìddetti extraparlamentari. Il movimento studentesco invece, a Trento, operò quasi subito la scelta di uscire dall’università per proporsi a livello sociale come punto di riferimento per accrescere la coscienza collettiva sulle condizioni vita di quelle che allora venivano chiamate le “masse”.
Perché era un bisogno molto forte rispetto alla situazione ambientale qui: molta Dc, molto clero…
Sì. La Dc con una facoltà di sociologia che aveva creato con le sue mani per perpetuare il potere, per creare quadri da distribuire nelle valli, per prendere in mano la situazione, si è trovata invece con un’università completamente fuori controllo e spostata sulle posizioni di un antagonismo radicale. In quella fase infatti si passò – come ripeto – dall’attenzione ai temi strettamente accademici e scolastici ad un orizzone universale di liberazione dallo sfruttamento e dall’oppressione, un’utopia concreta che allora appariva tale.
In pratica, tra il ’68 e il ’69 comincia a circolare la parola d’ordine (nata a Torino, alla Fiat), “la lotta continua”, sulla falsariga della “Lutte Continue” del maggio francese. Anche Trento fece sua quella parola d’ordine che ben presto sarebbe diventata la connotazione primaria di un vasto movimento extraparlamentare.
Ed esisteva un progetto, un’idea alternativa a quello che si tentava di smantellare?
Nel ’68 ancora no. Era ancora tutto nella fase della crescita individuale e soprattutto collettiva (attraverso prassi e teoria, lavoro politico e studio teorico) su certi temi. Non c’era ancora l’idea di un partito, del ruolo guida di una organizzazione. Era il momento di far crescere la coscienza collettiva del loro sfruttamento in fabbrica, dell’oppressione a scuola, della difficoltà di vivere in quartieri dormitorio, di pagare l’affitto. Tutto il campo sociale era investito dalla “propaganda”, dall’azione politica, dall’intervento minuzioso e continuo dei “quadri” studenteschi, affiancati in quest’opera dalle prime “leve” formate da studenti medi, impiegati pubblici, operai di grandi e piccole fabbriche, apprendisti e financo dai cosiddetti “Lumpenproletari”, emarginati in cerca di riscatto sociale. Il progetto era l’approdo ad una società più giusta, all’uomo liberato dallo sfruttamento, e diciamolo, al comunismo, visto come momento di sintesi di tante liberazioni individuali avvenute nella lotta per i propri diritti. L’alternativa doveva crescere via via nelle prime forme di autoorganizzazione in ogni segmento della società, dalla fabbrica al quartiere. Un percorso ancora per certi versi fumoso che si intravedeva solo.
Poi c’è stata una fase successiva in cui c’era invece più
forte la presenza di un progetto alternativo di società?
Sì, con il passaggio di una parte dei movimenti studenteschi (a Trento buona parte del movimento studentesco), a far parte di gruppi della sinistra extraparlamentare che nel frattempo si erano andati formando nel resto del Paese sull’esempio di analoghe esperienze in Francia, Germania, Usa. Con il lento ma insesorabile processo di “ideologizzazione” si vennero gettando le basi per, da una parte, identificare nel comunismo o socialismo la meta finale, dall’altra per venire inesorabilmente risucchiati da diatribe intraspecifiche sul primato di questa piuttosto che di quella parola d’ordine a seconda dei riferimenti teorici cui le varie organizzazioni (Manifesto, Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Potere Operaio) facevano capo (marxismo-leninismo, leninismo “illuminato”, trotskismo, anarchismo ecc.). Il progetto alternativo di società dipendeva quindi da quanto marxismo o spontaneismo affiorava nelle varie organizzazioni, in perenne polemica tra loro. L’inizio della fine. Solo Lotta Continua – a mio parere ma non solo – seppe, più a lungo di altre organizzazioni, mantenere un tasso molto alto di spontaneismo e di eresia marxista cercando il radicamento nella popolazione proletaria partendo dai problemi reali e limitando la contaminazione troppo ideologica. La via per la rivoluzione era ancora troppo lunga per preconizzare già una società alternativa.
E tu in questo ambito sei andato subito a far parte di Lotta continua?
