[b]Zenone Sovilla [/b]
[dal libro “L’ecologia come giustizia e libertà. Scienza e pace nell’era della crisi globale”, Roma, 2009)
Vivere distrattamente a trenta centimetri dal disastro. Si potrebbe intitolare così il film della vita quotidiana di buona parte di noi, cittadini dell’Occidente ipermotorizzato.
L’assuefazione a un panorama da brivido è tale che le nostre società – cloroformizzate da mass media che veicolano pubblicità ingannevole più che informazione critica – ormai trovano normale vivere seduti sopra quattro ruote, dentro città e paesi trasformati in camere a gas, lungo strisce di asfalto sulle quali l’esistenza degli essere umani scorre pericolosamente (a piedi, in bici, in motorino, in auto) a poche decine di centimetri da vetture sempre più minacciose (i simpatici Suv, l’ultima moda delle inquinanti «fuoristrada da città») e da mezzi (bus e autocarri) che pesano venti, trenta o più tonnellate. Il quadro ci offre una raccapricciante metafora bellica. La strada diventa una battaglia di tutti contro tutti, dove vincono i più forti, che spesso sono anche i più ricchi, che possono permettersi i veicoli più «protettivi», i quartieri meno inquinati, le spese difensive per rispondere a un ambiente degradato e aggressivo.
L’aspetto diseducativo del modello di mobilità impe-rante, specie in Paesi come l’Italia, vittime di veri assalti al territorio, è una delle linee di criticità socialmente meno indagate. Eppure non dovrebbe sfuggire quanto questo muoversi contribuisca alla costruzione di un immaginario identitario fondato sull’enfasi della sfera individuale ai danni della dimensione comunitaria. È un riflesso condizionato piuttosto diffuso la percezione degli altri fruitori delle strade come dei nemici o quantomeno dei concorrenti.
Ciò dovrebbe indurre a un supplemento di riflessione nell’analisi urbanistica e trasportistica: l’allarme non è dato solo dalla pur inquietante emergenza sanitaria (patologie manifestamente correlate con la contaminazione atmosferi-ca o con la sedentarietà della popolazione), dagli incidenti e dai disagi psicosociali derivanti dai massacri paesaggistici perpetrati nel nome dei motori. No, l’allarme dovrebbe inve-stire anche la dimensione culturale, la mutazione antropo-logica profonda indotta dal perverso circuito che va dal desi-derio di libertà incarnato dall’automobile al modello diffuso della cementificazione del territorio e della comunità nevro-tica che ne è insieme causa, effetto e vittima.
Se vogliamo usare una dicotomia adottando estensiva-mente le categorie della guerra e della pace, appare difficil-mente confutabile che la seconda viene mortificata in un paradigma di mobilità in cui prevale largamente la moto-rizzazione privata, sia nel trasporto delle merci sia in quello delle persone. Ne esce mortificato il rispetto dell’Altro e con esso ogni moto di mutualismo; idem nei riguardi dell’am-biente naturale, subordinato ai bisogni viabilistici o tutt’al più sfondo ideale per spot tv sul fascino motoristico.
La civiltà dei motori alimenta l’illusione (solo per pochi ricchi e privilegiati è realtà) che tutto si possa risolvere su base individuale assicurandosi motu proprio la disponibilità di strumenti sufficientemente potenti e sicuri (anche qui compare un’assonanza bellica): la vita è una sfida e chi si attrezza (in genere perché è nato con la camicia) la può vincere o almeno evitare di finirne travolto.
In questo modo ognuno rema soprattutto per sé e accresce enormemente il rischio che i destini dell’umanità si rivelino presto irreversibilmente infausti sulla cupa scia della dilagante crisi ecologica e delle regressioni belliche a essa spesso connesse (si pensi alle guerre per il petrolio o per l’acqua). L’individuo si illude di risolvere la propria condi-zione ma in verità – salvo poche eccezioni – accelera incon-sapevolmente il degrado suo e altrui.
La sensazione è che si perda facilmente di vista il pro-posito comune di evitare che la specie umana sparisca dal pianeta Terra trascinando con sé buona parte degli altri esse-ri viventi. Nell’ubriacatura postmoderna, fra inni al mercato senza regole né democrazia sostanziale e crisi di produzione politica, sfugge via via l’assunto che ogni essere umano ha pari dignità. E dunque si va indebolendo nell’immaginario e nell’agire comune il proposito di sforzarci tutti insieme per limitare, ad esempio, la sofferenza diffusa.
