La tv araba Al Jazira ha appena dato notizia della liberazione di Giuliana Sgrena, la giornalista del Manifesto rapita un mese fa.
In questo momento di grande gioia e sollievo, pubblichiamo dal sito del Manifesto [www.ilmanifesto.it] una lettera che i colleghi di Giuliana hanno scritto nei giorni del drammatico rapimento. Cara Giuliana, scusa se ti scriviamo una lettera che non potrai leggere subito ma solo tra un po’, quando – come ogni mattina – ci telefonerai per dirci quale pezzo d’Iraq raccontare ai nostri lettori, come stavi per fare ieri. Scusa se ti mettiamo in prima pagina, ma oggi la notizia sei tu e il nostro mestiere – nel suo lato migliore – è proprio questo, parlare di ciò che succede, raccontando le linee d’ombra, ciò che magari non appare, ciò che non è «ufficiale», ciò che accade alle persone in carne e ossa. Dovrebbe essere un mestiere di confine e proprio per questo «uno dei pochi che valga la pena fare», diceva uno scrittore messicano; a volte è ridotto a piccola cosa, ma dipende da noi renderlo vero. Per questo tu ora sei lì, in Iraq, dove sei stata già tante volte, un paese che ami – non in senso astratto – ma perché ami la sua gente martoriata da troppi anni di guerre, dittatura, embarghi, terrorismo. Per questo hai voluto correre il rischio che sempre c’è a non restarsene in albergo, limitandosi a rilanciare i dispacci ufficiali, scendendo invece in strada a cercare la verità, le sue difficili ambiguità. Stiamo «dalla parte del torto», è vero ed è un bene. Cara Giuliana, a ogni vigilia di un tuo viaggio – come alla vigilia dei viaggi che ognuno di noi stava per fare in «zone difficili» – ci incontravamo non solo per stilare il programma di lavoro, ma anche per chiederci il senso di quella «missione», per dirci se ne valesse la pena. Ma la risposta è sempre stata – e sarà – la stessa: «Vale la pena, serve a noi per capire e far capire, serve alla nostra parte, gente che per non essere prigioniera di questo mondo deve essere in questo mondo». E poi è anche bello, accidenti se è bello, poter guardare e descrivere la vita in libertà, che è la storia di questo giornale, pagata con un’esistenza un po’ precaria o, peggio, rischiando brutti incontri. E’ un privilegio che ci teniamo stretti, perché rinunciarci sarebbe magari comodo ma terribilmente triste, una violenza contro noi stessi.
Cara Giuliana, ora tu sei tra persone sconosciute e che si pensano ostili. Non vale neanche la pena dirti che è come se fossimo lì con te e, con noi, tante altre persone, che ti conoscono o ti leggono, che ieri hanno chiamato o sono venuti a trovarci. Quasi non serve ricordartelo, tu lo sai già. Come saprai dire anche a chi ti ha sequestrata l’insensatezza di quel gesto, lo stesso modo con cui hai saputo spiegare a noi e a tutti la follia della guerra, di una «democrazia» imposta con le armi, del terrorismo. Proprio con le medesime parole che hai usato in questi anni sul giornale. In questo momento, anche se siamo preoccupati – insieme ai tuoi cari e ai tuoi amici – noi non lanciamo appelli, non facciamo abiure, non pietiamo nulla a nessuno. Vorremmo solo che la grande solidarietà che in queste ore è stata pronunciata nei tuoi confronti si traducesse in qualcosa di concreto. Chi ha scatenato la follia che è ricaduta su di te ha il dovere di muoversi per farti tornare libera al più presto. Chi ti ha sequestrata deve ascoltarti e convincersi che non sei nemica di nessuno.
Cara Giuliana, qualcuno sta già dicendo che il tuo sequestro è una nemesi, che a essere colpiti siamo noi – pacifisti, giornalisti di sinistra – e ci chiedono un pentimento. Siamo sicuri che tu non ti stai pentendo di una sola virgola di quello che hai scritto e non saremo certo noi a tradirti. Preferiamo condividere con te – per quanto possiamo, da qui – la paura di questo momento e di farlo insieme. E’ la sola «arma» che abbiamo e che vorremmo esistesse nel mondo. E’ il tuo e il nostro modo d’essere.
Cara Giuliana, oggi ci ritroveremo in una piazza romana per vincere assieme la paura, nello stesso modo in cui siamo scesi per strada cercando di fermare la guerra o per dire che la barbarie che l’ha accompagnata e seguita non ci appartiene. Sarà come se tu fossi con noi, esattamente come – anche se fisicamente non è proprio così – noi siamo lì con te. Aspettiamo tue notizie. Per ora, un forte abbraccio da tutti noi e a presto.