Sì. E’ stato, il mio, un passaggio lineare, graduale, quasi automatico. Tutti quelli che più o meno avevano fatto interventi all’esterno dell’università, con l’inizio delle prime strutture organizzative a livello nazionale cui fare riferimento (Lotta continua era in embrione) si spostarono all’esterno delle mura accademiche. Mentre molti altri che avevano continuato a sostenere la priorità dell’intervento all’interno delle università sui problemi degli studenti, della scuola, dei corsi, dei docenti, eccetera, una volta estinto il Movimento si dileguarono.
Quindi la maggior parte confluì in Lotta continua?
La maggior parte proseguì su questa strada. Il Movimento studentesco si sgonfia piano piano, gli studenti abbandonano il lavoro politico per proseguire sulla propria strada mentre molti altri approdano ad altri movimenti: il Manifesto, Avanguardia operaia, Potere operaio (quest’ultimo non attecchì a Trento nonostante qualche cronista abbia continuato per anni ad annoverarlo negli spezzoni della manifestazioni, tratto verosimilmente in inganno dalla parola d’ordine, – lo slogan “Potere Operaioooo” – gridato nei cortei).
Gli altri gruppi non sono in continuità con il movimento studentesco,
nascono in modo più rapsodico rispetto al percorso del movimento?
Lotta continua in alcune sedi nacque in continuità con il Movimento studentesco, in altre fu creata da quadri studenteschi, ma si formò con altre modalità, questo avvenne a Torino, Milano, Roma, Napoli: nelle grandi città c’è stato questo passaggio. In altre zone e città minori, furono gli stessi studenti impegnati nelle grandi facoltà delle città maggiori, a tornare al paese e a costruire le premesse per una sede di organizzazione.
E gruppi tipo Potere operaio?
Potere operaio era un gruppo extraparlamentare con una caratterizzazione teorica molto accentuata, presente in poche sedi, con quadri
sostanzialmente di estrazione molto intellettuale, universitaria che diedero vita a un’organizzazione creata per osmosi, per continua cooptazione di altri quadri studenteschi che si avvicinavano alle idee “operaiste” portanti del gruppo.
Lotta continua invece era nata in modo completamente diverso, dal Movimento che si era riversato all’esterno, su fabbriche, scuole, nei paesi, anche al Sud. Il retroterra meno caratterizzato dall’ideologia fu la chiave di volta per una adesione di massa, basata sulla lotta in fabbrica, nella scuola, nella società, partendo dai problemi più impellenti, sindacali e non, e con forte amalgama culturale oltre che personale.
E l’attività di Lotta continua è rimasta quella che sostanzialmente parte del movimento già faceva all’esterno?
In gran parte sì. Alcune sedi continuavano a mantenere contatti con l’università, perché funzionava come una sorta di serbatoio di militanti a tempo pieno. Visti i numeri, serviva gente che tenesse in piedi tutte le strutture che si stavano allargando. In università si manteneva un filo d’interlocuzione con uno o due responsabili che si interessavano di tutto quello che succedeva e intervenivano in caso di mobilitazioni di massa.
Quindi il grosso dell’attività di quel che rimaneva del movimento studentesco agli inizi degli anni ’70 era sulle spalle di Lotta continua?
Dal punto di vista quantitativo era sicuramente l’organizzazione più numerosa con un radicamento territoriale diffuso in tutto il Paese. Il Manifesto si era ritirato a fare il giornale e non faceva grandi interventi. Avanguardia Operaia aveva alcune sedi abbastanza numerose, forti, ma complessivamente era Lotta Continua che aveva il maggior numero di sedi, di membri aderenti e con una larga fascia di simpatizzanti.
Lc riscuoteva anche più simpatia, perché era l’organizzazione più spontaneista, meno legata a concezioni ideologiche molto precise come quelle di Potere Operaio che si rifacevano a linee di pensiero marxista più dogmatico e settario.
In Lotta Continua c’era più libertà d’interpretazione e un’analisi complessiva più articolata, meno votata all’ideologia pura. I riferimenti non erano i sacri testi ma la realtà sociale, le dinamiche sindacali, partitiche, della lotta presente in ogni settore.
E tutto questo si rispecchiava in un progetto di alternativa più o meno individuato anche nel lungo periodo o era ancora una fase di costruzione?
