[ Riceviamo e volentieri pubblichiamo una lettera che il sociologo Alessandro Mongili ha scritto sull’Università di Cagliari, ma che riguarda gran parte degli atenei italiani ]
Cari colleghi, in queste settimane molti di noi hanno reagito in modo fortemente critico alle misure governative riguardanti l’università. E questo è comprensibile. Ridurre la dotazione ordinaria degli atenei e prevedere che soltanto una piccola parte di quanti vanno in pensione venga rimpiazzata, prefigura il drastico ridimensionamento dell’intero sistema. Peggio, un ridimensionamento indiscriminato.
A farne le spese saranno infatti le facoltà migliori e le peggiori, i dipartimenti prestigiosi e quelli superflui, i corsi di laurea più futili e i più accorsati. Non avendo il coraggio di fare scelte e non sapendo proporre politiche organiche, il governo ? spinto dai problemi di bilancio ? si limita a tagliare alla cieca. In un simile e allarmante scenario, agli accademici si aprono due strade. Possiamo scegliere la lotta dura e pura, strizzando l’occhio al movimento degli studenti, politicizzando la vertenza in senso antigovernativo, confluendo impropriamente nelle agitazioni della scuola. Una tentazione forte, perché richiama steccati ideologici e nostalgie esistenziali. The way we were, per dirla con Barbra Streisand.
Ma naturalmente ci metteremmo – e con noi porteremmo i nostri studenti – in un vicolo cieco. Perché, nel migliore dei casi, da una trattativa con il governo potremmo spuntare una riduzione della pena. Ovvero tagli egualmente indiscriminati ma meno pesanti. E tuttavia perderemmo l’occasione che questa congiuntura ci offre su un piatto d’argento: ridiscutere il sistema universitario e proporne una riforma incisiva. È questa la seconda strada che oggi abbiamo davanti. Una strada certo più difficile – perché parte dal terreno sgradevole dell’autocritica – ma più lungimirante e intellettualmente più onesta. Gli accademici hanno lamentato innumerevoli volte, in passato, gli strafalcioni delle varie riforme universitarie.
Molto meno hanno avuto il coraggio di riconoscere che, ben più della classe politica, sono stati loro stessi a gestire gli atenei con incredibile leggerezza. Eppure le prove non mancano. Abbiamo usato l’università e le sue risorse per carriere professionistiche, impudichi nepotismi, clientele territoriali o soltanto per il narcisismo del potere. Siamo stati i commissari di concorsi più o meno indecorosi, moltiplicando le cattedre senza alcun costrutto e tartufescamente adeguandoci al provincialismo del reclutamento.
Ci siamo iscritti a cordate accademiche locali o nazionali, per trarne vantaggi concreti o semplicemente perché era divertente. Abbiamo usato una condiscendenza opportunistica di fronte a qualsivoglia «movimento universitario», privilegiando il quieto vivere agli interessi reali degli studenti. Abbiamo rinunciato a chiedere efficienza amministrativa ai nostri impiegati, perché notoriamente una mano lava l’altra. E siamo stati come un sol uomo, quando si trattava di moltiplicare atenei, facoltà, dottorati. Sicché oggi nel Sud si contano trenta sedi universitarie. Ma perché fustigarsi, dirà qualcuno? Perché, data la gravità della situazione, oggi l’accademia ha il dovere etico e politico di smetterla con la demagogia, spiegando a studenti e famiglie come stanno le cose. Ciò che dal 1968 non è mai accaduto. E soprattutto perché non c’è riforma senza una preventiva analisi della realtà.
Soltanto se si riconosce che l’università è pletorica, inefficiente, non competitiva, diventa possibile trasformare anche i draconiani provvedimenti governativi in un’occasione di crescita. E la crescita, in un contesto mondiale molto competitivo, significa anzitutto sfoltire, ridimensionare, chiudere quelle parti del sistema universitario che ciascuno di noi, in cuor suo, sa essere di nessuna utilità e di nessun credito scientifico. E che annegano nella palude anche i prezzi pregiati o semplicemente i settori decorosi, che pure ci sono eccome. Insomma, ove mai fossimo capaci di abbandonare antichi vizi ideologici e sindacali, potremmo agevolmente ammettere che il problema – il tema di un’eventuale contrattazione con il governo – è cosa e non quanto tagliare.
Naturalmente, per decidere cosa tagliare, l’unico strumento disponibile è la valutazione efficiente e imparziale di atenei, facoltà, professori. Simili procedure esistono in tutto il mondo e funzionano. Questo dovremmo chiedere noi accademici: che si approfittasse delle attuali politiche di rigore finanziario per operare tagli mirati e non ciechi, costruire un moderno sistema di valutazione delle sedi e degli individui, ridimensionare le aree pletoriche o marginali, istituire incentivi e premia-lità, puntare risorse adeguate sulle aree didattiche e scientifiche riconosciute come eccellenti. Dovremmo insomma aprire una stagione di politica universitaria costruita, e contrario, sulla consapevolezza dei molti errori commessi negli ultimi decenni.
Un niet corporativo-sindacale ai provvedimenti del governo, quale che fosse la nostra capacità contrattuale, permetterebbe comunque alla mannaia del ministro Tremonti di abbattersi sul corpo universitario in modo indiscriminato, senza discernere il grano dal loglio, mantenendo in vita la serra dei mediocri, tarpando le ali ai migliori. E agli studenti continuerebbero a propinarsi titoli di laurea di scarsa qualità, dunque poco utilizzabili nel mondo del lavoro. Il che, dopo tutto, è il cuore del problema. E dunque anche questo fondamentale significato avrebbe una nostra sia pur tardiva resipiscenza: fare, per una volta, gli interessi degli utenti.
Alessandro Mongili