Per quanto il concetto di sofferenza possa ritenersi ab-bastanza relativo esistono alcuni aspetti correlati con lo stato di salute psicofisica che si possono considerare meno con-troversi. Come l’ammalarsi o morire prematuramente, anche per cause prodotte da altri esseri umani che dunque mettono in atto comportamenti incompatibili con l’assunto della pari dignità e della riduzione della sofferenza. Ma sono indicatori di questo malessere anche la precarietà psicologica, l’insod-disfazione, la frenesia, l’infelicità e l’eterna ricerca, tramite bisogni effimeri, di una quiete che non arriverà mai.
È sofferenza anche quella dell’ambiente naturale, la cui distruzione causata dagli esseri umani mette a rischio le condizioni stesse che garantiscono la vita nel mondo così come (più o meno) la conosciamo oggi (qualche scienziato negazionista invece dà la colpa ai marziani ma ormai non ha più ascolto nemmeno alla Casa Bianca).
Un’architettura industriale obsoleta e una precisa geo-politica del potere (locale e globale) iperconservatrice sono l’ossatura del sistema automobilistico la cui resistenza al cambiamento è drammaticamente testimoniata anche dalle vicende degli anni e dei mesi recenti. Come giudicare, per esempio, un apparato industriale che di fronte alla crisi eco-logica punta su vetture sempre più grandi ed energivore come i Suv? E come valutare l’inerzia pressoché generalizzata sul fronte dei motori e dei combustibili alternativi al petrolio, al punto che ancora nell’autunno del 2008 – in piena reces-sione – si pretendono aiuti economici dagli Stati al settore dell’auto senza prima assicurare uno straccio di piano di conversione verso prodotti a minore impatto ambientale, dopo decenni passati a trastullarsi senza mettere in discus-sione il redditizio modello petrolifero?
Probabilmente i piazzisti delle quattroruote ritengono che basti ambientare gli spot pubblicitari tra i ghiacci incon-taminati dell’Alaska o nell’arsura del Sahara – dove sfreccia-no solitarie e silenziose fuoristrada e cabriolet – per assicu-rarsi l’etichetta ecologica. Consoliamoci augurandoci che nuovi governanti, quali il neoletto presidente Usa Barack Obama, intendano almeno subordinare a condizioni strin-genti i sostegni strutturali a un’industria che dovrà giocare un ruolo fondamentale nel salto di paradigma energetico cui è chiamato il pianeta. Una trasformazione che è richiesta, certo, dal rischio ambientale; ma che rappresenta anche uno degli snodi del futuro della convivenza sulla Terra: solo se chi oggi consuma troppo sarà in grado di ridurre il suo peso specifico, gli altri potranno migliorare le proprie condizioni di vita senza che ciò implichi un vortice di conflittualità dagli esisti incerti (purtroppo conosciamo bene la guerra del pe-trolio, possiamo evitare di fare altre tragiche esperienze per contenderci o depredare risorse esauribili).
L’urgenza di una profonda riforma di sistema è ormai sperimentata quotidianamente dalla gran parte dei cittadini. Tuttavia i propositi di pari dignità umana nel rispetto della natura sono disattesi non tanto nel linguaggio – delle istitu-zioni, dei mass media, di buona parte della cultura – quanto nella realtà empiricamente verificabile. A quanto pare il ma-novratore, vale a dire i gruppi sociali che traggono vantaggio da questa deriva distruttiva, non intendono rinunciare al loro spietato tentativo deterministico di indurre e accelerare una vera e propria mutazione antropologica che dovrebbe pla-smare l’essere umano secondo le presunte leggi del mercato deregolamentato, in una lotta perpetua di tutti contro tutti (la chiamano meritocrazia fingendo di non sapere che è solo un grande imbroglio, in assenza di pari condizioni di accesso per tutte le persone, di condivisione dei parametri e degli strumenti valutativi, di partecipazione democratica alla defi-nizione e alla gestione del «bene comune»).
Accade, dunque, che la cosiddetta politica, la scuola, l’università, la stampa e altre istituzioni e organizzazioni veicolano come valori indiscutibili la competitività, la con-correnza, la creazione di profitto economico purchessia. A tal punto da confondere, a volte completamente, i confini tra il mondo della psiche umana e quello della Borsa valori.