Nel ’69 ancora c’erano grosse lotte in piedi. Non dimentichiamoci l’autunno caldo con tutto quello che ne poteva conseguire. Quindi, fino ad un certo punto, l’intervento politico rimaneva un momento di crescita collettiva, di formazione, controinformazione, preparazione dei quadri operai per sviluppare la lotta di fabbrica. A questa si affiancava, in altre città, l’occupazione delle case sfitte, l’autoriduzione degli affitti, per nuovi spazi sociali, per l’allargamento delle organizzazioni spontanee di base. Non ci si poneva ancora il problema di una struttura organizzativa rigida, di un partito.
Ma l’orizzonte, il progetto, l’obiettivo strategico?
Si trattava di far crescere in modo esponenziale la mobilitazione di massa che coinvolgesse sempre un maggior numero di persone e di settori sociali. Ad un certo punto – si pensava – lo Stato avrebbe dovuto fare i conti con questa crescita collettiva, anche organizzata, di proletari e non, che si univano in un grande fronte comune per… sì, per quella che si chiamava, un po’ romanticamente, la Rivoluzione. Ma la si vedeva talmente lontana (lo slogan “padroni, borghesi ancora pochi mesi” era solo tale, appunto) che era inutile porsi il problema di come ci si sarebbe arrivati, il problema era organizzare, crescere, poi gli strumenti si sarebbero trovati lungo il cammino.
La strage di piazza Fontana (con tutto quello che significò e ne seguì), purtroppo, fece invece scattare un meccanismo involutivo in molte organizzazioni (provocando uno sbandamento anche in Lotta continua che seppe però rimettersi sulla giusta via e ritrovare il contatto di massa).
Lo Stato allora apparve troppo forte, organizzato, alleato con altri stati imperialisti, Cia, servizi segreti, esercito… Così forte e cinico da indurre una parte dei militanti delle organizzazioni nascenti extraparlamentari (meno – ripeto – in Lc) a ritornare su vecchie percezioni ideologiche, rigide, cioè l’organizzazione simil-partito, l’organizzazione dei quadri eccetera.
La situazione appariva oggettivamente soffocante, gravida di foschi presagi di golpe (infatti…), di una contrapposizione netta e irriducibile dello Stato nei confronti delle lotte che c’erano state fino a quel momento. Una situazione da Stato di polizia che presupponeva – per alcuni – il ricorso a forme di organizzazione più efficaci e “nascoste” per usare un eufemismo.
Una piccola minoranza decise che era il momento – anche lì molto ideologicamente, estremisticamente, molto settariamente e infantilmente – di contrapporsi in modo armato. Nacquero le Br ed è già storia conosciuta. Molti militanti o simpatizzanti ebbero timore e lasciarono le organizzazioni (salvo poi ritornare in piazza qualche tempo dopo quando le stragi fasciste iniziarono a insanguinare l’Italia).
Ad incrinare tutto, non ho dubbi, non fu tanto la strage di piazza Fontana quanto tutto quello che l’aveva preceduta e seguita. Cioè la repressione, l’incapacità di vedere uno sbocco di massa positivo e quindi la necessità di trovare uno sbocco non di massa ma di avanguardia che ponendosi alla testa dei vari movimenti di lotta in modo “ideologicamente” più marcato potesse di nuovo cercare di tirarsi dietro il Paese.
A Trento fu un susseguirsi di atti intimidatori polizieschi, di connivenze con i fascisti locali e nazionali, di attentati dinamitardi e incendiari a sedi e personalità della sinistra (anche moderata), di aggressioni squadristiche, di provocazioni. Un clima veramente da stato d’assedio. Piazza Duomo era costantemente presidiata dalla polizia. Davanti a scuole e fabbriche la polizia non mancava mai. Tutti erano seguiti, schedati, controllati. Non dimentichiamolo. E in altre città, Milano, Torino e Roma non era da meno. Difficile mantenere nervi saldi e proseguire con il consueto intervento politico. La file si assottigliavano. C’era il pericolo di dover abbandonare tutto per mancanza di persone e mezzi operativi (ciclostili sequestrati, sedi perquisite, eccetera).
Non c’è quindi da meravigliarsi che nelle grandi città molti scelsero la clandestinità. La nascita del terrorismo fu uno spartiacque. Una minoranza si staccò dalle organizzazioni e queste, dopo un comprensibile momento interlocutorio, ripresero a macinare attività politica per sottrarsi alla morsa della contrapposizione frontale condannando le azioni armate.
