Nel numero 689 del settimanale Internazionale, in edicola a fine aprile, l’economista Tito Boeri, nella sua rubrica “Il numero”, si duole della scarsa fiducia dei francesi nella “economia di mercato”. L’ordinario di economia della nota università Bocconi menziona un sondaggio dal quale emerge che solo il 36% dei francesi considera il liberismo “il miglior sistema possibile”, contro il 66% dei britannici e il 71% dei nordamericani Usa. Davvero un cruccio per il professore. Tanto, che cerca di darcene sbrigativamente una ragione: “L’ostilità che i cittadini francesi mostrano verso il mercato, la concorrenza e la finanza dipende dalla crisi del sistema pensionistico francese, che crea una grande incertezza nelle generazioni più giovani”.
Un verdetto che farebbe impallidire il più incallito riduzionista.
Al quale il professore aggiunge una sottolineatura sulla ritrosia dei lavoratori transalpini a investire in Borsa: preferiscono opzioni a “basso rischio”, a cominciare dalla casa. Male, molto male.
Il prossimo governo parigini, sentenzia Boeri, “dovrà occuparsi di questi problemi” per salvare il Paese dal “declino economico” (?).
Insomma, secondo il professore, i francesi non diffidano di un sistema (il neoliberismo) che sta ampiamente mettendo a nudo i suoi fallimenti in termini di sofferenza umana (precarietà, condizioni di lavoro, disoccupazione) e di costi sociali (malattia, morte, danni ambientali) che le imprese, di cui il professore auspica la “libera iniziativa”, trasferiscono sistematicamente sulla collettività e specialmente sui suoi settori più deboli. I francesi non hanno rifiutato la Costituzione Ue, anche o soprattutto perché l’Unione europea si va rapidamente connotando come il sommo custode del credo neoliberista con l’obiettivo di precludere ogni spazio di fuga e di creatività ai territori? Evidentemente, no.
A proposito: non osiamo immaginare il pensiero di Boeri sul Venezuela di Hugo Chavez che decide di abbandonare Banca mondiale e Fondo monetario internazionale dei quali il professore è stato consulente…
Ma torniamo alle pensioni. Con il suo richiamo finanziario Boeri sembra rifiutare il principio che la pensione sia un diritto del cittadino lavoratore conquistato negli anni, a prescindere. Siamo nel “sistema contributivo” spinto, la pensione te la devi sudare a suon di investimenti “rischiosi” (e incrociare le dita e fare straordinari per versare di più al “fondo” in Borsa, meglio anche qualche turno di lavoro festivo per arrotondare). E se questa prospettiva non ti garba, male, molto male.
Ormai non c’è più niente da discutere, finalmente ci siamo liberati del pericoloso fardello chiamato “sistema retributivo”, vale a dire del diritto alla pensione per tutti, anche per chi inizia a lavorare a 35 anni o è costretto a lunghi periodi di inattività dal tanto celebrato sistema del “lavoro flessibile” che dovrebbe rispondere alle esigenze produttive delle imprese (le quali, in realtà, lo utilizzano prevalentemente come strumento per tagliare costi sulla pelle dei lavoratori).
Ma tant’è, evidentemente a Tito Boeri, che tuttavia si sforza di proporre un riformismo sociale che non dimentichi il welfare e le tutele dei lavoratori, premeva porre l’accento ancora una volta sulla vicenda previdenziale e sulla necessità dei vari “pilastri” più o meno privatizzati per garantire un futuro pensionistico ai giovani d’oggi.
Altri suoi colleghi – così come numerosi giornalisti e politici – si preoccupano di questa e altre prospettive della privatizzazione mercantile e della monetizzazione diffusa dell’esistenza e della convivenza con minore attenzione agli strumenti che dovrebbero mitigare la sofferenza di chi la fabbrica, il cantiere o la cassa del supermarket non la deve temere come luogo di alienazione ma desiderare piuttosto della disoccupazione.
È un interessante fenomeno italiano, quello della eletta schiera di opinion maker che predicano sotto varie forme (e sempre da pulpiti di primissimo piano) la infallibilità del dogma neoclassico (nelle sue diverse declinazioni liberiste: massima concorrenza, instabilità del lavoro, competitività, privatizzazioni, liberalizzazioni eccetera), magari aggiungendoci una spruzzatina di stato sociale, giusto per restituire alle imprese di mercato un po’ di denaro pubblico sotto forma di ammortizzatori che, se da un lato dovrebbero alleviare la sofferenza del cittadino flessibile/precario, dall’altro consentono alle aziende condotte assai aggressive al proprio interno (sui lavoratori) e verso l’esterno (sui consumatori).
Gli opinionisti più o meno aderenti al gradiente del “pensiero unico” ci consegnano quotidianamente, in quantità ragguardevoli e ovviamente senza contraddittorio, le loro osservazioni, in genere repliche di repliche del noto copione liberista o dintorni, qua e là con qualche aggiustatina “social”, sorvolando spensieratamente sui fallimenti che la realtà mette davanti agli occhi di tutti. Tuttavia, si fatica a portare a compimento l’impresa di rendere desiderabile la precarietà umana, la lotta di tutti contro tutti, a vantaggio del “sistema economico” (cioè dei profitti delle aziende che, a sentire la favoletta dei nostri concordi studiosi, dovrebbero garantire il benessere generale).
Forse, ma facciamo soltanto un’ipotesi, una delle ragioni della resistenza residua che il corpo sociale oppone al dispiegarsi della spietata precarietà neoliberista deriva non solo dalla constazione empirica sulla propria pelle, ma anche dall’inconsapevole scetticismo che si ha di fronte a un predicatore che decanta la flessibilità e il “rischio” facendolo, però, da una cattedra o da una scrivania giornalistica o politica ben pagata e a stipendio stabile, contornata da innumerevoli e prestigiose (quanto danarose) collaborazioni e consulenze di ogni genere.
Sorge, dunque, un dubbio: per essere più credibili i vari rètori del mercato, prima di pretendere la precarietà altrui, non dovrebbero forse rinunciare alla loro lauta e profumata stabilità?
Zenone Sovilla