[b]Zenone Sovilla [/b]
È davvero singolare che gli amministratori pubblici italiani non riescano a partorire nulla di più significativo delle domeniche senz’auto, davanti a uno scenario raccapricciante fatto anche di migliaia di morti (se ne stimano circa 7 mila l’anno) e decine di migliaia (se ne stimano 60-70 mila) di malati, in Italia, per cause correlate all’inquinamento urbano.
Anno dopo anno, meglio se sotto elezioni, si ripetono stancamente le solite, pressoché inutili, iniziative della domenica. In ambito ecologista in questi giorni qualcuno ha additato come guastatore chi esprimeva contrarietà alla sceneggiata di un estemporaneo blocco del traffico, attuato fra l’altro nel giorno della settimana in cui fisiologicamente è prevedibile una contrazione delle emissioni nocive (basti pensare alla sensibile riduzione del traffico pesante, un Tir inquina quanto centinaia di automobili).
Non dimentichiamo, poi, le deroghe: a Milano, per esempio, partite di calcio e sfilate di moda hanno avuto la precedenza sull’effetto “educativo”, unico residuo di senso cui si aggrappano i difensori di questa iniziativa (anti)ecologica. Era troppo complicato anche organizzare un servizio di “navette” per gli stadi. Incredibile ma vero.
Senza contare il via libera alle auto a metano, gpl e ibride, veicoli simpaticamente definiti sulla stampa “a impatto zero”.
Altro che mettere in discussione la cultura dell’automobile…
Da ciò che rimane dell’ecologismo nazionale, militante o istituzionalizzato, fossile o rinnovabile che sia, uno si aspetterebbe qualche idea un po’ più pregnante e soprattutto una contestazione puntuale di simili iniziative che rischiano più che altro di fornire un alibi a tutti.
Si è detto, per difenderle, che hanno un valore simbolico e comunicativo.
Potevano forse averlo venti o trent’anni fa; oggi di certo non producono nulla di rilevante: dopo anni di stanca ripetizione di questa ritualità vuota, gli indicatori epidemiologici mostrano un costante aggravamento del quadro clinico, con morbilità e mortalità in aumento. Per non parlare delle “abitudini” della gente.
Diversa sarebbe la faccenda se, dopo aver organizzato bene i trasporti alternativi, il blocco si introducesse in un giorno lavorativo…
Sarebbero molte le cose che si possono fare, se davvero si intendesse prendere sul serio il serissimo problema.
Basterebbe dare un’occhiata a esperienze decennali in altri Paesi per farsi venire qualche buona idea.
Scandinavia, Australia ma anche Stati Uniti e Germania presentano su scala locale (e in qualche caso anche a livello di programmazione nazionale) un vasto panorama di modelli replicabili da noi, per modificare radicalmente la struttura della mobilità urbana (e non) con il conseguente abbattimento – immediato e tendenziale – della contaminazione atmosferica dovuta al traffico motorizzato.
Sul piano infrastrutturale, innanzitutto, è ovvia l’opportunità di rovesciare le priorità d’intervento: più investimenti pubblici per i trasporti collettivi – specie su rotaia – e per i percorsi ciclopedonali protetti (l’incolumità fisica a rischio è uno dei principali deterrenti all’uso delle proprie gambe per spostarsi in città e fuori). Non faremo mai un passo decisivo, finché il ritornello dei nostri amministratori resta ingabbiato nelle rime d’asfalto più in alto (oppure se si tratta di ferrovia non ci si occupa degli spostamenti quotidiani della gente ma delle alte velocità dei lunghi viaggiatori fra Torino, Lione e Kiev…).
L’organizzazione di snodi di interscambio, specie fra la bicicletta e i treni o bus, è un altro dei “segreti” di un modello efficiente.
Per incentivare il passaggio dall’auto privata a mezzi di trasporto più sobri, molti Paesi utilizzano anche strumenti economici: sgravi fiscali per chi va a lavorare a piedi o in bici, abbonamenti gratuiti o scontati ai mezzi pubblici per chi lascia la macchina in garage, momenti di promozione/informazione e distribuzione di utili gadget ciclistici, sistemi di noleggio gratuito delle bici improntati alla massima semplicità e fruibilità, pedaggi per le vetture dentro la cintura urbana (talvolta con esenzione per chi viaggia con almento altre due-tre persone) eccetera. Inoltre, campagne a tappeto in ogni ambito pubblico (scuola, posti di lavoro, tv, radio…), strumenti creativi per gli scolari (è sbarcato anche in Italia per esempio il “pedibus”) per consentire un tragitto a piedi da casa a scuola e ritorno in totale sicurezza (ma si può fare anche in bici, anche coinvolgendo i genitori).
Per abbattere l’inquinamento (atmosferico, acustico, paesaggistico, “psicologico”…) si possono anche introdurre ostacoli al trasporto su gomma delle merci, vale a dire all’invasione di camion cui assistiamo da anni in Italia mentre gli altri Paesi avanzati favoriscono un processo inverso, per sfruttare al meglio le ferrovie (da noi la stessa rete esistente è largamente sottoutilizzata) e ridurre il traffico pesante.
Al contrario, la settimana scorsa la commissione esteri della Camera dei deputati ha deciso di stralciare il Protocollo trasporti della Convenzione delle Alpi, che conteneva una serie di impegni per l’Italia, sia sul fronte della limitazione di nuove infrastrutture autostradali fra i monti sia del trasferimento delle merci su mezzi alternativi alla gomma, specialmente su rotaia.
Insomma, l’Italia nemmeno sull’arco alpino, dove volano le aquile e tornano i lupi, intende ridurre il traffico a motore e l’inquinamento, anzi.
Naturalmente gli autotrasportatori hanno espresso grande soddisfazione dopo la decisione parlamentare.