Anche in Lc si passò ad una organizzazione più “partitica” e rigida, all’organizzazione autodifensiva dei cortei, alla difesa delle sedi costantemente sotto osservazione e pressione.
Quindi anche la struttura di Lotta continua si è irrigidita?
Ovviamente si irrigidì, inizialmente, ma meno di tante altre organizzazioni, meno per esempio di Potere operaio che diede vita – più tardi – ad un’altra formazione, Autonomia operaia.
Non c’erano dubbi rispetto alla prospettiva che in questo modo si apriva al movimento?
Non c’erano dubbi – nei primi anni ’70 – sul fatto che si stava andando verso lo scontro duro, lo chiamavamo “scontro generale”. Uno scontro non di avanguardia ma di massa.
Lotta continua, al centro di questo quadro, secondo le strategie leniniste, corrette e rimasticate e applicate alla situazione specifica, doveva imporsi come avanguardia. E lì purtroppo alcuni militanti hanno scambiato questo fatto di essere avanguardia con la necessità di creare una struttura che si contrapponesse da subito con strumenti che erano invece condannati dall’organizzazione. E al congresso dell’organizzazione, parte di questi militanti uscirono da Lc.
Si passò in un certo senso da una visione del potere e dei suo elementi costitutivi di tipo reticolare a una di tipo monolitico e da qui il farsi avanguardia per colpire il presunto punto nevralgico del potere abbandonando il lavoro nelle varie maglie della rete che insieme supportano il sistema di dominio?
Fu una discussione che durò molti mesi. Fu una reazione all’intervento repressivo nelle piazze e alle bombe: si alzò il livello dello scontro e il movimento cercò di rispondere a questo nuovo scenario con nuovi strumenti.
Non è che questo fosse proprio l’obiettivo dei gestori del sistema di dominio: lo scontro frontale (contro una corazzata) per evitare un lavoro che poteva realmente minare le fondamenta di quel potere?
Il fatto è che quando sei travolto dagli avvenimenti… Ai primi segnali d’allarme, tuttavia, dopo uno sbandamento relativo durato circa un anno, tra il ’72 e il ’73, la reazione – giusta – fu di intensificare gli sforzi per ramificarsi ancora di più nella società (i proletari in divisa, gli interventi nei quartieri, sulle case sfitte, per la riduzione delle bollette, eccetera). Tutto in funzione della crescita di una forza popolare più radicata, per spazi autonomi di autogestione e di libertà.
Contemporaneamente, pur mantenendo vivi e vitali i contatti e le attività nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri, ci si rese conto – invero un po’ semplicisticamente – che il problema principale era diventato il nuovo fascismo e quindi l’intervento si indirizzò soprattutto verso questa emergenza (non dimentichiamo che fu il periodo delle stragi fasciste sui treni). Allora, ecco le campagne per la messa al bando dei missini (“Msi fuorilegge e la Dc che lo protegge”). C’era una bomba al mese, ormai questo rischio di involuzione fascista era il nemico numero uno e rischiava di catalizzare tutta l’energia di Lc facendoci perdere un po’ di vista il resto. Ci furono anche scontri diretti, molti pensavano – considerato che ormai lo Stato era “fascista” o quantomeno connivente – che ogni fascista che s’incontrava andasse “legnato”. Da qui alcuni che avevano il prurito alle mani bruciarono i tempi e svilupparono l’idea del passaggio tragico al terrorismo.
E come si arrivò, in questo quadro, all’esaurimento dell’esperienza di Lotta continua?
Alla fine degli anni ’70 Lc, grazie anche allo strumento del quotidiano nazionale, raggiunse il massimo della sua estensione quantitativa e qualitativa ma la fine si approssimava. Da un lato, il terrorismo che inquinò le idee iniziali di una sinistra extraparlamentare che piano piano si avviasse a diventare una sinistra in grado di coinvolgere anche il partito comunista e i partiti socialisti, una vasta area della società. Il terrorismo stroncò definitivamente questo tentativo.
Dall’altra parte, a mano a mano che si procedeva cresceva la tendenza, tipica delle organizzazioni partitiche, a fossilizzarsi, a creare dei leader inamovibili, a limitare la discussione. Lotta continua era nata proprio in risposta alla forma partito con un’idea alternativa di tipo movimentista, invece si ritrovò a essere inglobata in una forma partito peggio delle altre. Il femminismo in qualche modo si propose come una critica radicale al partito “maschio” e contribuì a sfaldare quel movimento e le sue degenerazioni. Nel ’76 Lc venne sciolta. La stragrande maggioranza rifluì. Alcuni – una piccolissima e sparuta pattuglia già in rotta da anni con l’organizzazione – raggiunsero – è onesto non negarlo – le sponde del terrorismo.