Il dogma neoliberista ha conquistato il potere. Non è un fenomeno del tutto nuovo: è ricorrente nella storia una mi-noranza in posizione di dominio che cerca di perpetuarsi e consolidarsi nelle società umane; solo che i suoi meccanismi si sono fatti via via più subdoli e riescono con maggiore disinvoltura a trasformare le vittime in complici volenterosi, in adepti convinti, per stipulare una sorta di polizza di assi-curazione sulla conservazione dell’ingiustizia spacciandola per il suo ineluttabile contrario. Un sistema di dominio che si ramifica nei principali centri di concentrazione del potere.
La trasformazione dell’essere umano in una macchina di produzione e di consumo che ragiona e si comporta se-condo le leggi del mercato è giunta a uno stadio avanzato, si compie il disegno della minoranza dominante che tende a arricchirsi sempre più a spese di una maggioranza da persua-dere che le cose in fondo vanno (quasi) nel migliore dei modi. Manca solo qualche privatizzazione in più, un’iniezio-ne di flessibilità sul lavoro, alcuni nuovi investimenti in spese militari e in grandi cementificazioni, un po’ di tasse in meno per i più ricchi che ci garantiscono produttività e Pil.
Ci si basa su una serie di manovre favorite dal contesto storico con il fallimento di esperienze di organizzazione poli-tica, sociale ed economica alternative; e con l’abbandono di nuove elaborazioni oltre il paradigma del mercato e del suo mito post-umano di libertà unidimensionale. Da un lato si consolida il credo neoliberista alimentandone il «bisogno» collettivo; dall’altro si opera la grande distrazione delle mas-se, che devono essere affaccendate nella corsa al denaro da guadagnare e da spendere, in una lotta di tutti contro tutti; non bisogna certo perdere tempo a ragionare e interrogarsi su modalità diverse di convivenza possibili.
Una caratteristica di tutto ciò è lo svuotamento di senso di gran parte delle cose che vediamo e spesso anche di quelle che facciamo. La produzione di senso è uno dei problemi di questa epoca. Il senso è asservito al dogma neoliberista e alla sua necessità di distrarre. La tv è un caso macroscopico di questa deriva dell’istupidimento e dell’abbrutimento dell’in-dividuo e delle comunità; ma non è l’unico. Lo sono il lavoro, lo studio e più in generale le boccheggianti relazioni sociali. Siamo sempre più chiusi dentro noi stessi a fare i conti col denaro e con i conflitti che ci dilaniano fin nel profondo: la mia anima ecologica si scontra con la parte di me «costretta» a usare l’auto (magari vecchia e diesel perché non ho soldi per cambiarla) invece della bicicletta e così via fino allo storico e irrisolto conflitto rossoverde tra lavoro e salute che ha visto tradizionalmente le centrali sindacali difendere acri-ticamente la fabbrica (poi ci hanno pensato le delocalizzazio-ni e le crisi industriali nel modo più brutale e tragico: ai lavoratori mancherà il pane ma in cambio invece della libertà avranno probabilmente la malattia).
Ma la mistificazione funziona fino a un certo punto. Con il linguaggio si può mascherare la realtà, però quando gli effetti dello stato di cose concreto ti entrano in casa, il filtro sparisce. Si può predicare nelle aule universitarie la flessibi-lità del lavoro altrui (godendosi un lauto stipendio accade-mico, chissà come se la riderebbe il vecchio Veblen sulle classi agiate del 2000); ma quando la precarietà o la perdita del salario ti tocca direttamente il tuo credo neoliberista può svanire d’un tratto. Puoi aver ascoltato per un decennio il tronfio sentenziare a ogni piè sospinto di competitività e libero mercato, ma quando le imprese evaporano lasciando i lavoratori a casa, capisci al volo chi ha il coltello dalla parte del manico; oggi come ieri, siamo alle solite lotte.
La grande distrazione e la produzione di non-senso invadono anche la sfera della relazione con il nostro corpo e con la natura. Il modello non prevede che si usi gran che la nostra dotazione muscolare, se non per muoverci nei centri commerciali e, a pagamento, in palestra. Tende a sottrarci l’opportunità di esplorare un bosco o di svolgere attività di utilità domestica come raccogliere un po’ di legna o coltivare l’orto; perché abbiamo urgenze più importanti, come andare a fare la spesa in auto la domenica perché gli altri giorni non c’è tempo (il totem del lavoro, in caso contrario non avrem-mo invece i soldi per lo shopping) guardare la televisione (dove spesso si parla di mercati oppure c’è un personaggio con la barbetta e il bastone, un mezzo Balanzone che tesse le lodi del liberismo reale).