Il ’77 fu l’ultimo conato dei movimenti residuali. Iniziarono poi da una parte i grandi botti del terrorismo, le sanguinose esecuzioni sommarie e dall’altra iniziava l’era dell’edonismo, del craxismo, del “nuovo”, del disimpegno, dell’ecologismo, del riflusso.
Non va dimenticato che nel frattempo si era trasformato il quadro politico generale: nelle fabbriche i padroni avevano da tempo cambiato strategie, l’economia si avviava su altre strade, l’intervento sindacale in fabbrica incontrava maggiore repressione. C’era più mobilità, emergeva con le “isole di montaggio” il tentativo di corresponsabilizzare gli operai e contemporaneamente di dividerli. Era cambiato il modo di lavorare, dal lavoro in linea si era passati al lavoro a isola, dal lavoro a isola al lavoro individuale; la divisione interna ricreava categorie che erano state abolite dal contratto del ’69. In sostanza, un’opera di divisione all’interno del movimento operaio. L’economia prendeva un’altra strada e non riuscivamo a star dietro analiticamente a questa evoluzione: si stava concludendo un ciclo del capitalismo e se ne apriva un altro, con l’informatizzazione e tutto il resto.
L’aria stava cambiando anche nelle scuole, non c’era più la possibilità di lavorare con una prospettiva minima di risultato.
Una trasformazione epocale del capitalismo che aveva aperto le porta a ciò che poi accadde nei decenni successivi…
Sì, poi i cicli capitalistici hanno cominciato a susseguirsi con una velocità assolutamente impensata. Oggi si passa da uno stadio all’altro senza neanche avere il tempo di accorgersene e tanto meno di intervenire.
Questa è una difficoltà significativa: metti a fuoco un obiettivo, un problema, una situazione e non fai in tempo a muoverti che già ha cambiato pelle, si è trasformata in qualche cosa di diverso ma altrettanto pericoloso.
Se confronti i dieci anni del movimento ’68-’77 con ciò che accade oggi, che cosa ti viene in mente?
Immaginare oggi un movimento che ripercorra le fasi di quel decennio è assolutamente antistorico. Non vedo all’orizzonte un movimento in grado di ripercorrere certe strade. Quello che sta nascendo – mi riferisco ai cosiddetti “no global” – credo sia qualcosa che al momento non possiamo immaginare. Ora c’è un grande contenitore con dentro tutto e il contrario di tutto.
Non ti pare, però, che questo movimento del cosiddetto “popolo di Seattle” stia correndo il rischio di ricadere negli schemi vecchi che hanno già mostrato i loro limiti?
Penso a riflessi condizionati come quelli che portano alla perdita di una visione lucida degli elementi costitutivi del sistema di dominio (la rete sociale e non un Palazzo) o alcostituirsi in avanguardia alla ricerca di improbabili scorciatoie (ricreando già al proprio interno un ordinamento gerarchico-narcisistico con capi capetti e leader carismatici, pur amando una rappresentazione reticolare/orizzontale
di se stessi come movimento)?
Non saprei, siamo in una fase di transizione molto intensa. Un capitalismo sempre più dedito al solo profitto e in continua crescita e diversificazione. Un capitale finanziario invadente e omnicomprensivo. La mancanza di organismi super partes tra le nazioni in grado di dettare alcune regole. L’immigrazione e il futuro dei nuovi lavori. Le difficoltà sindacali. Le evidenti contraddizioni del sistema maggioritario italiano. La deriva di destra dell’intero Paese. Tutto accade talmente in fretta che è difficile un’analisi profonda esaustiva. Il quadro complessivo dello stato del mondo è così articolato da rendere per forza complesse e magari anche confuse le risposte che si tenta di dare. Una volta si partiva dalle proprie condizioni di disagio, sofferenza, proletarizzazione, difficoltà ad avere una voce nella società, per arrivare a individuare dei responsabili. C’erano l’università, la scuola, la fabbrica, il capetto, il paese, il prete, il capitano e tutte le cosidette “agenzie di controllo” della società; ma c’era anche una visione internazionalista di un certo tipo: c’erano gli Stati Uniti, il Diavolo, e poi tutti i vassalli. C’erano interventi repressivi e guerrafondai di qua e di là; c’era una sensibilità collettiva diversa; c’erano esempi concreti di antagonismo molto recenti (allora) come la guerra partigiana o situazioni come Cuba, l’Africa di Lumumba, la Primavera di Praga, le Pantere nere americane, il Vietnam…
Però, mi pare che su questo piano un parallelismo con l’oggi esista: gli Stati Uniti, il Chiapas, le multinazionali, il Brasile...
Sì, ma esiste una sorta di blackout di percezione, nonostante oggi gli strumenti di comunicazione disponibili siano enormemente più forti con l’avvento di Internet e dintorni. Di fronte a una globalizzazione che ormai ha chiuso il cerchio inchiodandoci evidentemente tutti sulla stessa barca, ci sarebbe la possibilità di una presa di coscienza collettiva totale in un mondo non più diviso in due grandi sfere d’interesse (Usa-Urss) ma unificato. Ormai è a nudo l’esistenza dello stato imperialista globale delle multinazionali (formula usata dalle Br da prendere turandosi il naso): il capitale finanziario si è sostituito agli investimenti tradizionali e ingloba tutto e tutti.
Questo processo ha ridotto ognuno a un atomo parcellizzato che è impossibile anche partire dal proprio particulare. Sono talmente segmentati i vari ambiti di lavoro, di difesa dei propri interessi che c’è quasi una impossibilità di unificazione. Da una parte c’è un sindacato che nelle fabbriche ha visto ridursi enormemente la sua capacità di mobilitazione; dall’altra, scuole e università in cui la gente studia (e fa bene, per carità) ma credo che per lo più non pensi ad altro; altrove, non ci sono quasi più i quartieri “ghetto” che una volta si ribellavano contro il caro degli affitti, per spazi sociali eccettera, ora ognuno si arrangia da solo come può…
Non c’è più una situazione in cui ognuno si identificava con l’altro attraverso una pellicola trasparente ideologia che li unificava, che gli dava una speranza di vita, di uguaglianza, di fraternità eccetera.
Mancano completamente dei connettori per far scattare la “rivolta planetaria” contro lo stato di cose presente..
E che cosa c’è?
Un movimento diviso in organizzazioni del tutto diverse fra loro, in grado forse di far crescere una coscienza collettiva circa il fatto che il pianeta va nella direzione sbagliata e che affogheremo tutti; però, manca un progetto unificante, un’idea di alternativa, un programma di massima e di minima, degli obiettivi intermedi, il tentativo di un rapporto serio con le istituzioni per “stanarle” e costringerle a ragionare socialmente.
E sui metodi di questo movimento che pensi? Come vedi, per esempio, questa sorta di ritualità dei controvertici?
Mah… Dal punto di vista organizzativo non so proprio che cosa si potrebbe fare.
Noi su alcuni temi attuavamo un intervento asfissiante, martellante per cui la gente all’inizio buttava via il volantino una volta e poi un’altra volta ancora e poi lo raccoglieva e poi lo leggeva e non era d’accordo e poi piano piano cambiava idea.
Insomma, tutto il lavoro sul territorio, incessante, martellante…(vista anche la pochezza – allora – degli strumenti informativi, inspiegabilmente snobbati).
C’è un rischio che oggi la prassi dell’attacco ai vertici di Grandi del mondo o dei Padroni del pianeta invece di creare condivisione
sociale finisca col creare distanza? Si rischia che il risultato di tutta questa mobilitazione sia proprio ciò che i gestori del dominio desiderano: fossilizzare la rassegnazione delle masse all’ineluttabilità di un sistema contestato da un movimento che alla fine si vede veramente solo in piazza caricato dalla polizia?
Credo che la gente, anche se non lo mostra, sia più cosciente di quello che dà a vedere. Ma è divisa, non sa come muoversi.
Anche l’informazione non è sufficiente: non basta sapere che il sistema genera morte per decidersi a combatterlo, soprattutto perché non sai come contrastarlo e costruire qualcosa di alternativo e migliore. Allora c’è quello che dice facciamo le barricate, l’altro che dice andiamo a rompere le scatole a quelli del G8 e così via.