In questo quadro, non appaiono per nulla casuali le modalità cui tendenzialmente ci è consentito di spostarci. Per scarsità di tempo o di politiche pubbliche della mobilità, siamo generalmente obbligati a non utilizzare il nostro corpo per muoverci. E per lo più saremo indotti a utilizzare l’auto-mobile: tutto è costruito pensando a quei vecchi e puzzolenti strumenti ottocenteschi.
L’appropriazione degli spazi pubblici e privati è assoluta (parcheggi dappertutto, tutti li vogliono, tutti li chiedono; con i posti auto coperti e scoperti si possono vincere le elezioni comunali); i piani urbanistici e la dislocazione dei posti di lavoro, dei centri servizi e del commercio spesso danno per scontato l’utilizzo del mezzo privato a motore; gli orari di lavoro (altro non tema della nostra epoca) tendono a complicare la vita al non automobilista; l’alternativa del tra-sporto collettivo o delle piste ciclabili (che favorendo l’attivi-tà fisica sono anche presidi di prevenzione sanitaria) general-mente è debole o assente.
E qui va riposta l’attenzione su un altro effetto collate-rale. Gli indirizzi urbanistici e sulla mobilità riguardano la salute dei cittadini (malattie e morti da inquinamento), la riduzione del rischio di incidenti stradali, la tutela dell’am-biente naturale; ma si tratta anche di forme indirette di poli-tica dei redditi, dato che orientano i consumi verso l’automo-bile: in luoghi in cui è negata ogni alternativa concreta, la vettura privata diventa per i più una scelta obbligata. Così ogni nucleo famigliare si vede spesso costretto a moltiplicare le macchine per consentire a tutti i membri di raggiungere la città o punti di essa in tempi accettabili, per ragioni legate al lavoro, allo studio o al tempo libero (anche per andare in palestra a correre su un tapis-roulant). Diventa «normale», dunque, spendere decine di migliaia di euro nell’acquisto e nella gestione dell’automobile sulla quale si resta quasi rego-larmente in coda per poi guidarla sotto stress e con sprezzo delle regole di civiltà prima ancora del codice della strada.
Alla spesa diretta per possedere l’auto si aggiungono, poi, le rimarchevoli quote di imposte versate dai contribuenti necessarie (ma non sufficienti) per affrontare i costi sociali del trasporto a motore (quali malattie, infortuni, invalidità, decessi, danni ambientali, infrastrutture). Eppure appare normale che non ci si formalizzi gran che, in Italia, non tanto sui morti per incidenti sulle strade, ma sulla mortalità indi-retta, sulle migliaia di vite che si spengono ogni anno a causa dell’inquinamento da traffico; per non parlare degli stili di vita indotti, delle morti che si eviterebbero se alla sedenta-rietà si sostituisse l’uso della bici in condizioni di sicurezza; ma anche della maggiore socialità di una comunità che si dà il tempo di muoversi più lentamente e a contatto con la terra, con l’aria e con gli altri esseri umani.
Ci si scontra, a guardar bene, con il sistema della demo-crazia rappresentativa, con l’organizzazione e i rapporti di lavoro, con la distribuzione della ricchezza. Su questo sfondo si consuma anche la lotta per la velocità, che è a sua volta una lotta di potere. Se alla nascita ognuno di noi ha teorica-mente la medesima disposizione di potere, l’accumulo da parte di alcuni implica una sottrazione per altri. Alla stessa stregua la velocità dell’umanità: si può dire che se qualcuno vuole andare più in fretta qualcun altro dovrà andare più piano oppure (se preferite) soccombere nelle nubi tossiche.
In questo quadro è quasi normale che muoversi sere-namente in bicicletta sia pressoché impossibile e che il ten-tativo di farlo diventi un’azione politica che per forza mette in discussione almeno alcuni aspetti del paradigma politico ed economico. Lo fa concettualmente, innanzitutto per le ra-gioni legate alla questione del potere pro capite e della sua accumulazione in cerchie dominanti a scapito della genera-lità delle persone; ma lo fa anche concretamente, mettendo in discussione l’occupazione, la proprietà e la destinazione degli spazi sul territorio così come i tempi e i modi del lavoro e della sua retribuzione. In altre parole, obbliga a interrogarsi sulla rimodulazione o rifondazione della democrazia, sia politica sia economica.