Alla fine si corre il rischio che diventi un turismo del NoGlobal per andare magari giustamente a contestare ma col pericolo effettivo e incombente che questo messaggio non arrivi bene alla maggioranza della gente. Poi, c’è il rischio di ritrovarsi in una situazione di scontro per lo scontro, un vicolo cieco che la stragrande maggioranza non vuole ma nel quale viene trascinata. E i contenuti così finiscono in secondo piano, proprio come vuole il Potere che fa di tutto per enfatizzare questi aspetti della violenza di strada nella speranza che il movimento venga isolato. Sia chiaro, il Potere non demonizza le idee del movimento: tutti dicono che sono giuste, dai politici agli industriali che parlano di solidarietà; tanto sanno benissimo che oltre un certo limite il cambiamento non può andare.
Il potere, dagli anni ’70 in poi, ha saputo metabolizzare qualsiasi forma di antagonismo. È così anche per questo movimento. Si è riusciti nell’operazione di far interiorizzare che la vita è bella e piena se vissuta fra la macchina, le Mauritius, il computer e il telefonino.
Come si può immaginare che possa scattare una disobbedienza civile di massa?
Ma immagini una prassi migliore di quella che si è data questa minoranza antagonista con tutte le sue anime variopinte?
Ora il tema all’attenzione generale è il G8 inteso soprattutto come violenza, scontri, vetrine rotte eccetera. Il Potere ha la capacità sia di metabolizzare sia di spettacolarizzare, quindi attraverso i mass media riesce a far passare anche il movimento per una cosa buona in parte, in realtà la vuole combattere ma trasformandola, controllandola, anche concendendo qualche cosa. E alla fine il movimento si spaccherà fra chi riterrà buone le concessioni e chi le rifiuterà, fra chi accetterà il dialogo con il Potere e chi lavorerà per costruire una qualche forma di rivolta profonda.
Non so, insomma, se il movimento avrà la forza di individuare una strada per sottrarsi a questo destino.
Se davvero si sta mettendo il culo nelle pedate non è forse anche perché c’è dietro un vuoto di elaborazione, di riflessione sulle prassima in fondo anche sui contenuti: che cosa realmente si vuole,
fino a dove si vuole arrivare nella contestazione del sistema che genera i mali che si denunciano? Al momento si ha la sensazione di un calderone che contiene di tutto e probabilmente alcuni equivoci di fondo andrebbero
chiariti in fretta…
Una volta c’erano ideologie precise che si traducevano in strategie, atti concreti, utopie, percorsi condivisi. Oggi questi percorsi sono finiti, sono stati fagocitati…
Prendiamo il G8 di Genova e il confronto sulle zone colorate da conquistare.
Il movimento, se ha l’obiettivo di accrescere la consapevolezza sociale su una serie di questioni emergenti, dovrebbe pensare di più al
rischio di essere percepito, invece, come fenomeno marginale e di essere
frainteso profondamente?
È un pericolo che c’è sempre stato. In ogni manifestazione del passato lo sbocco era a rischio, se finiva con i tafferugli, il giorno dopo la gente parlava di quelli. La gente non sa – ad esempio – che ognuno di noi ha sulla testa otto chili di plutonio che è presente in giro per il mondo (quindi una minaccia globale potenzialmente distruttiva del genere umano) però se ti tirano un sasso alla finestra parli di questo. Il problema è trasformare questi otto chili di plutonio – si fa per dire dei grandi problemi del mondo globalizzato – in consapevolezza uguale a quella per il sasso che ti tirano sulla finestra o per il ladruncolo che ti forza la porta di casa. Prima la strada era lineare, perché c’era l’ideologia che indacava una serie di punti intermedi e finali. Ora questa strada è interrotta. Come fare ora a raggiungere una consapevolezza diffusa senza l’ausilio dell’ideologia? Questa secondo me è la grande sfida dei nostri giorni e per ora non vedo risposte.
Rispetto alla prassi della contestazione dei vertici intravedi qualche possilità alternativa?
Bisogna lavorare di fantasia. Secondo me, la vera spinta antiglobalizzatrice è nell’associazionismo e nel volontariato, quelli veri, che coinvolgono milioni di persone. Trasformare questo associazionismo solidale in consapevolezza collettiva contro le scelte del G8 e dei suoi alleati è la scommessa, però bisogna trovare il filo ancora esile che porta alla presa di coscienza di un disastro collettivo, la globalizzazione neoliberista. Il movimento dovrebbe accelerare la costruzione di una rete con questo mondo dell’associazionismo; dovrebbe sforzarsi di usare ogni forma di comunicazione per coinvolgere, per esempio in Italia, questi otto milioni di volontari silenziosi affinché diventino altrettanti volontari “sediziosi”.
[b]C’è nel movimento, o meglio in alcuni suo teorici, una tendenza a enfatizzare la forza del mondo antagonista col rischio di creare aspettative esagerate o di mandare la gente in piazza allo sbaraglio a farsi picchiare
dalla polizia?[/b]
Credo che quelli che vanno in piazza per confrontarsi “guerrescamente” siano gli ultimi mohicani della vecchia guardia anche se nei giovanissimi ideologicamente più preparati la tentazione è sempre presente. Poi altri possono trovarsi coinvolti e reagire di conseguenza. Il rischio degli intellettuali che indicano delle vie che poi altri percorrono a proprio rischio e pericolo c’è sempre stato. Uno scrive: siamo contro e poi qualcuno interpreta quel “contro” in modo più radicale e ne trae le conseguenze: questo è sempre accaduto e sempre accadrà. La ricerca dello scontro è un aspetto per ora non rilevante del movimento ma è certamente un aspetto dannoso sempre in agguato che potrebbe essere superato, se la strada sarà quella di una contestazione diffusa e non d’avanguardia.
Prendiamo Genova e il G8: se pensiamo agli effetti, alla percerzione sociale della contestazione, non è immaginabile che a questo punto a Genova sarebbe stato meglio non esserci e giocare proprio su questo punto
forte della nostra assenza come comunicazione affiancata da una presenza forte altrove?
Mah… Ci avevo pensato anch’io, che alla fine magari valeva la pena di lasciarli con un palmo di naso e trovarsi da un’altra parte per presentare il proprio manifesto di lotta, spiegando bene perché non si va a Genova e alle sue zone rosse gialle e verdi. Un manifesto, però, che dica non solo ciò che non vogliamo più ma anche come si può fare a costruire quel mondo nuovo. Non vogliamo più la mucca pazza; come si può arrivare a non avere più la mucca pazza? La gente, quando viene toccata nelle cose concrete, quotidiane, sa capire e reagire. Bisogna toccare anche il locale, ciò che ci è vicino, nel quartiere, i dati sociali, le pensioni, la salute; altrimenti diventa una cosa ideologica, sovrastrutturale che la gente fatica a cogliere. Bisogna partire dalle piccole cose, non c’è niente da fare…
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LA STORIA PERSONALE DI GIANCARLO SALMINI
“Raccontarti come nasce la mia esperienza di militanza? È troppo complesso… No, è molto semplice.
Nasce negli anni ’67-’68, quando ancora frequentavo le scuole superiori in un istituto linguistico di Stresa, sul lago Maggiore.
Eravamo un gruppo di stuenti che si occupava spesso e volentieri di politica. La cosa è maturata via via fino alla scelta dell’università: in tre della mia classe decidemmo di venire a Trento, perché avevamo sentito dai mass media che a sociologia si stavano facendo cose interessanti dal nostro punto di vista. Che era il punto di vista di giovani diciottenni e diciannovenni, nati subito dopo la guerra, che avevano maturato una sensibilità rispetto a una serie di valori. In casa mia, per esempio, arrivava l’unica copia dell’Unità del nostro paese, quello quindi era il mio giornale di riferimento. Inoltre, mi ero formato con i racconti di mio nonno e di mio padre sulla resistenza, lì vicino c’era stata la repubblica dell’Ossola e mio padre stesso collaborava con i partigiani utilizzando la sua posizione di dipendente delle ferrovie (faceva per esempio la staffetta sul treno per fungere da collegamento tra i vari gruppi partigiani; aveva anche partecipato ad alcuni piccoli atti di sabotaggio ai danni dei nazifascisti).
Questa memoria che mi fu trasmessa ha naturalmente influenzato la mia sensibilità a tutta una serie di temi, che poi andavano dal Vietnam alla lotta di liberazione dei neri d’America.
Venire a sociologia a Trento mi sembrava un po’ come uscire dalla Provincia un po’ assonnata del Novarese”.