Per questo si tratta di una dimensione tralasciata dalla rete del dominio neoliberista. E allora non appare casuale che in Europa sono le società di tradizione socialdemocra-tica, come quelle scandinave, a presentare alcune delle espe-rienze più significative in materia di «democrazia della mobi-lità», con l’impiego di risorse ingenti anche per assicurare reti viarie ciclabili e sistemi di trasporto collettivo efficienti e sicuri liberando le menti e il tempo dei cittadini più di quanto accade sulle strade italiane, teatro di battaglia quoti-diane a colpi di gas di scarico.
Anche una serie di esperienze in altri Paesi, come la parigina Velib che ha costellato la città di bici da prendere in prestito, indicano un risveglio di consapevolezza.
In Italia, al contrario, a parte interessanti ma sporadici segnali su scala locale, continua a latitare un serio discorso pubblico articolato su tutto il territorio per gettare le basi di una rivoluzione della mobilità. Non si tratta solo di una sen-sazione davanti alle nostre città sempre più inospitali e in preda al traffico. Si tratta di una fotografia suffragata dai dati empirici contenuti nel rapporto «Ecosistema urbano 2008» diffuso da Legambiente. Senza soffermarsi sui dati dell’inqui-namento (che restano allarmanti), diamo un’occhiata agli in-dicatori sulla mobilità e scopriamo, per esempio, che nei grandi centri urbani il tasso di motorizzazione è aumentato rispetto all’anno precedente: da 61 a 62 automobili ogni cen-to abitanti, con picchi di 70 in città come Roma o Viterbo.
Allo stesso tempo non migliorano (salvo rare eccezioni) i trasporti pubblici; anzi, nei centri medio-piccoli si arretra. Anche le zone a traffico limitato arrancano, segnando un in-cremento impercettibile (mediamente le aree pedonali pas-sano da 0,33 metri quadrati per abitante allo 0,31 del 2007). Infine, le noti dolentissime delle piste ciclabili: i chilo-metri totali scendono nel 2008 da 1700 a 1450; in calo anche i percorsi promiscui per pedoni e ciclisti (soluzione peraltro non ottimale), che passano da 800 a 670.
In altre parole, l’istantanea ci mostra, anche qui, un Pae-se decadente e immobile, incapace di costruire un futuro di sostenibilità e di benessere diffuso. Come se non sapesse che la moderazione e i ripensamenti necessari alla nostra epoca, in bilico sul baratro dell’ecocidio, hanno nella mobilità cicli-stica e nel suo corollario urbanistico e trasportistico un vero alleato che sarebbe criminale non valorizzare fino in fondo.
D’altra parte sarebbe ingenuo stupirsi di questo tenden-ziale arretramento, del ritardo permanente sul binario della civiltà, della incapacità italiana di cogliere il nucleo della crisi contemporanea e di elaborare risposte forti e in grado di risvegliare la partecipazione popolare (come non pensare, per esempio, alla suggestione di una nuova sobrietà effi-ciente e intelligente, generatrice di benessere?). Sarebbe in-genuo stupirsi, in un Paese che – al contrario – si fa gover-nare, in politica e in economia, da chi, per esempio, di fronte all’attuale scenario di emergenza per l’intero ecosistema ri-duce gli incentivi alle energie rinnovabili, sovvenziona l’ince-nerimento dei rifiuti spacciando incredibilmente una com-bustione inquinante per una fonte sostenibile di elettricità e adesso vuole pure il ritorno all’incubo nucleare. A dispetto del referendum svoltosi in Italia nel 1987 (un anno dopo il disastro di Chernobyl), Berlusconi annuncia la costruzione di centrali (fra l’altro come se fossero appartamenti di Milano 3 e non impianti che richiedono decenni tra la decisione politica e l’operatività) e l’Enel, che con l’energia atomica fa già lauti affari all’estero, si dice prontamente attrezzata per l’avventura. La reazione sociale è incredibilmente timida, come se tutti avessero rimosso Sindrome cinese ma anche le teste senza capelli dei poveri bimbi malati di Chernobyl. Quanto all’opposizione in Parlamento, secondo traduzioni ritenute attendibili, ha balbettato che, sì, si può fare, basta però parlarne tutti assieme.
In un Paese così è veramente troppo pretendere di poter andare in bicicletta.
[b]Zenone Sovilla[/b]